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Autore: Stray_Ashes    09/05/2016    2 recensioni
“Gerard correva, da tutta la vita, e l’inchiostro se lo sentiva scorrere nelle vene, nero, intenso, dall’odore chimico e pungente, intriso di immagini e parole, bisognoso di carta su cui essere steso.
Gerard amava pensare che la sua arte gli entrasse dentro, abbastanza nel profondo da oltrepassare la pelle e strisciargli nel cuore, assecondare la forza dei battiti e correre su fino al cervello, per nutrire i suoi pensieri.
Frank voleva essere libero, libero dall’obbligo di sentire tutti giorni quelle voci, quelle grida, che lo accusavano, lo assillavano, spietate...
Frank era da solo. Aveva pensato così di poter essere al sicuro, protetto dalle lingue taglienti degli altri, ma non era vero.
La verità, era che Frank aveva un disperato bisogno di qualcuno, per ritrovare sé stesso.
E Gerard, invece, non aveva bisogno di nessuno, non finché qualcuno non avrebbe avuto bisogno di lui.”
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«Perché non mi hai lasciato morire...?»
«Perché non c'era abbastanza tristezza nei tuoi occhi, Frank.
Perché, dietro le tue iridi, c’era ancora della luce.
E non mi piacciono, gli sprechi.»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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3. Angels Are Always All So Serious



 
Respirare l’aria umida ed usata della stazione del New Jersey fu strano, sgradevole e famigliare. Era buffo come Gerard riuscisse a legare insieme certi termini.
Era partito il pomeriggio del 13 Gennaio, e ora erano le cinque e trenta del 15: l’ennesima notte che se ne andava, per dare posto all’alba. Era stato via relativamente poco, ma l’inverno non perdonava molto spesso chi stava in giro troppo a lungo.
Aveva speso a Hershey un po’ di tempo, poi si era deciso a prendere un treno per tornare indietro; non c’era molto da vedere, e la notte era stata fredda per davvero. Le chiacchiere con Jason, almeno, l’aveva di distratto.
Non poté non chiedersi dove fosse l’uomo adesso. Certo, probabilmente era ancora addosso allo stesso muro, ma... se lo chiese, non perché gli importasse, ma perché faceva fatica a capire come qualcuno potesse vivere senza correre più, senza muoversi, senza vedere posti nuovi, senza respirare arie diverse. Per lui, era quasi inconcepibile.
Si era alzato da quel vicolo quando si era accorto che Jason dormiva, e si era anche chiesto se, nel sonno, sognasse di poter volare, anche se sapeva che Jason, con volare, intendeva varie cose, ben diverse dall’avere le ali di un volatile per gestire le correnti.
Però si era divertito a immaginarselo volare.
Si era chiesto cosa sognassero le persone che non correvano, quelle che si limitavano a guardare ed aspettare.
Certo, Gerard sognava poco, ma perché dormiva poco e basta... quindi, si chiese cosa sognassero gli altri fuggitivi come lui.
Si chiese cosa sognassero coloro che aspettavano di volare.
Si chiese che sognassero le persone normali, quelle comuni, banali, quelle che non correvano e non aspettavano: quei tipi di persone, nel suo cervello, Gerard se li figurava come coloro che giravano su sé stessi, in tondo, come un cane che si insegue  la coda: era una scena molto patetica. Fatto stava, che non vedevano mai niente di davvero nuovo, e tutto ciò che ottenevano, era un capogiro ogni tanto.
Si chiese come facessero a non accorgersi di quanto la loro esistenza fosse vuota.
Si chiedeva molte cose molto spesso, Gerard.
Si chiese perché lo facesse... oh, ecco; appunto.
 
