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Titolo: L'odio è un veleno prezioso
Fandom: Originale
Personaggi principali: Lucrezia Borgia; Cesare Borgia
Veleno: Belladonna
Citazione: 8
Canzone: E
Genere: Storico; Introspettivo; Angst
Rating: Arancione
Tipo di coppia: Het
Note/avvertimenti: Incest
NdA: (facoltative) Il titolo è parte di una citazione da Charles
Baudelaire: "L'odio è un veleno prezioso, più caro di quello dei Borgia;
perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due
terzi del nostro amore". Per note ulteriori, fare riferimento a quelle
dopo il testo.
L'odio
è un veleno prezioso
Dalle finestre quadrate,
refoli pungenti d’aria d’ottobre si insinuano nella stanza maggiore,
scompigliando le fiamme che danzano nel grosso camino. C’è un tavolo, ancora
apparecchiato per la cena, dove calici e vassoi d’argento giacciono negletti,
semivuoti; sono scossi da un lieve tremore, provocato dal battere clandestino
dei corpi dei due innamorati in nero contro il legno.
Lontani dal fuoco, non si
curano freddo: i loro volti, allungati e magri, sono vicinissimi e respiri
umidi e pesanti si confondono l’uno nell’altro nella luce aranciata. Si
stringono, fanno cozzare le membra in un fruscio di tessuti pesanti, si
strusciano in una lotta aspra e colpevole: le unghie della donna si conficcano
rapaci e vendicative nel collo scoperto dell’uomo, profonde lame, temperate dai
loro peccati.
Sono giochi di sangue, i
loro giochi di adulti; comprendono solo ora che il fiore della gioventù,
innocuo in apparenza, già celava nel calice quel futuro avvelenato.
"Qual è lo spasso che preferisci, César?"
gli domandò, riflettendo sulla pedina da muovere. "Agli scacchi forse
daresti la precedenza alla dama, o a qualche altro gioco? Lo sbaraglino?"
Dopo tanto tempo lontani occorreva conoscersi di nuovo: erano persone differenti
adesso, i figli di Alessandro VI; lui vescovo di Valencia e lei una donna
maritata, contessa di Pesaro. Non erano diventati estranei, tuttavia. Il loro
amore non aveva conosciuto il tramonto, come invece succedeva ad altri. Né
sarebbe accaduto mai.
Così aveva sperato, Lucrezia, ma i suoi erano stati
solo sogni ingenui di fanciulla: molto presto la vita li ha separati, così come
il mare richiama via, ad ogni sospiro, le onde dalle dolci rive sabbiose; il
loro sentimento, tuttavia, è un cavallone violento, sbattuto cento e più volte
contro scogli acuminati, dove si infrange in mille piccole gocce fredde che
schizzano nell'aria per poi precipitare nell’oceano, pronte a una nuova furiosa
impennata.
I baci che si scambiano nella penombra sono moti di irruenza, bagnati di
saliva e sale; in essi è appena trattenuta la pulsione di mordersi a vicenda,
di strappare la carne, facendo scorrere sangue da quelle labbra un tempo
generose di scherzi e lazzi, maschere di miele per verità troppo amare.
César replicò con un sorriso
lento che stirò la bocca sottile, tanto simile a quella della loro madre.
"A costo di sembrare il noioso figuro in cui il
duca nostro fratello[1] va dipingendomi in giro, sarò sincero: la politica, mio
tesoro." Il sorriso si contorse in un ghigno. "Le parole di un vero
Borgia, non è così?" La bocca tornò a ingentilirsi mentre osservava la sua
espressione ben poco compiaciuta. "Ah, non guardarmi a quel modo. Credi
sia un'arte così diversa dal gioco degli scacchi[2]?"
Con l'indice sfiorò
carezzevole la regina d'avorio ancora invitta sul campo di battaglia. I raggi
di sole marzolino che penetravano dagli occhi di vetro delle finestre
zampillavano sulla sua mano tesa, la loro luce che si posava sullo smeraldo al
dito leggera come una farfalla.
Nessun mio tesoro, nessuna cortese galanteria
verso di lei, ora – “Il tuo amore è eterno solo finché dura” –, mentre
le tiene il volto tra le mani, imprigiona i suoi versi con baci forzati – “Non
piangevi lacrime ugualmente amare quando il giovane cameriere è inciampato nel
Tevere[3]?”
