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Autore: GirlWithChakram    06/05/2016    3 recensioni
Janice Covington e Melinda Pappas, dopo aver recuperato le mitiche pergamene di Xena, trovano, tra i numerosi appunti di Harry Covington, un indizio che rivela la presenza di altri scritti perduti. Le due amiche dovranno dunque attraversare la Grecia, dilaniata dal conflitto mondiale, nella speranza di sopravvivere anche a questa avventura, tra incontri, scontri ed imprevisti, per portare alla luce l'antico tesoro e forse qualcosa di più.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altro Personaggio, Gabrielle, Xena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The incredibly true story of two friends on a quest


 
Diario di Melinda P. Pappas
29 Aprile 1942, tratta ferroviaria Kavadarci - Salonicco, pressi di Gevgelija, Macedonia
I rapporti con la Dr.ssa Covington continuano ad essere tesi, ma la nostra collaborazione forzata è l’unica possibilità che abbiamo per recuperare le restanti pergamene di Xena. Il mezzo su cui stiamo viaggiando sembra aver subito un guasto e ciò potrebbe ritardare ulteriormente il termine della nostra impresa. Fortunatamente, per il momento, questo è il più grande impedimento che abbiamo incontrato. Si spera che, avendo scelto di seguire la via attraverso le montagne, ciò ci eviterà incontri ravvicinati con le truppe naziste, che non vedrebbero di buon grado due donne americane in viaggio da sole.
 
Chiusi il libricino e ne accarezzai la copertura in pelle. All’inizio, quando mio padre me lo aveva regalato, diversi anni prima, il tessuto era stato brillante ed immacolato, ma il tempo non era stato clemente e sotto le mie dita la copertina era scolorita e sgualcita in diversi punti. Incastrai la matita nella costa, per poi riporre il tutto nella tasca interna della mia giacca, dove sarebbe stato al sicuro.
Annotare i miei movimenti su quel quadernetto era un’abitudine che avevo assunto da poco, ma lo avevo fatto con consapevolezza: se un giorno avessi dovuto raccontare le mie avventure, avere un diario a tenere traccia del mio percorso avrebbe semplificato di molto le cose.
Sbirciai fuori dal portellone, tentando di fare il minor rumore possibile per non svegliare la Covington. Eravamo ancora fermi alla stazione di Gevgelija, un piccolo paese al confine tra Macedonia e Grecia. Avevo origliato i discorsi dei macchinisti e, da quanto ero riuscita a capire dalla loro lingua a me poco familiare, il mezzo non sarebbe ripartito prima di diverse ore. Fortunatamente nessuno aveva avuto l’idea di ispezionare il carico, lasciando a me e alla mia compagna di viaggio la possibilità di proseguire in tranquillità fino a Salonicco.
Eccezion fatta per un paio di individui sudati e impolverati appoggiati alla fiancata del treno qualche vagone più avanti, non c’era anima viva.
Riaccostai delicatamente il portellone, attenta a non farlo cigolare e mi voltai a fissare Janice, ancora immersa nel sonno. A causa, probabilmente, del ricordo del freddo della notte passata, da quando avevo lasciato il suo fianco si era avvolta nella coperta come in un bozzolo, lasciandone sbucare solamente la testa, poggiata sullo zaino che aveva usato come cuscino. Così tranquilla mi parve una persona decisamente più tollerabile. Mi venne l’impulso di paragonarla ad una tigre dormiente, così maestosa nel riposo, quanto letale nella veglia.
La studiai in silenzio, seguendo attentamente con gli occhi ogni suo più piccolo movimento. Avrei pagato oro per poter dare anche solo una sbirciata ai suoi sogni, così da comprenderla meglio, per imparare a decifrare gli enigmi che si celavano dietro il suo torvo sguardo color smeraldo.
Non dovetti attendere molto prima che si svegliasse e mi augurasse il buongiorno con la sua consueta delicatezza: «Ho visto che mi fissavi, pervertita. Ti piace spiare la gente che dorme?»
