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Autore: Sandra Prensky    29/03/2016    1 recensioni
ATTENZIONE: Non è una traduzione del libro "Black Widow: Forever Red". Avendolo letto, mi sembrava che ci fosse troppo poca attenzione su Natasha, e allora ho deciso di riscriverlo con tutta un'altra trama.
Natalia Alianovna Romanova, Natasha Romanoff, Vedova Nera. Molti sono i nomi con cui è conosciuta, molte sono le storie che girano su di lei. La verità, però, è una questione di circostanze. Solo Natasha sa cosa sia successo veramente nel suo passato ed è ciò da cui sta cercando di scappare da anni. Quando sembra finalmente essersi lasciata alle spalle tutto, ecco che scopre che la Stanza Rossa, il luogo dove l'hanno trasformata in una vera e propria macchina da guerra, esiste ancora. Solo lei, l'unica Vedova Nera traditrice rimasta in vita, può impedire che gli abomini che ha visto da bambina accadano di nuovo. Per farlo, però, dovrà immergersi nuovamente nel passato che ha tanto faticato a tenere a fondo, e sarà ancora più doloroso di una volta: tutta la vita che si è costruita allo SHIELD, tutte le persone a cui tiene sono bersagli. Natasha si ritroverà di nuovo a dover salvare il mondo, affrontando vecchi e nuovi nemici e soprattutto se stessa.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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I.

 

My past is my own.

(Black Widow)

 

 

Somewhere in Siberia, Russia.

61°N, 99°E.

Thursday, 3rd December 2015

11.37am

 

 

Faceva freddo, persino per lei. Si concesse di muovere una mano per aggiustarsi il cappuccio bianco sulla testa. Era un buon modo per non mandare il braccio in ibernazione e in più non poteva certo permettersi di lasciare dei riccioli rossi scoperti. In mezzo alla neve sarebbero stati l’equivalente di urlare ai nemici per avvisarli della sua presenza. No, lei era stata addestrata meglio di così. Sdraiata immobile sulla neve di un piccolo rilievo di una valle lontana da ogni segno di civiltà, vestita totalmente di bianco per confondersi con il manto candido che copriva la terra, Natasha Romanoff era un predatore pronto a saltare sulla preda. O in questo caso, a spararle. Tutto sembrava tranquillo, tuttavia, i nemici del giorno tardavano a presentarsi. Odiava aspettare, perché le dava modo di pensare, e pensare non era un bel passatempo, non quando si aveva un passato come il suo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dimenticare tutto, per non essere costretta a rivedere ogni notte gli occhi vacui di chiunque avesse avuto la sfortuna di incrociare la sua strada, la Stanza Rossa e i suoi esperimenti. Da quando aveva lasciato lo SHIELD, anche quello portava solo brutti ricordi. Tutti si erano stupiti della sua improvvisa partenza: tutti meno May. Lei poteva capirla a fondo, sapeva cosa volesse dire non potersi sentire a casa da nessuna parte. Sapeva cosa volesse dire non poter essere felici. Lo stesso concetto di felicità sembrava non essere per lei... Era una maledizione, una costante della sua vita. Non era possibile per lei essere felice. Certo, per un breve periodo lo era stata, con Clint... O era ciò che mi dicevo.

Tutto d’un tratto, scorse un movimento a circa duecento metri da lei. Un uomo, vestito di nero, che correva. Era indubbiamente il suo obiettivo. Igor Vasnetsov, 45 anni, residente a Mosca. Una moglie, due figlie di dieci e sette anni, vita apparentemente tranquilla. Tutta una copertura per nascondere il suo lavoro nella Stanza Rossa. Lo S.H.I.E.L.D. pensava che non esistesse più, ma lei conosceva troppo bene il programma per crederci. La Stanza Rossa non poteva semplicemente smettere di esistere, era troppo radicata negli anni, la sua storia era impregnata di talmente tanto sangue da risultare impossibile da cancellare. Non biasimava certo lo S.H.I.E.L.D.. Non si poteva comprendere a fondo a meno che, come lei, non si fosse parte di essa. Lei, come molte, troppe, altre ragazze, era cresciuta nella Stanza Rossa. Le avevano insegnato a non avere un’altra casa se non quella, aveva dovuto giurare fedeltà a coloro che la avrebbero uccisa senza problemi. Lei come le altre sarebbero per sempre state legate alla Stanza Rossa, loro erano la Stanza Rossa.

