Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: _Blanca_    01/04/2016    1 recensioni
«Mi segue» disse Anna.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.»

Ottobre 1875. Dalle coste della Nova Scotia, Anna Hawkins si imbarca per l’Inghilterra, dove vivrà con gli zii Woodhams, ricchi borghesi del Kent. Anna sa che vivere nel cuore dell'Impero, tra i bianchi sudditi della regina Vittoria, non sarà semplice. Lei è una Metis. È figlia di un inglese, che ha fatto fortuna come cacciatore di taglie, e di una donna della Prima Nazione. Ma Anna sa anche di non poter tornare indietro. Il suo viaggio è una fuga. Una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, da un destino che la terrorizza. La nuova esistenza nel Kent, tuttavia, si rivelerà diversa da qualsiasi speranza o timore. Anna dovrà affrontare i segreti di una vecchia casa e di una stanza che non deve mai essere aperta; dovrà tenere testa a una zia decisa a odiarla e a uno scrittore di racconti del terrore, capace di dare un’impronta fin troppo realistica agli incubi di carta e inchiostro. E, sullo sfondo del tutto, toccherà a lei risolvere l’enigma di un misterioso suicidio.
Genere: Horror, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
3




III. Granelli di sale





Quando la cameriera comunicò che la cena sarebbe stata servita di lì a pochi minuti, Anna si era già cambiata d'abito, dopo aver almanaccato su quale pezzo del suo scarno guardaroba fosse presentabile a un pasto serale. Esistevano delle regole, lo sapeva. Ma quali fossero le regole era sempre stato, e restava, un enigma. Nel dubbio, si era infilata in un abito sui toni del ruggine. La blusa era accollata e aderente; le maniche lunghe e strette; la gonna liscia e stretta, priva di balze, se non sul didietro. Anna aborriva il sellino; e nessuno le aveva mai fatto capire l’importanza di stringersi in un corsetto. Lo indossava di rado. Quella sera era una delle sporadiche occasioni.
Prima di uscire dalla camera, seduta al vanity, si assicurò che nessuno ciuffo fosse sfuggito alla treccia, sciolta sulla schiena. Non sapeva mai come sistemare i capelli e trovava difficile, a tratti fastidioso, raccoglierli sulla nuca, perché i suoi capelli, nerissimi e molto più corti di quanto imponesse la moda, erano naturalmente lisci e pesanti.
Su una cosa, dunque, la signora Woodhams aveva ragione: Anna somigliava poco al padre inglese e fin troppo a una madre che tutti chiamavano selvaggia. Le somigliava nel colore della pelle, nella forma ovale del viso, nel naso aquilino e negli zigomi prominenti. Ancor di più, le somigliava nel luminoso castano degli occhi. Nella persona di Anna ― e Anna ne era consapevole ― poteva essere indicata un’infamia quasi maggiore al sangue misto, quella era l’espressione volitiva, diretta, priva della pudica dolcezza che una creatura nata donna avrebbe dovuto possedere.
Scendendo al piano inferiore, Anna trovò subito il salone da pranzo: la porta era stata spalancata. Il salone era l’ambiente dirimpetto al parlour. Le diede l’impressione di essere grande quanto quest’ultimo, e poco meno gremito di soprammobili. Il fuoco nel camino scoppiettava e dall’orologio d’argento, sulla mensola di marmo, si diffondeva un limpido ticchettio. Delle tende rosse nascondevano il vano della grande finestra a bovindo, come un sipario davanti al palco di un teatro.
I Woodhams, seduti ai capi opposti di un tavolo al quale avrebbe trovato comodamente posto una decina di commensali, erano eleganti. Lo zio Woodhams portava un lucido gilet color cipria con i bottoni di madreperla e la signora Woodhams era fasciata in un raso blu dai riflessi viola. Una spilla d’oro era appuntata al colletto di trina nera.
Anna fu invitata dallo zio a occupare il terzo posto apparecchiato: a metà del lato lungo del tavolo. Lei sedette trattenendo un sorriso. Non sarebbero sembrati ridicoli, a passarsi brocche e casseruole da quella distanza? Ma appena Lillian le sistemò dinanzi una scodella già piena di zuppa di gamberi, e le riempì il calice, comprese la scioccante verità: nessuno si sarebbe servito da sé. Fece per fiondarsi sul cucchiaio ma vide la signora Woodhams unire le mani. Anna ritirò il braccio e corse ai ripari, imitando la posa assunta dallo zio: mani giunte e occhi bassi. La signora Woodhams recitava una preghiera di ringraziamento, Anna non trovò di meglio da fare che spiare Lillian. L’aveva di fronte. La domestica stava in piedi, accanto alla porta, con le spalle rivolte al muro; zitta, immobile e con lo sguardo basso.