Stabilii che non fosse il caso di cominciare la giornata con una litigata, quindi lasciai che le sue parole mi scivolassero addosso. Le passai la borraccia, quasi vuota, per farle bere qualche sorso e lei accettò di buon grado, poi dividemmo un po’ di pane e marmellata. Il vasetto era agli sgoccioli e la forma di pane secca, ma era l’unica colazione che potevamo permetterci.
«Perché non ci stiamo muovendo?» mi chiese la bionda, concluso il breve pasto.
«Deve esserci stato un guasto o qualcosa di simile» spiegai «Siamo praticamente al confine, a Gevgelija.»
«Il treno ha sostato in una città e tu non hai pensato di andare a fare provviste?» domandò in tono polemico, scoccandomi un’occhiata di rimprovero.
Tentai di balbettare una spiegazione plausibile, ma non riuscii a trovarne una.
«Hai sentito quanto ancora resteremo fermi?»
Annuii per poi aggiungere: «Almeno qualche altra ora.»
«Allora io vado» disse, senza lasciarmi possibilità di ribattere. Agguantò il proprio zaino, si calcò in testa il cappello, estrasse con un movimento fluido il revolver per verificare che non fosse bloccata nella fondina, poi, socchiudendo il portellone quel tanto che bastava, sgusciò fuori, scomparendo alla mia vista.
Attesi, perché non potevo fare altro. Provai a sonnecchiare, senza risultato. Rilessi qualche mio appunto sul diario, scarabocchiai una mappa il più verosimile possibile e delineai il nostro ipotetico percorso e quando mi stancai iniziai a lasciare che la mano agisse da sola, trasponendo sulla carta quello che mi frullava in testa.
Quando fissai la pagina adibita al mio sfogo notai innanzitutto lo schizzo del Chakram che avevo riprodotto a memoria, accompagnato da quelli che ad un primo sguardo sembravano ghirigori, ma erano in realtà parole della lingua antica. Seguii con i polpastrelli i lievi solchi lasciati dalla mina, decifrando quanto io stessa avevo inconsapevolmente scritto. La maggior parte dei simboli componeva nomi di persone e luoghi, ma c’erano anche termini del quotidiano, che proprio non riuscivo a giustificare. Ero certa ci fosse lo zampino di Xena. Dovevo assolutamente trovare le altre pergamene per dare un senso a tutto ciò.
Riposi il libricino al sicuro dopo aver ripercorso decine di volte quei sentieri di grafite, sicura che Janice fosse ormai sulla via del ritorno.
Dopo una manciata di minuti, infatti, il portellone venne fatto scorrere. Non vidi, però, il familiare e prezioso cappello della Covington a salutarmi, bensì tre soldati in divisa.
Mi congelai sul posto e loro spalancarono gli occhi, sorpresi.
Abbaiarono subito qualche frase in tedesco che, naturalmente, non compresi.
La mia situazione non poteva essere fraintesa: c’era ancora la coperta appostata a mo’ di giaciglio, la valigetta abbandonata poco distante e gli avanzi della colazione in bella vista. Ero chiaramente una passeggera abusiva.
Il più grosso di loro si fece avanti con aria feroce e mi afferrò malamente un braccio, trascinandomi giù dal treno. Non gli ci volle alcuno sforzo per bloccarmi, nonostante facessi del mio meglio per opporre resistenza.
Immobilizzata, non potei impedire ad un altro di cacciarmi le mani addosso alla ricerca di armi. Quando la perquisizione non gli portò frutti, mi afferrò il viso e sorrise, ghignando qualcosa ai compari. Disegnò il contorno delle mie labbra con un dito e assecondai il mio istinto tentando di morderlo.
L’uomo rise, di me e dei miei patetici tentativi di non lasciarmi sopraffare dalla paura.
Fui spinta fin dentro la stazione, sotto lo sguardo stupito di diversi addetti e passeggeri in attesa. L’edificio non era molto grande, quindi la mia cattura aveva subito calamitato l’attenzione generale, originando un brusio di sottofondo accompagnato da occhiate dei più vari generi.
Mi ritrovai in una stanza secondaria, con una scrivania dietro cui stava un altro individuo in divisa. L’uomo mi si rivolse prima in tedesco, poi in macedone e per finire in greco. Le ultime due lingue le capivo grossolanamente ed ero in grado di esprimermi con qualche frase, così gli dissi che parlavo inglese.