Non crede nel Signore
dei Cieli, il Valentino[4]: nella sua Chiesa, è lui l’unico dio spietato che
non offre assoluzioni – "L'ultimo bastardo di Napoli è stato
sufficiente per risollevarti lo spirito... ed eccoti, di nuovo spensierata come
una brezza estiva. Sarà forse per questo che dall'Urbe alla Serenissima si fa
così parlare di chi ti dorme accanto nel letto.”
Ha fermato la sua
mano, bloccandole il polso, e l'ha seguita quando lei aveva indietreggiato sino
al tavolo con l’intenzione di prendere le distanze – “Neppure la tua famiglia è risparmiata da certe
speculazioni: mi sminuiscono insinuando che abbia agito per mera gelosia; che
in nome di essa abbia alzato la mano contro mio fratello, che, per te,
l'alzerei contro mio padre se non portasse in testa la tiara e alla cintura la
borsa dei denari!"
Con la forza, la stessa con cui ha assaltato la Romagna e ucciso i sei
tori nella piazza di fronte San Pietro[5], l'ha costretta bocca contro bocca,
insensibile alle sue resistenze; le morde le labbra, come a strappargliele via,
cedendo al desiderio di farle altro male.
"Rifletti bene,” la esortò César mentre si
sistemava meglio contro i cuscini incrostati di gemme sparsi sul materassino
del lettuccio da giorno. "A conti fatti, in entrambi i casi è una
questione di persuasione." Fece scivolare il dito di lato, sollevando
leggermente il Re dalla scacchiera come a sottolineare un punto. "Negli
scacchi, i bei discorsi non contano tanto quanto negli affari di Stato, te lo
riconosco; tuttavia, c'è maniera di parlare senza parlare, con le azioni. Ogni
giocatore tenta di leggere nella mente dell'altro, carpire la strategia oltre
gli atti: che sia per mia stoltezza se ti concedo la sicurezza di avvicinarti
pericolosamente al mio Re? Oppure, che sia volontà di distruggerti?"
Tutto è piani e battaglia, con lui, tutto è calcolo:
farle sapere troppo tardi della sua venuta per evitare che accampasse una scusa
per non ricevere lui e il suo seguito; imbandire la tavola di vedova con piatti
d’oro e d’argento, far servire cibi a cui il suo ventre trascurato ha perso
l’abitudine; costringerla a sedergli accanto, a banchetto, così che non
perdesse una sola delle parole di guerra, di morte e di vita. Che anche lei
abbia appreso come vedere oltre i suoi magnifici inganni? Oppure, che glieli
abbia volutamente svelati? Anche restar
soli, congedati dalla sala Capranica, Moncada e Cardona[6] kairos, al
momento giusto, come cani ubbidienti, e congedate pure le sue donne, così liete
di avere ospiti, è tattica per mostrare a Nepi e al mondo che, per loro, quello
del preziosissimo sangue[7] conta più di qualunque altro legame reciso: con lo
stilo o col coltello, sono sempre loro, i congiunti più stretti, ad
allontanarla da amori solo vagheggiati oppure veri.
Le armi del loro
padre sono le sue decisioni incontestabili e il latino del notaio Beninbene,
che, per mezzo della parola scritta e della volontà ferra del Cristo in terra,
hanno separato persino ciò che il Signore stesso ha unito. I suoi due fidanzati spagnoli era stata ben felice di perderli senza
averli mai davvero conoscerli: che destino avrebbe avuto con Don Cherubin de
Joan de Centelles, a Valencia, non si era soffermata troppo a domandarselo, e
di esser liberata dall'impegno con Gaspare da Procida le era spiaciuto solo
quanto fosse costato al padre in fatica e dispiacere e, non di meno, in tremila
ducati al Conte di Aversa[8]; poi c'era stato il forzato divorzio da Giovanni,
il marito degli Sforza, per renderla vergine una seconda volta, ma a quel
marito tiepido e senza sapore aveva detto addio senza eccessivo rimpianto.