La signora Woodhams terminò la preghiera. Venne il momento del segno della croce. Poi, quello della zuppa, durante il quale lo zio sollecitò gaiamente Anna a ripetere il racconto del proprio viaggio, a beneficio della zia. Anna lo accontentò. Ma, mentre parlava, dovette sforzandosi di ignorare l’atteggiamento della zia, che a mala pena le rivolgeva lo sguardo. E quando lo faceva, erano occhiate colme di noia e sufficienza, come se stesse sopportando la presenza di una creaturina particolarmente rumorosa.
Anna disse che la decisione di lasciare la Nova Scotia era stata ponderata per settimane. Da quando era rimasta sola, si guadagnava da vivere lavorando in un emporio, al porto di Yarmouth, gestito dai Martin. Marito e moglie. I Martin erano stati amici di suo padre e le avevano offerto sistemazione in una stanzetta, tutta per lei, sopra il negozio. Certo, la paga era poco più di una miseria e lei non desiderava invecchiare tra gli scaffali dell’emporio, ma l’Inghilterra sembrava così spaventosamente lontana.
Tuttavia, Anna considerava la capacità di prendere decisioni avventate, cancellando in un sol colpo le riflessioni precedenti, il suo personalissimo talento.
Una mattina di fine settembre si era svegliata e, mentre fissava il soffitto di quella sua stanzetta, aveva deciso che era il giorno buono per fare i bagagli per il Vecchio Mondo. Era andata in diligenza fino a Halifax e lì si era imbarcata a bordo della SS Augusta. L'oceano l'aveva visto sempre e solo dalle banchine del porto. Ritrovarvisi al centro, su di un puntino di metallo, sperduto in un’infinita distesa d'acqua, era stata una sensazione come, poteva metterci la mano sul fuoco, non ne avrebbe più provate in vita sua. In undici giorni l'Augustaaveva coperto la rotta da Halifax a Londra. E che città era Londra! Che caos! Con tutte quelle strade, e quelle carrozze, e i fiumi di gente, e le scie di fumo nero nel cielo e gli odori pungenti. No. Non avrebbe mai avuto il coraggio di vivere a Londra. Era stato un sollievo quando il treno aveva abbandonato Londra per immergersi nella pettinata campagna del Kent.
«Ti invidio, Anna» disse lo zio. «In mezzo secolo, sono andato per mare una volta soltanto! Due mesi in Belgio, e subito di ritorno. Ma quante città sul Continente vorrei visitare. E l’America! Ah, l’America!»
«Viaggiare da sola, per una donna, è sconveniente» lo interruppe la moglie, serafica. «Una signora, o signorina, che abbia a cuore la propria reputazione non azzarderebbe tanto. Oltre che pericoloso, può sollevare cattive voci.»
Lo zio Woodhams rise.
«Tuo padre, Anna, doveva essere l'unico Hawkins amante dell’avventura.»
«L'avventura non è materia per donne.»
«Sarà come dite voi, mia cara» sospirò distrattamente lo zio Woodhams e tornò a rivolgersi ad Anna. «Avrei voluto conoscere Jonathan. Uomo coraggioso, senza dubbio. Partire per le colonie da giovane... quanti anni aveva, all'epoca? Diciassette? Diciotto?»
«Ventuno» disse la signora Woodhams. «E io vorrei che si potesse giungere al termine di questa cena senza nominare ulteriormente mio fratello.»
Lo zio e Anna si guardarono l'un l'altra. Lui le regalò un placido sorriso di paziente complicità. Poi, scosse il capo e cambiò argomento. «Vivian, non vi ho ancora detto come la nostra Anna è arrivata a Bon Fleur, questo pomeriggio. William Hall era al George Inn! L’ha riconosciuta e le ha offerto il calesse.» La faccenda pareva inspirargli una discreta soddisfazione.
In quanto alla signora Woodhams, invece, qualcosa, nella rivelazione, dovette suonarle particolarmente inaspettato. O orripilante. O entrambe le cose. Ad Anna non fu chiaro. La zia abbassò il cucchiaio e serrò le labbra. Fissò il marito. Fissò Anna. E, ancora, il marito. Ma, alla fine, quel che la signora pronunciò fu un semplice e asciutto: «Non sapevo che il giovane Hall fosse tornato da Londra.» E immerse di nuovo il cucchiaio nella zuppa.