A quel punto lui, che era, chiaramente, il capo, spedì uno dei sottoposti da qualche parte e dopo un po’ egli fece ritorno con un interprete.
«Dunque, signorina» mi apostrofò l’ultimo arrivato, pronunciando quelle parole con un marcato accento germanico «Lei stava viaggiando clandestinamente sul mezzo in transito da Kavadarci. Vuole negarlo?»
Naturalmente quella sarebbe stata la cosa peggiore da fare, c’erano troppe prove contro di me, non mi restava che dire la verità. «No, non negherò.»
I tedeschi si guardarono l’un altro e il mio interlocutore spiegò loro quanto avessi detto.
Compreso che mi ero arresa all’evidenza dei fatti, gli uomini sorrisero in modo inquietante.
«In questo caso mi vedo costretto a farla scortare al presidio militare che ha sostituito la centrale di polizia. Là verrà valutato il suo reato e lei sarà punita di conseguenza.»
Ascoltai quelle parole come si trattasse di una condanna a morte. Quei manigoldi non mi avrebbero mai fatta arrivare al campo, mi avrebbero uccisa molto prima… Ma solo dopo essersi divertiti a dovere. Una donna, per di più americana, quindi nemica, non aveva possibilità di uscire indenne da quella situazione.
Ripresi la marcia come prigioniera, costeggiando i binari. Era chiaro che non stessimo andando al presidio, ma in qualche luogo più isolato. Ci fermammo dopo quella che mi parve un’eternità, ma non eravamo troppo lontani dal tracciato ferroviario perché potevo ancora sentire il rumore di treni in corsa.
I miei rapitori, a cui si era aggiunto l’uomo della scrivania, iniziarono a discutere animatamente davanti a me. Non ci voleva molta fantasia per immaginare quale fosse il fulcro della questione.
Un malconcio gabbiotto di manutenzione si trovava a pochi passi da noi. Pensai di gridare per chiedere aiuto, ma dallo stato in cui verteva, probabilmente era abbandonato da tempo. Avrebbero utilizzato quell’angusto spazio per fare i propri comodi.
Iniziai a tentare di far rallentare il battito del mio cuore, che sembrava un tamburo impazzito nel petto, per poter riportare un po’ di calma dentro di me. Il mio cervello era lanciato in contorti ragionamenti ed elaborava i peggiori scenari, che prevedevano comunque una mia triste fine nel giro di qualche ora al massimo.
Il sole si nascose all’improvviso dietro una nube, come se non volesse essere testimone di quanto mi sarebbe accaduto, lasciando che sulla landa attorno a noi calasse un’aura tetra.
Il bruto, che ancora mi teneva immobilizzate le braccia, iniziò a strattonarmi non appena la discussione scemò. Il capo avrebbe avuto l’onore di aprire le danze, come avevo intuito dal fatto che si stesse avvicinando al gabbiotto con aria soddisfatta.
In quel momento più che mai desiderai che lo spirito di Xena tornasse in mio aiuto e, in un certo senso, lo fece. Solo grazie al mistico legame con la mia antenata, infatti, una provvidenziale biondina venne richiamata nel luogo dell’imminente disastro e comparve in tutta la sua furia, con la pistola già puntata.
«Non è così che si tratta una signora» ringhiò, ripetendo la frase che aveva segnato il nostro incontro e, come in quell’occasione, notai che aveva il cappello ben calato in testa e la frusta che penzolava, pronta all’uso; le mancava però il sigaro. Sulle spalle aveva il suo zaino, a cui era appesa anche la mia valigetta. Doveva aver avuto il tempo di recuperare i nostri averi dal treno prima di venire in mio soccorso.
Con gesti fulminei, i soldati imbracciarono i fucili ed iniziarono a fare fuoco.
Janice si liberò dei pesi e si lasciò cadere, pancia a terra, per poi rotolare dietro un masso.