Dove parole e minacce non
servivano, era arrivato il coltello di César, ben più affilato: la mano è però
sempre quella brutale di Don de Corella[9], che prima di Alfonso ha assaggiato
la carne ancora tenera di Perotto, dentro le carceri di Castel Sant'Angelo, il
suo povero cameriere gettato nel fiume come un rifiuto da scaricare via, legato
polsi e caviglie, mentre lei era in attesa di partorire il loro figlio.
Allora, Lucrezia aveva
perdonato l’imperdonabile in nome dall'amore, e dimenticato per il sangue che
il padre le aveva trasmesso, che la rende l’animo così simile al suo
nell’esplodere di dolore e di collera e nella quiete improvvisa che segue il
gran frastuono di strepiti e guai.
Di Pere aveva lamentato la
morte, l’unico scelto solo dal suo cuore e da lì così brutalmente estirpato,
forse meno a lungo di quanto meritasse. Checché César ne dicesse, non era
bastato il bel sorriso del suo caro Alfonso per curare certe ferite del cuore:
il suo bel volto, tanto simile al San Sebastiano di fronte al quale così spesso
indugia nelle sue visite alla cripta di San Biagio[10], non sarebbe stato
sufficiente a scacciare il ricordo di Pere se non fosse stato che lo specchio
della sua gentilezza, che era tutta quanta potesse appartenere a un uomo.
Ma ora s'era lasciata
mendare, sedurre dalla dolcezza dei suoi baci, tanto distanti dai morsi che
adesso César le infligge alle labbra facendole bruciare, marchiandole pelle coi
denti. La stringe tanto da soffocarla, e lei allora va col pensiero al giovane
santo, al suo corpo quasi completamente nudo attraversato da frecce,
all’espressione quieta dei suoi occhi chiari, come in accettazione del suo
fato. A lungo si era domandata se, mentre Don de Corella avanzava verso il
letto da infermo di Alfonso, suo marito avesse provato quella medesima
rassegnazione; si era domandata se César conoscesse la risposta che cercava: lo
aveva immaginato mentre si faceva narrare ogni dettaglio dalla sporca bocca del
suo più leale e brutale mastino, godendo di ogni immagine cruenta evocata dal
racconto di Don Miguel.
Così, nel colloquio
privato che lui le aveva imposto, pur senza che ordine venisse pronunciato
dalle sue labbra abituate a emettere sentenze letali, aveva chiesto.
“Pensi abbia agito per
gelosia?” Nel suo tono c’era stato disprezzo, come non avesse potuto
offenderlo in modo peggiore che credendo che un cuore umano gli battesse nel
petto, al di sotto del velluto scuro. “Davvero sei convinta che mi sia fatto
guidare da un sentimento tanto capriccioso? Non ho mai alzato la mano contro
qualcuno se non per necessità di sopravvivere.” L’aveva fissata con i suoi occhi di stella
luciferina, assottigliati come quelli di un felino pronto all’attacco. “Mi
guardi con disprezzo. Rivedo le stesse occhiate che il nostro Santo Padre mi
indirizza, come a rimproverarmi di non essere altro da quanto inevitabilmente
sono.” Aveva poggiato il calice ancora pieno a metà di vino francese sul
tavolo, avvicinandosi a lei, costringendola a indietreggiare. “Io non credo
di poter essere migliore di ciò che sono, io sono già il migliore... mi spiace
che tu non riesca a comprendere la mia etica. Sono fiero delle decisioni che ho
la forza di prendere, fiero di ciò che faccio per quelli come noi. Per la
nostra sopravvivenza.”
Le sue spiegazioni
sulla situazione disgraziata degli Aragona, ora che la seconda calata francese
alla conquista di Napoli è una realtà e non più un timore nell’aria, erano
discorsi tremanti di orgoglio e sdegno, vento sulle fiamme della sua collera: e
lei era vampa ed era falena, perché non s’è scansata da suo fratello; non è
sfuggita a César, che la intrappola e la seduce, ancora maestro di scacchi.
“Messa in questa maniera, il principio alla base
degli scacchi è il medesimo della seduzione che, se non sbaglio, è passatempo
caro a voi giovani donne." César sorrise, canzonatorio e galante a un
tempo. Un risolino, uno sbuffo di felicità, le sfuggì dalla bocca. Suo fratello
parlava sempre in modo tanto cortese, come il più gentile fra i cortigiani, ma
riusciva a dire comunque cose a volte piuttosto sbalorditive, che facevano
stupire tutti: a lei piaceva, perché ora la divertiva, ora la strabiliava.