«Io l’ho saputo solo oggi pomeriggio. Sua sorella Ada era dagli Ellis. Ha detto che William è tornato due giorni fa.»
«Ha trovato quel che cercava, a Londra?»
«Questo non l'ho scoperto.»
«Cosa cercava?» si intromise Anna.
«Un editore.»
«Ah, sì, capisco... Mi ha detto di essere uno scrittore.»
«Un aspirante Le Fanu. Almeno, questa era la sua aspirazione, l'ultima volta che l'ho incontrato. Caro William! L'abbiamo praticamente visto crescere, insieme ai suoi fratelli. Sono i figli del vecchio dottor Hall, Dio l'abbia in gloria. William è il figlio di mezzo. Non avrà più di due o tre anni più te. Un giovanotto a modo, l’avrai notato. E anche di bell'aspetto, mi dicono. Ma questo lo lascio decidere a te.» Il signor Woodhams chiacchierava a cuor leggero, ignaro ― o forse volutamente indifferente, come sospettò Anna ― del crescendo di gelido astio sul viso tirato della moglie. «È quanto meno curioso che che sia ancora scapolo. ― Signora Woodhams, non sarebbe bello se Anna lo sposasse?»
Ad Anna andò di traverso il sorso di zuppa. ‘Questa è la definizione di discorso prematuro!’ Tossì dietro al pugno chiuso.
La signora Woodhams non batté ciglio. «Personalmente, non augurerei a nessuno di sposare uno scribacchino che vive sulle spalle del fratello maggiore. Ma a ogni modo, l'unica opinione che conta, in merito, è quella di William.»
«E... uhm... la mia» aggiunse Anna.
Per la prima volta, la signora Woodhams le rivolse un sorriso.
E fu un sorriso talmente pregno di compatimento che Anna si ritrovò a pensare che uno sguardo in cagnesco sarebbe stato meno umiliante.
«Tu non puoi reclamare alcun diritto di scelta. O sei davvero tanto ingenua da credere altrimenti? Da non capire il peso della tua condizione di nascita? Se un vero inglese, per di più in buone condizioni economiche e di famiglia rispettabile, dovesse mai volerti per moglie, se fosse pronto ad abbassarsi a tanto, un rifiuto da parte tua sarebbe impensabile, e inaccettabile sotto ogni punto di vista.»
«Via! Via!» intervenne lo zio. «Signora, quanta severità!»
Ad Anna scottava il viso. Non di vergogna, ma di rabbia. Nemmeno tentò di tenere a freno la lingua. «Pensate un po’, zia, io ho già ricevuto una proposta di matrimonio. E l'ho rifiutata. Senza pensarci due volte. E senza sentirmi in colpa. E lo rifarò in futuro, ogni volta che sarà necessario.»  
«Se quanto affermi è la verità» ribatté la signora Woodhams, senza scomporsi, «devo credere che, in quanto ad arroganza e mancanza di intelletto e buon senso, tu sia addirittura peggiore di tuo padre. Jonathan era un tale sciocco.» Tracciò un cerchio sul fondo del piatto, con la punta del cucchiaio, in un movimento leggiadro del polso. «Uno sciocco dalla lingua lunga. Mi ha sempre stupito che sia riuscito a sopravvivere, in quelle terre incivili. E abbia persino trovato il tempo di ingravidare quella sua prostituta indiana.»
«Oh, Vivian, ti prego!» esclamò lo zio Woodhams.
Anna scattò in piedi. Gettò il tovagliolo sul tavolo. Senza dir nulla, senza chiedere scusa o permesso, uscì dal salone. Nel farlo, passò di fianco a Lillian. La domestica non si mosse dal proprio posto, ma voltò il capo e seguì Anna con uno sguardo ansioso e sorpreso.

*

Anna sedeva in poltrona, a gambe incrociate, in sottoveste e corsetto. I capelli sciolti, dietro le orecchie, scendevano sulla schiena, sulle spalle e sulle braccia nude. Teneva i gomiti premuti contro le ginocchia e i pugni serrati davanti al mento. Massaggiava le nocche. Sotto i suoi occhi, asciutti e assenti, si stendevano gli arabeschi dorati del tappeto.
La rabbia era svanita. Adesso, l’abbattimento e la tristezza le schiacciavano il petto e chiudevano la gola. Avevano il peso e il sapore amaro del ferro.
Qualcuno bussò alla porta della camera da letto.
Anna non si mosse e non aprì bocca.
Bussarono di nuovo.
Anna espirò. «Avanti...»