Il capo, ricongiunto ai commilitoni, prese a sbraitare ordini, ma si interruppe presto, quando un proiettile lo centrò in pieno petto. Il corpo cadde all’indietro con un tonfo sordo, sollevando uno sbuffo di polvere.
Gli altri si bloccarono per un istante, ma decisero di non demordere. Quello che mi teneva ancora a sé pensò di approfittarne, lasciando i due ad occuparsi della Covington per allontanarsi dal luogo dello scontro con me ancora prigioniera.
«Oh, no, non ci pensare!» gridò la mia compagna di viaggio, balzando fuori dal nascondiglio e sparando nella nostra direzione. Temetti, per un secondo, che una delle pallottole avrebbe finito per centrarmi, invece i due colpi si conficcarono nella testa del bruto, facendo schizzare sangue dappertutto.
Non riuscii a trattenere un urlo.
La coppia di superstiti, avendo intuito come si sarebbe conclusa la vicenda, mollò la presa sulle armi e corse a perdifiato nella direzione da cui eravamo venuti.
Nonostante sentissi le ginocchia farsi di gelatina, avanzai verso la mia salvatrice che, dal canto suo, aveva già ricaricato l’arma e si stava osservando il cappello.
«Maledizione» sbuffò rigirandoselo tra le mani «Un altro dannatissimo buco! Dovrei smetterla di salvarti la vita o finirò per ridurlo ad un colabrodo.»
La abbracciai, incapace di ringraziarla in altro modo.
«E staccati!» sbottò tentando di allontanarmi «Mi imbratterai la giacca!»
Ubbidii, notando solo allora che fossi coperta di schizzi rossastri.
Jan lanciò uno sguardo ai cadaveri abbandonati poco lontano e commentò scuotendo la testa: «Non mi piace ricorrere a tanto, togliere una vita dovrebbe sempre essere l’ultima delle opzioni.»
Il mio silenzio le bastò come assenso.
«Adesso dobbiamo trovare un nuovo passaggio fino a Salonicco» osservò, tendendo l’orecchio in direzione del fischio di un treno «Ma prima sarà meglio darti una pulita… Speriamo che in periferia ci sia qualcuno disposto a farti fare una doccia senza troppe domande.»
Senza parlare, ci avventurammo alla ricerca di un edificio abitato. Dopo un’oretta di vagabondaggio, trovammo una grande casa, circondata da un cortile in cui scorrazzavano un po’ di animali.
«Lascia fare a me.» La frase suonò come un incontestabile ordine e come tale lo presi.
La Covington entrò e uscì poco dopo dicendomi che potevo seguirla. Mi guidò fino ad un bagno in cui era stato sistemato un bacile di rame con accanto un secchio.
«Riempilo quanto ti pare, lavati, poi dai una sciacquata ai vestiti» mi spiegò «Lì c’è un pezzo di sapone.»
Eseguii gli ordini il più in fretta possibile e, quando ebbi terminato, mi rimirai in uno specchio, constatando che avevo un aspetto decisamente migliore.
Dopo essermi ripulita, feci la conoscenza dei padroni di casa, una coppia di anziani che viveva dei propri risparmi accumulati in anni di lavoro, prendendosi cura del proprio pezzetto di terra e delle proprie bestie.
Ci offrirono il pranzo e noi accettammo volentieri, mangiando un paio di uova sode, accompagnate da una specie di zuppa di cereali e verdure lesse. Jan mandava avanti la conversazione, fermandosi ogni tanto per tradurmi quello che veniva detto dai nostri ospiti.
Ce ne andammo quando ormai era pomeriggio inoltrato, con le borse un po’ più piene e il cuore più leggero.
«Dobbiamo tornare alla stazione e sperare di trovare un altro passaggio per Salonicco» disse Janice quando ci fummo incamminate «Ormai dovremmo impiegare solo un altro giorno, c’è da augurarsi che i tedeschi non ci diano ulteriori problemi…»
Avvistammo un treno merci che sembrava fare proprio il caso nostro. Dopo esserci accertate della sua destinazione, ci intrufolammo in uno degli ultimi vagoni, prendendo posto accanto a pile di casse piene di vestiti ed oggetti vari di uso quotidiano.