“Non ho fretta,” gli
rispose leziosa, memore degli insegnamenti del loro ospite straniero[11], tanto
convinto della superiorità degli Ottomani nella seduzione... e nella medicina,
nell'arte, nell'astronomia, nella matematica e in molto altro ancora – così si
vantava. Con aria saggia, sbocconcellando frutta candita nei suoi appartamenti odorosi
di mirra, il principe Cem era solito ricordare loro che la fretta era cattiva
consigliera, anche nel diletto; alla maniera araba, spiegava, la partita poteva
iniziare alla mattina e spesso era allietata da dibattiti e musica, spezzata
dal pranzo, sì, ma solo a patto che dopo si potesse continuare la schermaglia;
c'era sempre modo di concedere carezze e baci fatti di sguardi e sorrisi e,
così, di dar da mangiare anche al cuore. Erano quelle le partite che valeva la
pena giocare, non le instabili e violente che andavano per la maggiore negli
ultimi tempi e che potevano finire all'improvviso per colpa pure di un'unica
mossa sgraziata.
Come negargli ragione?
“Ovidio non ci ha lasciato
scritto che non bisogna mai affrettare il piacere, César?” chiese – Giulia[12] l'aveva ripetuto una volta a suo
padre, durante una cena, in un sussurro da amanti riparato a fatica dalle orecchie dei commensali.
"Ah, ma fai torto
alla seduzione se la credi solo amorosa. L’idea di prima vale anche al
converso."
César stirò una lunga gamba fasciata di lana
rossa mentre ribatteva, la suola della calza che frusciava contro il prezioso
tappeto nero e oro ai loro piedi. "Non è certo privilegio unico della
nostra cara Fregnese[13], sotto questo tetto. E in quanto non esclusiva degli
amanti, è bene imparare presto le sue regole." Sorrise furbescamente, con
una punta di sprezzo agli angoli delle labbra.
"Quando ti siedi
sulle ginocchia del nostro Santo Padre, carezzandogli il viso con tutta la
dolcezza della Vergine, non lo stai seducendo, persuadendo per ottenere quello
che desideri? Si tratti di una pezza di seta o di perle per adornarti i
capelli, la tua intenzione è quella di guadagnare qualcosa; al quale scopo, usi
il miele, non l'aceto." Posò nuovamente il Re sulla scacchiera, tendendo
la mano per sfiorarle una guancia. La pelle era calda e asciutta. "Sono le
scaramucce a forgiare il soldato esperto che, prima di raggiungere il grado di
generale, non è che umile scudiero. La seduzione, la persuasione, una volta
appresa, può essere asservita al bene o al male; un piccolo male, innocuo e
senza conseguenza come la puntura di una vespa, che pure ci pare tanto
aggraziata col suo corpo sinuoso, colorato dei nostri colori; un grande male,
come quello di un fiore d'aspetto innocente che rende bello lo sguardo della
donna ma il cui frutto, ingerito, porta alla morte."
Ora Lucrezia vorrebbe essere quella serpe sotto forma
di fiore che César crede sia, ingannatrice e traditrice – verso la famiglia,
perché vede la sua felicità come qualcosa che li danneggia tutti quanti, e che
ferisce la pace del suo animo: un elenco di infantili capricci, frutto di noia
e dell'inconsistenza del cuore. Crede lo abbia tradito perché lo ha rifiutato
con orrore quando lui le ha confessato il suo amore sovversivo: desideri
romantici e pulsioni fisiche resi impossibili dalla comune acqua che un tempo
li ha ospitati dentro il grembo della loro madre, resi lontani dal suo latte
che avevano bevuto, nutriti dagli stessi seni pesanti. È una follia che
appartiene alle tragedie antiche, o alle famiglie senza timore del divino, e le
sciagure sono le ovvie, naturali conseguenze di queste estreme, innaturali
voglie che non ha mai alimentato, perché, cieca, non le aveva mai nemmeno
viste. Erano molte le cose che ignorava, allora.
"Che fiore, César?” chiese, alzandosi dal
lettuccio e afferrando i lembi del fodero alla napolitana, caldo per la pelliccia. Il sorriso che suo fratello
le rivolse aveva il sapore della canzonatura: "Dovresti saperlo meglio di
me, tu che sei donna."