Era cominciata dieci mesi prima, quando ancora lavorava allo S.H.I.E.L.D.. Erano arrivati all’ufficio di Fury dei fascicoli su una serie di omicidi, uno di quei casi che l’FBI rifilava sempre a loro perché non aveva voglia di occuparsene. Le circostanze degli accaduti erano simili tra loro, e qualche agente era stato mandato in Russia, luogo dei delitti, per accertarsi che fosse tutto nella norma. Nessuno di loro aveva mai fatto ritorno. Dal Triskelion erano partite le ricerche, erano stati contattati scienziati, i fascicoli avevano raggiunto i piani alti. C’era chi sosteneva che i colpevoli fossero dei dissidenti neo-staliniani, chi sosteneva che invece fossero agenti dell’HYDRA, chi sosteneva che fossero solo un gruppo di sicari che cercava di farsi una reputazione. Lei non avrebbe nemmeno dovuto vedere quei file, non aveva l’autorizzazione. Le era casualmente caduto l’occhio sopra durante una riunione con il direttore, e solo dalla quantità di “Top Secret” e caratteri cirillici scritti sopra, le era sembrato da subito sospetto. Il pensiero di quella cartella l’aveva perseguitata per tutto il giorno e la notte seguenti, e la mattina seguente si era infiltrata nell’ufficio di Fury, evitando le telecamere e raggirando i sistemi di sicurezza con i suoi soliti trucchi. Aveva fotocopiato i file, facendo ben attenzione a non lasciare tracce del suo passaggio, nemmeno impronte digitali, ed era tornata a casa a esaminarli. Quella sera aveva a mala pena degnato Clint di uno sguardo e saltato cena per leggerli tutti. Nel mezzo della notte, quando il silenzio era interrotto solo dal lieve russare di Clint dall’altra stanza, li aveva già riesaminati svariate volte e non aveva dubbi: la mancanza di impronte o di tracce, lo spargimento minimo di sangue, la scarsità di testimoni di qualsiasi avvenimento fuori dalla norma, la scomparsa totale degli agenti mandati a indagare, persino le date e i luoghi dei delitti riconducevano tutto ai metodi che utilizzava lei da giovane, ergo ai metodi della Stanza Rossa.

Dopo quel giorno, non aveva più avuto pace. Aveva condotto in solitaria delle indagini, nella certezza che se avesse comunicato le sue opinioni a qualcuno non le avrebbero creduto o, ancora peggio, avrebbero sottovalutato la Stanza Rossa e messo tutti in pericolo. Era diventata così assorta nelle sue ricerche da ignorare qualunque altra cosa, chiunque altro. Era ritornata a non parlare mai, a cercare la solitudine, a evitare in qualunque modo i contatti umani. Non riusciva a dormire più di tre ore per notte, mangiava a mala pena. E così, aveva lasciato lo S.H.I.E.L.D., poco più di tre mesi addietro. Era tornata in Russia, a lavorare da sola, divorata dalle ricerche di indizi di qualunque cosa che potesse ricondurla alla nuova Stanza Rossa. Finalmente, dopo diverse settimane di notti quasi insonni, era riuscita a ricavare un nome, quello dell’uomo che stava correndo davanti a lei nella neve. Il motivo della sua fretta le era ignoto, ma poco importava. Aveva bisogno di risposte. Aveva bisogno di porre la parola fine al suo passato, distruggendo tutto ciò che lo aveva popolato, impedendo che la storia si ripetesse. Niente più Vedove Nere. Niente più Stanza Rossa. Inspirò, posizionando meglio l’occhio sul mirino, aumentando gradualmente la pressione del dito sul grilletto. L’adrenalina che la accompagnava sempre prima di sparare non aveva mancato di presentarsi, le scorreva nelle vene come una droga. Espirò lentamente, e il mondo intorno a lei si fermò. Non sentiva più nessun rumore, non vedeva più niente muoversi. Tutto era immobile, eccetto la sua vittima, e lo rimase per una manciata di eterni secondi. Poi, tutto prese invece un ritmo frenetico. Il dito che spinge sul grilletto. Il suono ovattato del silenziatore. Il piccolo contraccolpo. Il proiettile che parte, fendendo l’aria. Natasha riusciva quasi a sentire il suo suono nell’aria. Il proiettile colpì alla gamba l’uomo, che cadde a terra con un gemito udibile anche a quella distanza. Esattamente dove doveva colpire. Non aveva mai incontrato nessuno con una mira migliore della sua, eccetto Clint. Un piccolo ghigno di soddisfazione increspò le labbra della rossa. Si alzò, e con una calma metodica scompose i pezzi del fucile e li ripose in una sacca, che si caricò a spalle. Con un’ammirevole agilità, considerata la consistenza del suolo nevoso sul quale stava muovendosi, scese dal rilievo e si avvicinò a Vasnetsov, riverso nella neve a gemere, impegnato a reggersi la gamba ferita, dalla quale il sangue usciva copiosamente a intaccare la purezza del candido manto. Con un elegante movimento del polso, estrasse dalla cintura un coltello e lo conficcò senza troppi indugi direttamente nella ferita dell’uomo. Un urlo agghiacciante riempì il silenzio della valle, facendo sì che uno stormo di corvi a un centinaio di metri di distanza si innalzasse in volo, spaventato dal rumore. Con una calma il cui unico scopo era far irritare Vasnetsov, Natasha iniziò a giocherellare con l’arma, girandola e muovendola all’interno della ferita. L’uomo smise di urlare, e cercò di ricomporsi come poteva. Lasciava pienamente intendere di non avere intenzione di dargliela vinta tanto facilmente. Digrignò i denti, e prese a fissarla in cagnesco, senza riuscire a trattenere dei rantoli. La sua fronte era imperlata di sudore, nonostante il freddo, e sul capo calveggiante si potevano delineare i contorni delle vene pulsanti. Rimasero in quella posizione per una manciata di secondi. Quando l’uomo si rese conto che Natasha non aveva la benché minima intenzione di aprire bocca e nemmeno dava l’impressione di volerlo uccidere, cercò di dare un freno ai violenti tremiti che scuotevano il suo corpo e parlò.