Quando calò il buio, decidemmo di accendere la nostra malconcia lanterna, assicurandoci che la luce non fosse individuabile dall’esterno, per poter pasteggiare non nella più totale oscurità.
Sbocconcellai controvoglia il mio panino. La tensione della mattinata era tornata, chiudendomi lo stomaco e riempiendomi la mente di inquietanti fantasmi.
Il silenzio proseguiva a farla da padrone. Non sapevo cosa dire e la Covington non doveva avere grandi discorsi da fare a propria volta.
La serata sarebbe trascorsa nel più totale mutismo se non fosse stato per la mia goffaggine. Alzandomi per andare a verificare la fonte di un rumore che avevo sentito provenire dalla parte opposta dello spazio, persi l’equilibrio, cadendo rovinosamente sul cappello che la bionda aveva, incautamente, appoggiato per terra vicino a sé.
«No! No! No!» strillò, tirando via con forza il copricapo da sotto il mio fondoschiena «Non di nuovo…»
«Scusami» pigolai «È stato un incidente…»
«Certo, come no? Questo è cappellicidio volontario!» ribatté «E dire che ti ho già spiegato quanto sia prezioso per me.»
Inclinai lievemente il capo, assumendo un’espressione confusa. «Non mi hai spiegato proprio un bel niente.»
Con un sospiro, mi fece cenno di sedermi accanto a lei, poi iniziò a raccontare. «Tutto ha avuto inizio a Boston, la mia città. Mio padre non era di buona famiglia ed i suoi genitori avevano dovuto fare molti sacrifici per poterlo mandare al college, dove aveva studiato storia e si era diplomato con il massimo dei voti. Appena terminati gli studi, non avendo trovato un ruolo da ricoprire nell’università, si era deciso a fare il cameriere in tre diversi locali per ripagare il debito scolastico e aiutare a mantenere i miei nonni dopo tutto quello che avevano fatto per lui. Una sera, mentre era di turno, vide entrare un gruppo di ragazze dall’aria sofisticata, non aveva idea di cosa ci facessero delle così giovani esponenti dell’alta società in quella bettola. Scoprì in seguito che una di loro aveva organizzato un incontro romantico e si era trascinata dietro le amiche. Una di queste fanciulle di “supporto” era mia madre. Sai quando si dice amore a prima vista, no?»
Fissò su di me i suoi luminosi occhi verdi e notai le sue labbra incurvarsi in un sorriso nostalgico.
«Erano molto innamorati, ma i genitori di mia madre, naturalmente, non volevano che perdesse tempo con qualcuno di una classe sociale tanto bassa, lei, però, si rifiutò di lasciare papà. Le tagliarono i fondi. Allora mia madre fu costretta a fare una cosa che non aveva mai fatto: lavorare per guadagnarsi da vivere. Non molto tempo dopo, nacqui io e le cose si fecero ancora più complicate perché i soldi erano sempre gli stessi, ma c’era una bocca in più da sfamare. Quando avevo quattro anni, mio nonno paterno si ferì gravemente in fabbrica e non poté più continuare col lavoro. Eravamo sempre in bolletta. Fu allora che mia madre se ne andò. Chiese perdono ai genitori e si fece riammettere tra le alte sfere. Non l’ho più vista da allora. Pochi mesi dopo, il nonno morì, lasciando che fossero papà e la nonna ad occuparsi di me.»
Non avevo il coraggio di interromperla, avevo paura che se lo avessi fatto quella strana aura incantata che ci stava avvolgendo si sarebbe spezzata, lei sarebbe tornata a chiudersi a riccio ed io non avrei mai potuto vedere cosa si celava dietro l’atteggiamento da dura.