Lucrezia gli rivolse
un'occhiata interrogativa – pure un poco offesa – e per tutta risposta lui si alzò, stirando le braccia ai lati del torso come
Cristo crocifisso.
"Mi sorprende che la
tua Madonna Orsini-Migliorati non ti abbia fatto partecipe di certi trucchetti
di bellezza femminile."
“E tu, che sei uomo,
perché conosci questi segreti?” gli domandò, chinandosi a raccogliere il suo
cagnolino che, troppo a lungo ignorato, le era corso incontro dall’altro lato
della stanza. Gli grattò il collo caldo ricoperto di pelo bianco, appena sotto
il piccolo collare d'argento, pensosa: se erano affari di fanciulle, che
restassero per gli uomini impenetrabili come tutti quei misteri che a loro non
dovevano competere, o altrimenti si sarebbe perso l'effetto desiderato, come
accadeva coi filtri d'amore rivelati prima di venir bevuti – ma, forse, suo
fratello era stato vittima di un tentativo fallito di malia, e perciò conosceva
così bene le arti femminee.
César abbassò le braccia,
sistemandosi il cordone del gonnellino.
"Essere esperto in
più di quanto mi riguardi è uno dei miei numerosi difetti, a sentire
certuni," sorrise, con una strizzatina d'occhio veloce, superandola per
andare a scaldarsi accanto al caminetto e Lucrezia, lasciato libero il piccolo
Bucino, lo seguì con un lieve trottare, quasi fosse lei stessa una bestiola
festosa.
Aveva pregato come un cane al tempio delle sue bugie,
bevendo ogni sua parola come i boschi attorno a Nepi bevono la pioggia che,
oltre le finestre, ha iniziato a cadere lenta, picchiettando contro la pietra
della torre.
“Confidati” lo esortò sollecita. “Necessito di
saperlo. Potrei doverne fare uso per piacere a Messer Sforza.”
César fece una smorfia,
chinandosi per posarle un bacio gentile sulla fronte corrucciata. "Questo
viso non ha bisogno di aiuti. E i tuoi occhi sono già abbastanza ammalianti senza
dover ricorrere ai sortilegi della belladonna." Il suo fiato era caldo
sulla pelle, sapeva di sidro e di menta. "Nessuna erba di strega potrebbe
renderti più bella di quanto non sia già – e di quanto non sarai. Dire che sono
invidioso del tuo futuro sposo non è un'esagerazione." Le mani si posarono
leggere sulle guance, prendendole a coppa e sollevandole il volto verso il suo,
come stesse per baciarla. "Per Giovanni Sforza sarai splendida come quei
fiori porpora; ma non dimenticare, Lucrezia: solo la famiglia è per
sempre."
Le sfuggì un'incosciente
risata allegra, perché era così sciocco pensare potesse mai voler bene a
qualcuno quanto ne voleva a loro che erano sangue del suo sangue e carne della
sua carne – ma poiché non desiderava offendere César, perché lo amava ed era
stato tanto galante, frenò subito il riso e allungò le labbra per baciargli
scorci di palmi e dita.
“Dimmi di più.”
Se potesse passerebbe il veleno dai denti alla sua
bocca, lo inietterebbe con i morsi che ricambia con forza.
"Cosa desideri sapere?" domandò lasciandosi
baciare, la voce attraente. "Del fiore dall'aria innocua della pianta di
campo? Del frutto simile a una bacca di mirto, ma infinitamente più
letale?" Le parlava a quel modo, e intanto le teneva il volto. "Pochi
granelli di polvere possono uccidere un uomo, spezzandolo in due; ma prima lo
allettano con visioni, fanno palpitare più rapido il petto in una dolorosa
stretta; rallentano i sensi, confondono la mente. Come l'amore." Sorrise
lentamente, ma l'occhiata che le conficcò nell'animo era grave; poi abbassò le
palpebre e strofinò naso contro naso. "Se dovessi uccidere un'amante, è
l'arma che sceglierei. Dicono sia un mezzo codardo, il veleno, ma c'è della
poesia in questo: fermare il respiro a chi ci ha fermato il cuore con quanto di
più simile all'amore: una fine lenta, come finisce l'animo umano."