-Qualunque cosa tu voglia sapere, non dirò niente.- La voce impastata rendeva ancora più biascicato il suo modo di parlare, ed enfatizzava il forte accento russo.

-Forse non mi conosci, ma credimi, so essere veramente persuasiva.- Eppure dal fatto che le avesse parlato in inglese e non in russo le faceva presagire che invece lui sapesse perfettamente chi fosse la sua assalitrice. La risposta mise luce sui suoi dubbi.

-Ma certo che ti conosco. Tutti ti conoscono qui... Sei la Romanova, l’americana, la traditrice. Lui aveva detto che saresti tornata.- Un rivolo di sangue fuoriuscì dalla sua bocca.

-Lui chi?- Chiese lei, senza spostare di un millimetro i severi occhi di smeraldo da quelli dell’uomo.

-Non ha importanza chi. Non più.- Un ghigno prese forma sul volto di Vasnetsov, e ne derivò una risata aspra e sgradevole. Natasha conficcò il coltello più in profondità nella carne, provocando un gemito di dolore.

-Dimmi dove si trova la nuova Stanza Rossa, e chi c’è a capo di tutto questo.- Il suo tono era tanto neutro e pacato da non sembrare nemmeno prodotto da un essere umano. Tuttavia, tutto ciò che ottenne fu che l’uomo intensificasse la sua risata.

-Credi di essere diversa dalle altre, Natalia? Credi di essere in grado di fermare la Stanza Rossa, di pulirti la coscienza così? Non ci riuscirai mai. Per quanto tu possa fingere di essere di più, non sei altro che una pedina creata da chi mi ha preceduto, programmata per uccidere chi ti comandiamo noi. Quando dici di non essere più la Vedova Nera che la Stanza Rossa aveva forgiato, non fai altro che mentire a te stessa. Tu sei e rimarrai sempre di nostra proprietà.- Un lieve tremito scosse la mano di Natasha, che strinse la presa sul manico del coltello. Lo affondò ancora di più nella gamba di Vasnetsov, fino a sentire un lieve “crack”. Aveva raggiunto l’osso e l’aveva rotto.

-Rispondi alle mie domande, e forse la tua morte non sarà troppo lunga.- La sua voce era ancora posata, ma a un orecchio allenato non sarebbe sfuggita la lieve nota di impazienza al fondo. L’uomo riprese a ridere, ancora più forte di prima.

-Come vedi, cara, siamo sempre un passo avanti a te.- Prima che Natasha potesse elaborare il significato della frase, una schiuma bianca con venature rosse del sangue iniziava a uscire dalla bocca di Vasnetsov. Cianuro, pensò Natasha attivandosi per fermare la reazione. Purtroppo, era già troppo tardi. Con un’espressione di vittoria dipinta sul volto, l’uomo si lasciò possedere dalle convulsioni.

