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Autore: CleoWhovian221b    29/03/2016    0 recensioni
Sono solita fare sogni particolari. Non per forza riguardano me e anzi molto spesso mi incarno in persone sconosciute.
Il mio cervello ha questa grande capacità di partorire strane storie che difficilmente dimentico. Ma tenerle per me non mi piace: non mi va di nascondere la mia creatività.
Perché é questo che penso: ogni sogno é un'opera d'arte che mostra le profondità dell'animo umano.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Erano rimasti soli.
Anche se le strade erano piene di erranti, loro erano gli ultimi.
Le ultime persone coscienti, le ultime persone non colpite dal morbo. 
I membri della famiglia Revendie erano seduti, stretti uno accanto all'altro, ad aspettare la notizia alla radio, ormai l'unica cosa funzionante. Nessuno osava dire anche solo una parola,ma il silenzio era comunque rotto dalle lancette dell'orologio, inarrestabili nel loro incessante rincorrersi.
La radio iniziò a captare qualche messaggio; il capofamiglia, ovvero il padre di Hope, ci mise un po' a regolare l'apparecchio in modo che l'informazione venisse percepita chiaramente.
Sfortunatamente non era una diretta, ma una serie di frasi ripetute a oltranza:"Il morbo colpisce tutti. Stare lontano dai malati. Uccidere i neo-infetti. Nessuna esitazione. Sopravvivete."
Tutto qua. Sentenze fredde e apatiche. 
L'abbraccio che Hope sperava rimanesse eternamente sospeso si sciolse. Ognuno si allontanò per la propria strada.
Lei rimase sul divano e si lasciò abbandonare ai ricordi, tutti inevitabilmente legati al morbo.
La malattia non aveva un nome: non c'era stato tempo a sufficienza per renderlo qualcosa di definito, qualcosa proprio degli esseri umani. 
Era giunto silenzioso e si fece sentire troppo tardi. Tutti sapevano i sintomi: un semplice mal di testa che poi si sarebbe trasformato in una stressante emicrania. Il passo successivo erano le visioni. Sempre le stesse. Per tutti. 
Un uomo con gravi ustioni in tutto il corpo, con gli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio ti fissava sussurrando parole indecifrabili.
E poi? Eri spacciato. Perdevi completamente il controllo e l'unico punto fisso era la voglia di uccidere.
Nessuno conosceva le cause. Nessuno conosceva la cura.
Lei e la sua famiglia erano riusciti a barricarsi in casa giusto in tempo. Il loro condominio era diventato un rifugio per coloro che stavano ancora bene. Il quartiere, invece, era l'inferno. Hope guardò fuori dalla finestra: osservare l'orrore che riversava per le strade, ormai rosse per il sangue, la rendeva stranamente distaccata. Sentiva di non far parte di quel mondo, come uno spettatore comodamente seduto in poltrona intento a gustarsi dei pop-corn e un film horror, che comunque, bene o male, sarebbe finito. Si sentiva come un'estranea: lei non faceva parte della razza umana. Si sentiva superiore perché era stata  risparmiata.
Erano dei pensieri orrendi...  Che le stava succedendo? 
Si toccò le tempie.
Raggiunse sua nonna all'ingresso. "Hope stai bene?" "Per quanto sia possibile. Questa situazione mi fa venire il mal di testa". 
La nonna le fece un sorriso, ma non era sincero e spontaneo. Esprimeva tutta la tristezza e la paura che avevano provato in quei giorni.
" Tesoro"disse:"Devi trovare qualcosa con cui distrarti. Prendi me: sto cercando di aggiustare questa porta.." "Puoi provarci quanto vuoi, ma é impossibile. Non si chiude bene da anni. È vecchia e perde pezzi. Vedi questo buco? Sono le termiti."
Il loro discorso fu interrotto da un ruomore improvviso.
Sua mamma si precipitò verso la finestra che dava sul portone.
Hope si avvicinò un passo alla volta. Appoggiò la mano sulla spalla di sua madre che si voltò con aria visibilmente scossa.
Con gli occhi persi nel vuoto si rannicchiò sul divano, in posizione fetale e sussurrò: "Siamo spacciati"
Contemporaneamente Hope vide: decine di persone stavano entrando nel palazzo, brandendo coltelli e altri oggetti contundenti. Decine di persone con i vestiti sporchi di sangue avevano capito, alla fine, dove avevano trovato rifugio le loro prede. La tana dei conigli era stata scoperta.
Un solo pensiero nella mente di Hope: la porta!
Arrivò giusto il tempo, poggiando la schiena contro il legno vecchio e usando tutta la forza che poteva cercando di contrastare  la folla che con violenza desiderava entrare in casa loro e ucciderli.
Dal buco della porta vedeva passare le ombre dei malati, che con urli sovraumani la facevano sobbalzare. 
Qualcosa attirò la sua attenzione: la vicina stava aprendo la sua porta. Il suo sguardo era senza vita e il volto era segnato dalle lacrime.
Ma poi lei la vide: Hope lo percepì chiaramente. Gli occhi della vicina erano incollati ai suoi. Fece un sorriso di rassegnazione. "Si vede che doveva andare così" sembrava pensare. Finché la folla non la travolse e la parete bianca dell'ascensore si macchiò di rosso.
Alle urla dei malati si aggiunsero anche quelle di Hope. 
Suo padre corse ad abbracciarla e in un gesto di protezione le coprì gli occhi. Ormai però lei aveva visto.
"Starò io alla porta" le sussurrò "vai in bagno a sciacquarti il viso e apri la finestra. L'aria fredda ti calmerà. Ti ha sempre calmato".
Una volta che si chiuse a chiave nel bagno, poggiò le mani sul lavandino e si abbandonò a un pianto liberatorio, che le fece venire l'emicrania. 
Nella sua mente era proiettato in continuazione il sorriso della sua vicina. Il volto della rassegnazione e della fine.
Si voltò verso la finestra per aprirla e fu in quel momento che lo vide: l'uomo era lì. Ustionato dalla testa ai piedi, gli occhi di ghiaccio ancorati ai suoi e un braccio alzato, intento a indicarla. Le sue labbra si muovevano incessantemente, sussurrando parole incomprensibili.
Ormai era troppo tardi.