«Era una mattina di gennaio, insolitamente calda per essere pieno inverno nel Massachusetts. La nonna era appena tornata dopo aver finito il turno notturno, glielo si leggeva in faccia che fosse a pezzi, lavorava troppo per la sua età. Mi portò con sé a fare compere. Entrammo in un negozio dall’aria costosa e io mi chiesi per quale motivo, dato che la sentivo sempre lamentarsi per la mancanza di soldi. Sorrise al commesso che le allungò una grossa scatola con un fiocco. Me la affidò, dicendo di fare la brava e di aspettarla lì, sarebbe andata a ritirare un'altra cosa qualche bottega più in là. Annuii, annoiata di dover rimanere lì, volevo andare con lei. Sapevo essere piuttosto seccante per una bambina di sei anni, ma non volle sentire ragioni. Era il 15 gennaio 1919, il giorno del “disastro della melassa”, solo più tardi notai che fosse anche il compleanno di mio padre. Un serbatoio della Purity Distilling Company esplose, riversando quasi nove milioni di litri di melassa in Commercial Street. Ci fu un’onda altissima, mi dissero, che sbriciolò gli edifici vicini, uccidendo circa venti persone. Mia nonna era tra loro. Io vidi solo un’ombra scura e sentii un forte odore dolce, poi venni sballottata all’interno del negozio a causa dell’impatto della melassa contro i palazzi. Ne uscii incolume. Ci vollero mesi per ripulire il quartiere e ancora oggi odora di melassa, dicono sia il prezzo da pagare per quell’incidente, ma la mia famiglia ha pagato un prezzo ancora più alto.»
Si fermò per un attimo, portandosi il copricapo in grembo e accarezzandolo come fosse un cucciolo.
«Quando papà mi venne a recuperare, era sconvolto. La prima cosa che feci fu consegnargli il pacco, era l’unica azione che lo shock mi permetteva di compiere. In un surreale contesto di persone urlanti e macerie rese appiccicose dalla salsa, lui tirò fuori questo cappello, se lo piazzò in testa e mi prese in braccio. Il resto è un ricordo confuso, so solo che una settimana dopo lasciammo Boston ed iniziammo a muoverci in giro per tutti gli Stati Uniti. Mio padre iniziò ad offrirsi come consulente presso diverse università e mi portava con sé, fu così che imparai ad amare la storia. Poi, quando si fu fatto un nome di tutto rispetto, decise di passare a lavorare sul campo, qui in Europa e, naturalmente, lo seguii. Avevo circa quindici anni quando iniziarono i guai, i soldi continuavano a non essere molti e il modo più efficace per farne tanti e in fretta era rivendere qualche oggetto rinvenuto nei siti… Ai suoi colleghi, però, questo non andò a genio e così cominciarono a parlar male di lui. Quelle malelingue gli avvelenarono il sangue, lo vidi farsi sempre più l’ombra di se stesso, l’unica cosa che teneva acceso il fuoco nei suoi occhi era trovare le pergamene di Xena. Si spense poco dopo aver finalmente identificato il sito che tanto aveva bramato esplorare. Durante tutti quegli anni non l’ho mai visto levarsi il cappello, l’ha tenuto con sé fino all’ultimo, un estremo gesto di affetto nei confronti di sua madre.»
Rimasi attonita. Che cosa le era preso per mostrarsi così vulnerabile?
Dopo appena un istante, come se si fosse all’improvviso resa conto del momento condiviso, Janice si rannicchiò su se stessa e nascose il viso tra le ginocchia, stringendosi la testa. «Che diavolo mi ha preso?» mugugnò contro la stoffa dei propri consunti pantaloni.
Mi preparai a rispondere, ma lei bloccò le mie parole sul nascere.
«Insomma, non sono cose che vado in giro a rivelare al primo tizio che passa per strada e, certo, tu non sei proprio una sconosciuta, ma non siamo neppure così in confidenza! Allora perché mi sono sentita così a mio agio da raccontarti tutto? Sai cosa? Deve essere stato perché quando ti vedo mi ricordo del modo gentile con cui mi ha tratta Xena mentre era nel tuo corpo. Sì, deve essere per quello. Tu non mi piaci affatto, ma il mio giudizio è offuscato dall’aura della Principessa Guerriera.»
Tutta la compassione e la tenerezza che avevo provato fino ad un attimo prima vennero eclissate da un nuovo senso di dispetto, quasi di gelosia, nei confronti della mia antenata, unito, naturalmente, ad un rinnovato disprezzo per la mia compagna di viaggio.
«Beh, anche io stavo meglio senza di te» sbottai in risposta.