-потерять, Наталья. (Perderai, Natalia)- Detto questo, i suoi occhi si fecero vitrei, e la testa si riversò all’indietro. Natasha lo guardò un attimo, presa in contropiede dall'evento. Sbatté violentemente la mano sul petto inerte dell'uomo.

-черт побери! (Dannazione!)- Come aveva potuto essere così stupida da pensare che avrebbe potuto avere la meglio su di lui senza che lui avesse un piano per situazioni come quella? Abbassò il cappuccio e si passò una mano tra i capelli vermigli. Sospirò, e una nuvoletta causata dal freddo apparve di fronte alle sue labbra, per poi svanire dopo qualche secondo. Ancora in ginocchio sulla neve, di fianco al cadavere, si diede un’occhiata intorno. Nessun indizio sulla causa per cui Vasnetsov stava correndo. Si abbassò verso il corpo dell’uomo. Non poteva certo riportarlo in vita, ma avrebbe comunque tratto vantaggio di tutto ciò che avrebbe potuto. Era vestito come un soldato ai tempi del comunismo, l’unica cosa che gli mancava era un colbacco. Fatto bizarro, in quanto sotto copertura ci si sarebbe aspettati un abbigliamento che desse meno nell’occhio e soprattutto non rimandasse al periodo staliniano. Tastò la giacca, in cerca di protuberanze sospette. Ne trovò una all’altezza del petto e sbottonò la parte superiore dell’uniforme. Iniziò a frugare nelle tasche interne, estraendone, dopo qualche attimo, un quadernino. Si fermò a esaminarlo. Era pieno di disegni a dir poco curiosi e numeri apparentemente messi alla rinfusa, parole in diverse lingue che, sebbene lei le parlasse tutte, non avevano un senso. Fece scivolare il quadernetto nella propria tasca, decidendo che lo avrebbe preso in esame con più attenzione una volta tornata all’appartamento. Continuò a cercare per le altre tasche, sebbene ciò portò risultati alquanto insoddisfacenti. La maggior parte delle tasche della giacca erano vuote, fatta eccezione per una fiaschetta semi vuota. La aprì, e ne odorò il contenuto. Vodka, pensò. Così cliché. Inclinò la fiaschetta, e un liquido trasparente ne uscì, confermando la sua tesi. Ne avrebbe bevuto molto volentieri un sorso, ma era troppo prudente per provarci. Non si sapeva mai. Guardò l’uomo, e pensò che non aveva la faccia di un alcoolista. Beveva probabilmente solo occasionalmente. Gettò la fiaschetta nella neve, e riprese la sua ricerca di inidizi nelle tasche dei pantaloni, questa volta. Ne estrasse una banconota da 50 rubli e una ricevuta di pagamento, ma entrambe erano impregnate di sangue ed era impossibile distinguere cosa ci fosse scritto sopra. Traendo le somme, tutto ciò che era riuscita a recuperare era un quadernetto pieno di iscrizioni incomprensibili. Piuttosto magro, come bottino, ma se lo sarebbe fatto andare bene. Si alzò, scrollandosi la neve di dosso. Erano in un punto piuttosto nascosto e comunque lontano da città e villaggi. Si strinse nella sua giacca, e decise di lasciare agli orsi il compito di sbarazzarsi del cadavere.

 

 

Kirensk, Siberia.

57°47′N 108°05′E

Few hours later

 

 