Erano rimasti soli.

 Anche se le strade erano piene di erranti, loro erano gli ultimi. Le ultime persone coscienti, le ultime persone non colpite dal morbo.

 I membri della famiglia Revendie erano seduti, stretti uno accanto all'altro, ad aspettare la notizia alla radio, ormai l'unica cosa funzionante. Nessuno osava dire anche solo una parola,ma il silenzio era comunque rotto dalle lancette dell'orologio, inarrestabili nel loro incessante rincorrersi. La radio iniziò a captare qualche messaggio; il capofamiglia, ovvero il padre di Hope, ci mise un po' a regolare l'apparecchio in modo che l'informazione venisse percepita chiaramente.

Sfortunatamente non era una diretta, ma una serie di frasi ripetute a oltranza:"Il morbo colpisce tutti. Stare lontano dai malati. Uccidere i neo-infetti. Nessuna esitazione. Sopravvivete." Tutto qua. Sentenze fredde e apatiche. 

L'abbraccio che Hope sperava rimanesse eternamente sospeso si sciolse. Ognuno si allontanò per la propria strada. Lei rimase sul divano e si lasciò abbandonare ai ricordi, tutti inevitabilmente legati al morbo. La malattia non aveva un nome: non c'era stato tempo a sufficienza per renderlo qualcosa di definito, qualcosa proprio degli esseri umani. Era giunto silenzioso e si fece sentire troppo tardi. Tutti sapevano i sintomi: un semplice mal di testa che poi si sarebbe trasformato in una stressante emicrania. Il passo successivo erano le visioni. Sempre le stesse. Per tutti.

 Un uomo con gravi ustioni in tutto il corpo, con gli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio ti fissava sussurrando parole indecifrabili.