«Saresti morta.»
Rimasi spiazzata da quella replica e tentai così di riportare il discorso su un terreno a me più favorevole. «E comunque nessuno ti ha minacciata e costretta a raccontarmi la storia della tua vita.»
Per qualche minuto l’unico rumore che rimbombò tra le pareti di legno del vagone fu il ritmico stridere e cigolare delle ruote del mezzo sui binari. Eravamo all’ennesimo stallo. Due personalità forti ed opposte, costrette a trovare una via di dialogo.
Per quanto il mio orgoglio ferito mi imponesse di continuare a fare il muso duro, mi resi conto di una cosa e immediatamente i sentimenti negativi tornarono a rifugiarsi in un angolo nascosto del mio essere.
«Mi dispiace molto per quello che è successo a tua nonna» dissi «E anche per ciò che poi è capitato a tuo padre. E grazie per avermi salvata oggi.»
Era decisamente l’ultima frase che si aspettava di sentirmi pronunciare, come mi fu chiaro dall’espressione sorpresa che assunse.
Era il mio turno di rivelare qualcosa di me. Pensavo che, forse, così si sarebbe sentita più a suo agio per essersi lasciata andare a quell’attimo di fragilità.
«Io sono nata a Summerville, in South Carolina. È una città piuttosto tranquilla e mi piaceva viverci, ma quando mio padre divenne direttore della University of South Carolina di Columbia, mia madre, i miei fratelli ed io ci trasferimmo per stargli vicino. Ho passato anni sereni, annidandomi dietro la cattedra di papà ad ascoltare le sue lezioni. Non ci ho messo molto ad innamorarmi delle lingue antiche e, grazie sia alla mia propensione sia al supporto dei miei genitori, ho deciso di assecondare questa passione, seguendo le orme di mio padre. Dopo la vittoria del Nobel, in molti hanno iniziato a cercare di accaparrarsi i favori dell’ormai celebre professor Pappas, ma lui non si è mai lasciato abbindolare, ha dato il suo aiuto a chi davvero ne avesse bisogno, lasciandosi coinvolgere in questioni che potesse trovare, a suo dire, “interessanti”. Sono certa che, se non si fosse ammalato, ti avrebbe certamente contattato in merito alla questione delle pergamene. Le sue lontane origini greche lo hanno sempre molto affascinato, scoprire di discendere dalla leggendaria Xena lo avrebbe esaltato all’inverosimile.»
Tacqui, notando che Janice aveva una faccia strana.
«Che cosa ti prende?» domandai.
I suoi occhi erano lucidi al bagliore della lanterna, il suo colorito si era fatto stranamente pallido. Scattò in piedi portandosi una mano davanti alla bocca. Con un balzo si trovò davanti al portellone, lo aprì quel tanto che bastava per cacciarci fuori la testa e iniziò a dare sfogo ai conati.
Mi avvicinai piano, andandole a tirare indietro le lunghe ciocche bionde che, sfuggite alla coda, tentavano di scivolarle sul volto.
Il corpo esile della Covington venne scosso sempre meno, fino a placarsi del tutto. A quel punto le porsi un po’ d’acqua per sciacquarsi la bocca, poi mi fece recuperare una fiaschetta che teneva nello zaino e ne prese un breve sorso.
Portai due dita a sfiorarle la fronte e sentii che era calda.
«Ma tu hai la febbre!» esclamai apprensiva.
«Non è niente» replicò, facendo per scansarmi.
Le bloccai le braccia e la costrinsi a guardarmi negli occhi. «Non stai bene» scandii «Devi riposare e stare al caldo.»
«Sarà solo un piccolo sfogo del mio corpo in risposta a tutto lo stress di questa mattina» spiegò con noncuranza, mentre tentava di sfuggirmi «E comunque non ho bisogno della balia.»
«Poche storie» sentenziai, trascinandola verso il giaciglio mezzo approntato. Dovetti ricorrere a tutta la mia dose residua di forza fisica perché la biondina, nonostante fosse minuta, si era improvvisamente trasformata in un blocco di granito inamovibile. Fortunatamente, forse grazie all’influsso di Xena, riuscii a sollevarla leggermente da terra e la convinsi a sdraiarsi sopra la sottile pila di panni che avevamo recuperato dalle casse.