Uscì dalla doccia più stanca di prima. Raccolse la massa di ricci rossi bagnati dentro un asciugamano e con un altro avvolse il proprio corpo. Con una fatica non banale si trascinò verso il letto della camera di albergo in cui aveva alloggiato negli ultimi giorni, rigorosamente sotto falso nome. Era piccola, ma non era abituata né le servivano spazi e lussi eccedenti. Era composta da due camere. La camera da letto, dove la maggior parte dello spazio era occupata un letto a due piazze addossato al muro. Di fianco a esso c’era un piccolo comodino di legno di cui nessuno negli anni si era preso cura, in quanto il legno era scurito e rovinato dai tarli in più punti. Adiacente al muro dall’altra parte, c’era una scrivania di semplice compensato, accompagnata da una sedia piuttosto malconcia. Una lampada era appoggiata sull’angolo a destra della scrivania, tuttavia la luce che emetteva era alquanto fioca, e anche sommata alla insignificante quantità di illuminazione che arrivava dalla piccola finestrella in alto la stanza rimaneva piuttosto buia. Le pareti erano bianche e avevano un urgente bisogno di una nuova mano di tinteggiatura. In fondo alla stanza una porticina si apriva su un minuscolo bagno, dove doccia e sanitari erano letteralmente incollati l’uno all’altro. Se solo Natasha avesse avuto qualche kilo in più, non sarebbe riuscita a passare. In effetti, dubitava che chiunque anche solo con la corporatura di qualsiasi altro Avenger ce l’avrebbe fatta. Si lasciò cadere sul letto, supina, senza preoccuparsi di bagnare le lenzuola. Non si sarebbe presa un malanno comunque, uno dei pochi vantaggi di avere il siero della Vedova Nera che le scorreva tra le vene. Chiuse un attimo le palpebre. Le sembrava che il suo corpo pesasse il doppio del solito, ogni movimento le risultava tremendamente difficile. Anche sforzandosi, non riusciva a ricordare l’ultima notte in cui aveva dormito più di due ore, tantomeno più di due ore senza incubi. Rimase sdraiata per qualche minuto, completamente inerte. Non fosse stato per il quasi impercettibile alzarsi e abbassarsi del petto, si sarebbe potuta dire morta. Finalmente, riuscì a costringersi a risollevare le palpebre e addirittura alzarsi dal letto. I suoi capelli erano praticamente asciutti e avevano assunto il loro naturale aspetto disordinato. Gettò entrambi gli asciugamani nel lavandino del bagno e prese dalla sua sacca una felpa gigante, con il simbolo dello S.H.I.E.L.D. stampato in grande sopra. Gliel’aveva prestata Clint quando lei era arrivata, un’eternità addietro, e non l’aveva più rivoluta. Pur avendola lavata centinaia di volte, si avvertiva ancora il profumo misto di dopobarba e caffè che Natasha aveva sempre associato a lui. Ormai pure quel profumo le evocava ricordi dolorosi, però in qualche maniera le dava ancora una sensazione di sicurezza. Era decisamente troppo larga per lei, le arrivava circa alle ginocchia e le maniche quasi parevano vuote, però era molto più comoda delle solite tutine aderenti in cui era costretta. Con solo quella addosso, si avvicinò alla scrivania con passo felpato e si accomodò sulla sedia traballante. Aveva già oziato troppo, doveva smettere di rimuginare sul passato e mettersi al lavoro. Si ripetè per l’ennesima volta che lasciare Clint e lo S.H.I.E.L.D. era stata la scelta giusta perché lei era diventata un peso per loro e sospirò profondamente. Incrociò le lunghe gambe scoperte su di essa e prese in mano il quadernetto che aveva recuperato, sfogliandolo. Le prime dieci pagine erano stranamente vuote. Provò a esaminarle da vicino, ma non c’era traccia nemmeno di inchiostro sbiadito. Le prime scritte sulle pagine seguenti erano tutte formule chimiche. C’era un disegno dettagliato della tavola periodica, che includeva qualsiasi dato utile, dal numero atomico all’elettronegatività, dalla configurazione elettronica al raggio atomico. Le pagine seguenti erano scritte metà in alfabeto cirillico e metà in russo traslitterato, e vi erano enumerate le reazioni mortali che si potevano ottenere mescolando diversi di quegli elementi. Se già le sembrava strano che un russo traslitterasse la propria lingua, ciò che lesse nelle pagine seguenti era ancora più particolare: parole francesi traslitterate in cirillico, frasi metà in tedesco e metà in italiano, parole inglesi scritte senza apparente nesso al resto. C’erano anche diversi disegni, di progetti e di configurazioni della struttura di una certa moltitudine di molecole. Si fece tardi e scese la notte, ma lei continuò imperterrita a leggere e sfogliare, rapita dal tentativo di trovare un filo logico in quelle scritte, capendoci però sempre meno. Non era nemmeno sicura che le frasi in una stessa pagina fossero state scritte nello stesso periodo, o dalla stessa persona, o da un individuo sano di mente. Più proseguiva, più tutto era confuso. Fino ad arrivare alle ultime venti pagine, dove c’era scritta solo una coppia di parole, ripetuta per tutto lo spazio disponibile in quei fogli: навсегда красный (per sempre rosso/forever red)

   
 
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