Senza che l'avesse chiesto,
César le aveva offerto quella morte immortale senza neppur dover usare la sua
belladonna: togliendole i suoi amati, dannandole l’anima.
Non si spengono però né la
vita né il dolore mentre azzannano ansanti e, già stanca di lottare, gli batte
veloce il palmo sul petto, una e due e tre e quattro volte, per chiedere
tregua: quando si ferma, Lucrezia allontana le unghie; sposta la mano sulle
dita di César, stringendogliele forte, e le nocche le si fanno bianche, mentre
gli occhi sono diventati per il pianto rossi, e bruciano dietro le palpebre
abbassate; ciglia e guance ancora umide delle lacrime di prima.
Se fossero pagani dei bei
tempi andati, il loro amore sarebbe la luce del sole, ma nella follia e nella
sporcizia di questo triste scenario terreno non c'è innocenza più dolce del
loro dolce peccato, quando inizia il rituale dei baci, una messa di piccole e
lente carezze, più delicate e benevole.
"Siamo nati
malati...” geme.
Oltre tutte le ferite che
si sono inflitti a vicenda, quel sentimento che è una chimera di d’amore
fraterno e innamorato permane, invincibile al resto. Non riesce a resistere,
quando lui avvicina il volto per strofinare i loro nasi come una volta, in quel
tempo in cui la loro sembrava una via lastricata di soli successi, una discesa
verso la grandezza. Non si scosta mentre le punte si sfiorano e le labbra si
muovano sulle labbra. “Non mi interessa,” le dice, quasi privo di fiato,
“l’unico paradiso che mi è concesso è quando sono solo con te. Cosa vuoi in
cambio? Ti dirò i miei peccati e lascerò che affili il tuo coltello per punirmi
come credi. Sarò di nuovo umano, per te, allora, non una bestia. Mi redimerò.
Permetti che ti offra la mia vita.”
"Non implorare. Le
uniche preghiere che ti si addicono sono quelle che puoi rivolgere in camera da
letto...”
Tocca la sua barba, poi le
labbra.
“Allora fai che invochi il
tuo nome nel talamo.”
La voce è bassa, vibrante,
colorata da un legger ansito. Dal volto accaldato, le dita scendono sulla pelle
nuda del collo arricciandola in un tappeto di brividi; scivolano sulle spalle
coperte dalla leggera camicia, giocando lievi col tessuto leggero prima di
continuare il percorso sulle maniche di rascia, indugiando sui fiocchi gemelli
che le assicurano all’abito. La fissa, gli occhi socchiusi come quelli di un
penitente che assaggia i nodi del flagello, un misto di dolore ed estasi nelle
iridi lucide.
Lo sfregare delle mani
sulla stoffa produce un fruscio morbido e ipnotico, il suo respiro le accarezza
le labbra. Una ciocca ramata gli è ricaduta sul viso e danza a ogni sua parola.
Pare il più dolce e innocuo degli amanti, e cela bene dietro la dolcezza il
pericolo. I suoi baci fanno girare la testa e accelerare i battiti, evocano
irripetibili visioni: abbandonarglisi ora non è meno azzardato di prima, eppure
con un passo ha già inevitabilmente attraversato quella soglia.
César ne è ben
consapevole, lo sanno entrambi, perciò la spinge oltre, premendo di più le labbra sulle sue; quando si schiudono, dandogli modo di insinuare la
lingua tra di esse, non lascia fuggire il momento, ma lo coglie con languida calma, la stessa con cui incoraggia le sue giumente più ritrose.
Le dita arrivano sulla sua vita e stringono da sopra la stoffa – ha
sempre amato la sella e la briglia, César, e Lucrezia, che conosce tutte le
callosità da soldato delle sue mani, arrendevole gli permette di scivolare
sulla gonna.
Non gli perdona però ciò
che ha fatto, nel cuore lo sa: la loro storia di sangue, lacrime e veleno; è
insieme vittima e colpevole, affamata di amore perduto e della santità che pare
esser destinata a non raggiungere mai, al pari della felicità. Entrambe sono
sempre alla sua portata ma che non riesce davvero ad afferrare e farle proprie.