La costrinsi a bere ancora una volta e le rimboccai la nostra preziosa coperta quasi fin sopra la testa.
«E tu dove dormirai?» chiese, stropicciando il bordo della trapunta, una volta che si fu del tutto arresa.
«Mi arrangerò.»
«Non dire cretinate, hai bisogno di riposare anche tu. Ci aspettano giorni difficili e forse non potremo più passare un’intera notte di sonno» replicò.
In effetti, non aveva tutti i torti. Avevo sonno e desideravo abbandonarmi all’invitante abbraccio di Morfeo, ma ogni volta che chiudevo gli occhi sentivo di nuovo le risate dei tedeschi e nel buio mi pareva che si celassero decine di mani pronte ad afferrarmi ferocemente come aveva fatto il soldato.
Come in un flash, gli schizzi di sangue del bruto sembrarono ricomparirmi addosso e venni scossa da un brivido.
«Prendi la lanterna» mi ordinò Jan, puntando su di me le sue iridi smeraldine.
Afferrai la nostra tremula lucina e gliela porsi.
«Lasciala qua vicino.»
La poggiai come mi veniva richiesto.
«Vuoi tenerla accesa? Capirò se mi dirai di sì, so che la mente inizia a giocare brutti scherzi quando calano le tenebre.»
Non le risposi, sottintendendo un assenso.
«Allora, sdraiati» continuò con tono vagamente imperioso, indicando la parte di materasso improvvisato rimasta vuota «Se davvero vuoi assicurarti che stia meglio, devi starmi vicina per tenermi al caldo o la febbre non calerà.»
Ancora una volta, non potei contestare. Sfilai le braccia dalle maniche della giacca, ma non me la tolsi, lasciando che fungesse da ulteriore coperta. Mi abbandonai su un fianco, trovandomi faccia a faccia con la Covington.
«Dunque…» trovai il modo di mormorare «Buonanotte?»
«Era una domanda?» ridacchiò l’archeologa, permettendomi di notare che un po’ di colore stava tornando a farsi vivo sulle sue gote.
«In un certo senso…» balbettai incerta «Ma non ha importanza» sentenziai «Dormi bene.»
Chiusi gli occhi con forza e mi ordinai di tenerli serrati fino a che non avessi sentito il respiro della mia vicina farsi più pacato.
Dopo una decina di minuti, la sentii voltarsi, dandomi quindi la schiena. Ero abbastanza vicina da poter percepire il calore irradiato dal suo corpo febbricitante. Avrei voluto fare ancora qualcosa per essere d’aiuto.
Socchiusi una palpebra e avanzai di qualche centimetro, portando la schiena di Janice a contatto con il mio petto. Spostai piano la mia giacca fino a coprire anche lei, poi lasciai che il mio braccio, come animato da volontà propria, scivolasse a cingere il suo fianco.
Non ci fu alcuna replica verbale, ma la Covington, quasi facendo finta di niente, indietreggiò un po’, aderendo ancora di più a me.
Sorrisi, anche se non seppi spiegarne il motivo, e mi addormentai al sicuro dalle inquietudini.


NdA: e rieccomi qui. Sono grata di aver iniziato a pubblicare anche questa storia, così il trauma della fine di Second Chance non è riuscito ad avere su di me l'impatto negativo che temevo. Ma cianco alle bande, avrete notato, forse, che i capitoli hanno lunghezze piuttosto diverse, per il semplice fatto che durante alcune giornate accadono più eventi e durante altre meno, quindi non sorprendetevi se alcuni sono lunghi il doppio di altri. Detto ciò, un grazie a tutti coloro che hanno letto, aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite e un grazie a Stranger in Paradise per essere sempre pronta a farmi sapere cosa ne pensa, un grazie sempre speciale a wislava per il suo aiuto nella revisione e un altro grazie a Petricor75. Se tutto va bene, signore e signori, ci ritroveremo venerdì 20, vi aspetto, nel frattempo buona lettura e buone cose. Alla prossima.
   
 
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