Entrò Lillian. Piano, quasi timidamente.
«Mi manda vostro zio, miss. Chiede se volete che vi si porti il resto della cena in camera. Dice che non vi fa bene andare a letto con lo stomaco vuoto.»
«Non ho fame.»
«Non volete neppure una tazza di tè?»
«No... grazie.»
«Come desiderate.»
Lillian si congedò con un inchino del capo, ma prima che la sua mano potesse raggiungere il pomello, Anna alzò lo sguardo su di lei, la fronte aggrottata in un’improvviso pentimento.
«Il modo in cui mi sono alzata da tavola è stato tanto terribile?» Si morse le labbra. «Non so mai cos’è tollerabile e cosa no.»
«Non sta a me giudicare, miss.»
Anna abbassò le braccia e reclinò il capo contro l’imbottitura. «Sai, se avessi saputo come stavano davvero le cose, non sarei mai venuta qui. Non ho mai elemosinato l’affetto di nessuno. Non inizierò a farlo adesso. ― E ho smesso di ascoltare quello che la gente pensa di sapere sulla mia famiglia. Eppure... eppure avevo sperato tanto che, almeno quaggiù, dove non vivete accanto agli indiani, non sarebbe stato poi così importante chi era mia madre.»
Lillian sfregava il dorso della mano contro il fianco. Se ne stava a labbra dischiuse, con il capo appena reclinato verso la spalla e le sopracciglia sollevate in un’espressione incerta. Una domestica non poteva, né doveva, essere abituata a inaspettate confessioni a cuore aperto.
Nondimeno, Lillian ebbe qualcosa da dire. «Non vi abbattete così, miss.» Si avvicinò alla poltrona. «Vostro zio è felice di avervi qui. Sono sicura che farà il possibile per farvi ben volere da tutti.»
Guardandola con attenzione, e da vicino, Anna notò che la cameriera somigliava alla pastorella del dipinto sopra al caminetto. Aveva la pelle bianchissima, le guance rosate e gli occhi grandi e vivaci. I lineamenti erano proporzionati, minuti, dolci e belli. Sembrava più una bambina che una donna. Cosa Anna avrebbe dato in cambio di un aspetto come quello. Mai in vita sua aveva assaporato la libertà di andare ovunque, camminare per qualsiasi strada e entrare in qualsiasi stanza, senza dover sopportare gli sguardi altrui, immaginarne i giudizi e trovare la forza di non badarci. Agognava un aspetto anonimo più di quanto avesse mai desiderato la bellezza delle donne bianche.
«Capisco che non sia la stessa cosa» continuò Lillian, torcendo nervosamente il grembiule con le dita affusolate, «ma... sapete, la mia famiglia è povera e non ha sempre avuto una reputazione pulita. So cosa vuol dire dover sopportare i pregiudizi.» Fece una pausa. Smise di toccare il grembiule e, in un respiro, parve racimolare coraggio e risolutezza. «Per quel poco che conta, io penso che il modo in cui vi ha parlato madam sia sbagliato. Ingiusto. Cattivo, a essere onesta. Lo so... lo so, come vi ho detto, che non è compito mio giudicare, specialmente la padrona, e vi pregherei di non dirle che l’ho fatto. Ma i miei pensieri non cambiano. Insomma, a prescindere da quale sia la sua opinione dei vostri genitori, non ha alcun senso trattarvi male. Non avete scelto voi da quali genitori nascere. Nessuno può. Quindi... come si può trasformare la famiglia in una colpa?»
Anna distese le labbra un sorriso raddolcito. Alzò una mano, per stringere quella bianca e minuta della cameriera.
La ragazza non nascose la sorpresa di quel contatto, ma non ritirò la mano.
«Com'è che ti chiami?»
«Lillian. Lillian Parker, miss. Ma tutti mi chiamano Lily.»
«Lily. Chiamami Anna, per favore. Non miss o signorina Hawkins.»
«Ma non starebbe bene, miss.»
«Se sta bene a noi due, chi altro dovrebbe avere da ridire?»
«La signora Woodhams. Non le piace quando non si rispettino le regole.»
Anna fece spallucce. «Allora, noi due non rispetteremo le regole, quando lei non ci vede e non ci sente.»
Lily coprì la mano di Anna con la propria. Sorrise.

*

Dormire era impossibile. Lo stomaco di Anna continuava a esibirsi in gorgoglii di protesta. Tovò nel ricordo del pound cake la voglia di abbandonare il caldo delle coperte. A tentoni, nel buio pesto della camera, trovò la lampada a olio e l’accese.