Nella rocca dove si era
riunita ad Alfonso – sposa ancora ferita dalla sua fuga e madre in attesa, ma
piena di rinnovate speranze di un sereno futuro napoletano – ora si ricongiunge
al fratello da vedova Aragona, l'Infelicissima principessa di Salerno.
Risponde ai baci, aggrappandosi al suo robone con forza. La bocca di
César sa di uva e fichi, di montone e salse allo zenzero e zafferano, del suo
vino di Francia, che è meno dolce di quelli romani.
Immagina essere sua moglie,
Charlotte[14], che ha un marito vivo e sano ed è libera dalla colpa quando sono
insieme nel letto; ricorda la notizia delle otto volte della loro notte di
nozze che quel giorno di fine maggio era arrivata nell'Urbe, mentre lui la alza
da terra – le risate gaie del padre, fiero di un figlio tanto più virile dello
stesso re di Francia; il piccolo sorriso benevolo che lei aveva rivolto al
pensiero di quel fratello lontano, sollevata dai suoi successi e dall'idea di
essersi entrambi lasciati alle spalle uno scomodo, pericoloso sentimento.
César disfa con un gesto
impaziente la tavola, scostando piatti e posate, ma la testa di Lucrezia bada
solo alle immagini che la sua vicinanza le evoca, ai ricordi di divine leggende
classiche, la passione illecita di Venere e Ares, le dita di Pasifae[15] che
accarezzano il collo grosso del suo toro bianco, i ratti dei satiri lungo le
rive dei fiumi e nel cuore profondo dei boschi; i colori delle sale vaticane e
l'oro dei suoi rilievi che si mescolano seducenti ai ricordi infantili dei
levrieri di César che si accoppiano per i corridoi, delle cavalle in calore
nella corte fra il palazzo e la porta, pronte per la monta degli stalloni.
Gonna e sottogonne non
sono una barriera sufficiente a intralciare le sue mani curiose, né quella sua
volontà con cui ha piegato persino la Fortuna affinché i suoi sogni di gloria
militare si realizzassero; ormai preso dalla voglia, coi palmi arriva alle
cosce, sfregando la carne e scivolando verso l’interno; le accelera il respiro,
mentre Lucrezia è troppo in preda a stupori e tremori per pensare di
protestare.
Le allarga le gambe, alla
fine, rapido e deciso ma senza dolere, e l’aria fredda le fa passare un brivido
di febbre dalla nuca lungo tutta la schiena.
Fuori, la pioggia è
scandita da tuoni che si rincorrono regolari e copre i loro versi asfissiati
dai baci. Non fa sentire loro l'iniziale, discreto bussare alla porta, perché
quasi cinque anni hanno reso le orecchie sorde ai colpi del buonsenso.
"Signora..."
pigola una voce giovane, di donna – occorre un poco prima che la coscienza
riemerga e faccia staccare le loro bocche. Lucrezia cerca subito la mano di
César, per allontanarla, e nel farlo apre gli occhi, fissandogli il viso mentre
ansima a bocca spalancata.
Sogni estatici e servilismo
della volontà: forse le aveva dato una pozione? Suo fratello conosceva bene
maghi e astrologhi. Forse nel vino c'era miscelato un certo succo che produceva
allucinazioni e vertigini e calore nel cervello.
"Questo
viso non ha bisogno di aiuti. E i tuoi occhi sono già abbastanza ammalianti
senza dover ricorrere ai sortilegi della belladonna."
Era cresciuta da
quel pomeriggio di marzo, ancora innocente: ora sapeva che la belladonna poteva
produrre le più strane visioni, sbarazzarsi dei legami dell'ordine, trasportare
dentro la più grande delle meraviglie; e dopo, risvegliati dall'incantesimo, si
aveva la testa tanto leggera da pensare di ballare tutta la notte. Ma poteva
dare anche fra i sogni più penosi, persino inumani.
"Signora",
ripete la voce – adesso che riemerge dall’oblio della ragione, le pare sia
quella di Caterina[16].
César si stacca da lei, il
respiro ancora pesante che si calma presto; del resto, per lui che è abituato a
controllare il destino del mondo, creatore e distruttore, placare gli ansiti
deve esser nulla. Quando Caterina chiede di lui – al terzo richiamo è certo che
si tratti della sua Caterinella – parlando di un messaggero di Vitelli[17] e di
cannoni affogati nella pioggia, suo fratello esita ad allontanarsi.