E poi? Eri spacciato. Perdevi completamente il controllo e l'unico punto fisso era la voglia di uccidere.

Nessuno conosceva le cause.

Nessuno conosceva la cura.

Lei e la sua famiglia erano riusciti a barricarsi in casa giusto in tempo. Il loro condominio era diventato un rifugio per coloro che stavano ancora bene. Il quartiere, invece, era l'inferno. Hope guardò fuori dalla finestra: osservare l'orrore che riversava per le strade, ormai rosse per il sangue, la rendeva stranamente distaccata. Sentiva di non far parte di quel mondo, come uno spettatore comodamente seduto in poltrona intento a gustarsi dei pop-corn e un film horror, che comunque, bene o male, sarebbe finito. Si sentiva come un'estranea: lei non faceva parte della razza umana. Si sentiva superiore perché era stata  risparmiata. Erano dei pensieri orrendi...  Che le stava succedendo? Si toccò le tempie.

Raggiunse sua nonna all'ingresso. "Hope stai bene?" "Per quanto sia possibile. Questa situazione mi fa venire il mal di testa". La nonna le fece un sorriso, ma non era sincero e spontaneo. Esprimeva tutta la tristezza e la paura che avevano provato in quei giorni. "Tesoro"disse:"Devi trovare qualcosa con cui distrarti. Prendi me: sto cercando di aggiustare questa porta.." "Puoi provarci quanto vuoi, ma é impossibile. Non si chiude bene da anni. È vecchia e perde pezzi. Vedi questo buco? Sono le termiti."

Il loro discorso fu interrotto da un ruomore improvviso. Sua mamma si precipitò verso la finestra che dava sul portone. Hope si avvicinò un passo alla volta. Appoggiò la mano sulla spalla di sua madre che si voltò con aria visibilmente scossa. Con gli occhi persi nel vuoto si rannicchiò sul divano, in posizione fetale e sussurrò: "Siamo spacciati". Contemporaneamente Hope vide: decine di persone stavano entrando nel palazzo, brandendo coltelli e altri oggetti contundenti. Decine di persone con i vestiti sporchi di sangue avevano capito, alla fine, dove avevano trovato rifugio le loro prede.

La tana dei conigli era stata scoperta.

Un solo pensiero nella mente di Hope: la porta! Arrivò giusto il tempo, poggiando la schiena contro il legno vecchio e usando tutta la forza che poteva cercando di contrastare  la folla che con violenza desiderava entrare in casa loro e ucciderli. Dal buco della porta vedeva passare le ombre dei malati, che con urli sovraumani la facevano sobbalzare. Qualcosa attirò la sua attenzione: la vicina stava aprendo la sua porta. Il suo sguardo era senza vita e il volto era segnato dalle lacrime. Ma poi lei la vide: Hope lo percepì chiaramente. Gli occhi della vicina erano incollati ai suoi. Fece un sorriso di rassegnazione. "Si vede che doveva andare così" sembrava pensare. Finché la folla non la travolse e la parete bianca dell'ascensore si macchiò di rosso.

Alle urla dei malati si aggiunsero anche quelle di Hope. 

Suo padre corse ad abbracciarla e in un gesto di protezione le coprì gli occhi. Ormai però lei aveva visto. "Starò io alla porta" le sussurrò "vai in bagno a sciacquarti il viso e apri la finestra. L'aria fredda ti calmerà. Ti ha sempre calmato". Una volta che si chiuse a chiave nel bagno, poggiò le mani sul lavandino e si abbandonò a un pianto liberatorio, che le fece venire l'emicrania. Nella sua mente era proiettato in continuazione il sorriso della sua vicina. Il volto della rassegnazione e della fine.

Si voltò verso la finestra per aprirla e fu in quel momento che lo vide: l'uomo era lì. Ustionato dalla testa ai piedi, gli occhi di ghiaccio ancorati ai suoi e un braccio alzato, intento a indicarla. Le sue labbra si muovevano incessantemente, sussurrando parole incomprensibili.

Ormai era troppo tardi.

 

  
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