Faceva davvero troppo freddo per andarsene in giro in camicia da notte. Recuperò lo scialle, infilò le babbucce e uscì dalla camera.
Un chiarore lattiginoso filtrava dalla finestra sopra la scala; facendo somigliare il corridoio deserto alla navata di una chiesa rischiarata da un rosone. La casa scricchiolava. Sibilava. Ansimava. Dal piano inferiore, si arrampicavano i cupi battiti della pendola.
Per un lungo attimo, lo sguardo di Anna restò come incatenato alla porta della nursery. Poi, la giovane donna si mosse: percorse in fretta il corridoio, raggiunse la scala e la scese. A tre gradini dalla fine della scala, trasalì. Fu a un soffio dal cadere, e dal far cadere la lampada. Anna appoggiò una mano sulla balaustra. Strinse le dita fino a sbiancare le nocche. Il cuore batteva tanto forte da sovrastare persino il rumore della pendola.
E si fece di nuovo avanti, allungando la lampada dinanzi a sé.
Non c’era nessuno sull’ultimo gradino.
Eppure, solo un istante prima, era sicurissima di aver visto qualcuno seduto sullo scalino, con le braccia tirate al petto e il viso tra le ginocchia.
Anna lasciò la balaustra. Chiuse le palpebre. Pizzicò la pelle all’attaccatura del naso. ‘Ho sonno e fame’ si rassicurò. E abbastanza brutti ricordi per alimentare le più stupide fantasie notturne.
Scese gli ultimi gradini. Al pian terreno, le porte erano state chiuse e, man a mano che Anna setacciava il corridoio, e lo trovava deserto, il cuore si calmò. E lei con lui.
Quando fu accanto alla pendola, controllò l’ora. Dietro al vetro, le tozze lancette, appuntite come frecce, era attorniate da arzigogolati riccioli. La lancetta corta era quasi sul numero tre e quella lunga quasi sul dodici. ‘Le tre di notte. L'ora delle streghe.’
Ma mentre guardava l’orologio, Anna non vide cosa si muoveva alle sue spalle, lontano dalla calda pozza di luce della lampada.
Non vide la sagoma che si contorceva in un angolo. Nera come un cadavere consumato dalle fiamme. Scheletrica come un morto di stenti. Si teneva diritta su due gambe, ma la schiena era curva in avanti, sotto il peso di una testa che grondava capelli, occultando qualsiasi viso la creatura potesse mai avere. La sagoma si rintanò più vicino alla parete. Parve perdere di consistenza, mutare in un’ombra contro il legno e svanire all’interno di esso, come una macchia di inchiostro assorbita dalla carta.
Anna si voltò.
Sotto la scala a chiocciola, nascosta alla vista degli eventuali visitatori che potevano transitavano per il vestibolo, Anna individuò la porta del seminterrato. Era aperta. Scese i gradini. Laggiù faceva davvero freddo come in una cripta e Anna ringraziò che la cucina fosse la prima stanza, dietro l'angolo del corridoio. Entrando, sentì la gelida durezza dei mattoni sotto le suole delle babbucce. C’era un forte odore di spezie, e un più vago e inafferrabile profumo di brodo. Da una finestra stretta e bassa, appena sotto al soffitto, filtrava un raggio di luna, che si rifletteva contro una fila di tegami. Anna avanzò. Era difficile capire quanto fosse grande la cucina. La lampada le rivelava file di pentole e padelle di rame, appese alle pareti, e mazzetti di erbe messe a essiccare a testa in giù. Vide una bilancia d’ottone e una fila di barattoli di vetro. Spuntò l'estremità di un lungo tavolo da refettorio. E quando Anna lo ebbe percorso fino alla fine, emerse la stufa a legna, sulla quale era rimasto un bollitore. Da qualche parte, nel buio, qualcosa gocciolava.
Poi, udì un colpetto, secco e breve.
Anna sobbalzò, guardandosi alle spalle.
Lo spavento passò subito.
Un gatto marrone, dal pelo lungo e spettinato, era balzato su uno dei tavoli addossati contro le pareti. Nel farlo, aveva fatto cadere una saliera, spargendo sul tavolo una striscia di granelli di sale. Il gatto li pestò con le zampe, mentre annusava a muso basso la saliera.
«Ciao» sussurrò Anna. Si avvicinò alla bestiolina. Gli accarezzò il dorso, e quella prese a fare le fusa, drizzando la coda folta e gonfia. «E tu chi sei? Non sapevo fossi qui. Sai per caso dove tengono i dolci?»
E una voce rispose.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: _Blanca_