La fissa come potesse
penetrarla anche solo con lo sguardo.
“Stanotte.”
"...tu sei il mio
veleno" geme disperata.
Amen, amen,
amen.
---------
Note:
[1] Juan, poi morto misteriosamente quando lei affrontava il divorzio
dal primo marito, Giovanni Sforza.
[2] Secondo una tradizione cortese, ancora nel Rinascimento gli scacchi
erano visti come metafora d'amore e buon passatempo per una coppia che
intratteneva relazioni di tipo sentimentale o velate, comunque, da un lieve
erotismo.
[3] La frase fa in realtà il verso alla cronaca – segreta, perché
scritta sul suo diario personale – di Giovanni Burcardo, cerimoniere papale che
annotava tutti gli eventi più importanti alla corte curiale: la vicenda è
quella dell'oscuro omicidio di un giovane cameriere spagnolo – Pedro o Pere
Calderon, detto Caldes o Perotto – che pare a causa della quotidiana vicinanza
con Lucrezia abbia avuto con lei un figlio, il piccolo Giovanni, mentre si
trovava chiusa in convento, in attesa di poter dichiarare il matrimonio con lo
Sforza illegittimo mai consumato; Pere verrà ucciso e gettato nel Tevere con
mani e piedi legati, per ricomparire a galla poco prima del parto di Lucrezia.
La vicenda alimentò le chiacchiere su i suoi rapporti incestuosi con i maschi
di famiglia e la fama nera di Cesare, che avrebbe ucciso il ragazzo per
gelosia.
[4] Come era anche chiamato Cesare Borgia, grazie alla contea del
Valentinois che, mutata in ducato, gli diede per l'appunto questo nome.
[5] Da buon Spagnolo, Cesare si cimentava nelle corride: uccise sei
torri nello spalto di fronte San Pietro il ventiquattro giugno di quello stesso
anno.
[6] I comandanti che Cesare portò con sé a Nepi, alla cena.
[7] Come è definito anche il sangue di Cristo.
[8] Padre del secondo fidanzato, per l'appunto Gaspare da Procida.
[9] Figura poco conosciuta, ma sempre vicina alla famiglia Borgia e in
particolare a Cesare: è noto per esser stato suo fidato capitano, compagno di
studi e boia personale.
[10] A Nepi la Chiesa di San Biagio è affrescata con una bellissima
immagine morente di santo Sebastiano, biondo e trafitto da frecce: non è
difficile credere che Lucrezia abbia pregato lì.
[11] Cem, principe ottomano che era ostaggio di riguardo a Roma.
[12] Giulia la Bella, compagna e lontana parente acquisita di Lucrezia
grazie al matrimonio con Orsino Orsini-Migliorati, figlio di Adriana, sua
istitutrice e cugina e confidente del padre.
[13] Soprannome, sprezzante, di Giulia e di suo fratello Alessandro che
di cognome facevano Farnese: il gioco di parole è piuttosto volgare e allude all'organo
genitale di Giulia, che ha saputo portare fortuna alla famiglia grazie alla
relazione illecita con Rodrigo Borgia.
[14] Charlotte d'Albret, la sposa francese di Cesare che sposò il 10
maggio a Blois, l'anno dopo delle nozze fra Alfonso e Lucrezia. Da lei ebbe una
figlia che non conobbe mai, Luisa, e la coppia si separò poco dopo il
matrimonio, per non vedersi mai più: Charlotte rimase in Francia, mentre Cesare
tornò in Italia, alla conquista della Romagna.
[15] Personaggio della mitologia greca, figlia di Elio e di Perseide,
una ninfa oceanina. Per colpa di Poisedone, si innamora follemente di un
bellissimo toro bianco e con lui genera il minotauro. L'animale dei Borgia è
per l'appunto il toro, che campeggia nel loro stessa.
[16] La negretta dama personale di Lucrezia.
[17] Omaggio a Cesare - Il creatore che ha distrutto, stupendo
manga di Fuyumi Sōryō dedicato per l'appunto a Cesare Borgia.
[18] Altro capitano di ventura al servizio di Cesare, che poi
parteciperà a una congiura contro di lui.