Di notte le stazioni erano tutte inaspettatamente belle, di giorno invece non erano un granché. La luce bigia del sole di gennaio le illuminava con nostalgica tristezza, rendendole grigie, un po’ scarne... la gente ci veniva, ci gettava in mezzo qualche ricordo, qualche bottiglia usata, qualche bacio rubato, qualche omicidio, qualche cartaccia, qualche grido, qualche pianto, poi prendeva il treno e andava via. E la stazione rimaneva lì, grigia, triste ed usata, come una prostituta, in attesa che venisse un nuovo viaggiatore, che sporcasse la sua panchina, che prendesse il treno ed andasse via anche lui.
Gerard amava il grigio, ma così era desolante.
D’altronde, questo era il New Jersey.
Di notte, la stazione ai suoi occhi prendeva altre tonalità... per via della luce dei lampioni diventava giallina, di quel colore che sapeva di vecchi fogli di carta, preambolo di tante fantasiose promesse; quell’illuminazione pacifica, eppure inquietante, che aveva il sapore del tempo che passava al ritmo delle pesanti ore notturne, le stesse ore che la gente passava a dormire, al sicuro in una stanza.
Tutto questo, era poi avvolto dal buio, e i rumori lontani, senza volto né materia, arrivavano amplificati, inquietanti per alcuni, rilassanti per altri.
Di notte, la stazione sembrava un po’ meno una prostituta.. a Gerard ricordava più una vecchia scrittrice di storie, intenta a raccogliere i ricordi che i pochi viaggiatori notturni dimenticavano in giro, per poi collezionarli tra le proprie pagine e memorie. Non era usata dai viaggiatori, sembrava più che fosse viceversa, che fosse la stazione, ad usarli.
La luce gialla e il buio le davano un profilo più vissuto, più autorevole, più forte.
Ma, tutto questo, era solo un gran viaggio mentale di Gerard, che conosceva troppo bene la stazione del Jersey, e gli piaceva darle un volto che variava dalla notte al giorno, pur di assecondare le proprie sensazioni.
Dare volti e storie alle cose, era divertente tanto quanto darli alle persone, ma c’erano molti più indizi su cui spaziare. D’altronde, ogni cosa nel mondo era una spugna zuppa e straripante di esperienze passate, perché quasi ogni respiro ed ogni movimento lasciava un minuscolo segno, e Gerard lo coglieva.
 
Per qualche ragione, le ore della notte scorrevano veloci, scivolavano come burro sul sapone, e poi ti accorgevi come tutto, la mattina, cominciasse a rallentare; dalle sei in poi, ogni minuto pesava come granito. Probabilmente, era un lascito dei giorni in cui doveva andare a scuola, in quell’edificio un po’ angusto, straripante di ormoni, ragazzine e ragazzini, cervelli piccoli e cervelli grandi, ma vuoti. Se avesse potuto prendere il posto di uno dei professori, avrebbe anche potuto costruirsi un piccolo esercito personale; non parlava spesso, Gerard, ma era bravo a farlo, quando aveva le  idee.
Da poco, per fortuna, Gerard non era più costretto a frequentarla, non di mattina almeno: solo di pomeriggio, ed era una gran cosa, abbastanza grande da farlo acconsentire ad usare quelle ore preziose del suo tempo.
Ovviamente, il tutto era legato all’arte.
 
Gerard si inumidì le labbra e prese a far ondeggiare la gamba, lasciata a penzoloni giù dal muro, pur di muovere qualcosa ed ignorare il freddo. Non sarebbe tornato a casa, per nessuna ragione; tanto Mikey era in scuola, e non c’era niente ad aspettarlo fra i muri di quella casa. Niente di degno, perlomeno.
Gerard preferì osservare, da sotto le palpebre socchiuse, i raggi timidi del sole filtrare tra le fronde e disegnare sul terreno disegni e composizioni di macchie, informi e irregolari, che sparivano e tornavano a seconda delle nuvole che solcavano il cielo.
Quando si decise ad alzarsi dal muretto vicino alla scuola, le gambe lo portarono in mezzo alla foresta, e dalla foresta, fino al fiume, dove si recava tutte le settimane, non appena tornava da uno dei viaggi: il fiume era largo qualche metro, ricco di sassi, dislivelli, cascatelle, profondo in alcuni punti e sottile e innocuo in altri. Il fiume allungava infinito le dita, si portava avidamente via le foglie, i loro insetti, la terra, le pietre, le cortecce, i semi, i fiori, i ricordi e i sorrisi della gente, gli odori delle cose e gli animali, e portava tutto questo altrove, lo disseminava per il mare o a marcire sulle spiagge.
Il fiume affascinava Gerard... a volte ci si immergeva dentro, nelle sue acque freddissime, nella speranza che potesse capire i suoi pensieri e dirgli che non sarebbero rimasti sprecati, che qualcuno un giorno li avrebbe raccolti, e gli piaceva pensare che il fiume potesse provvedere a scriverli su un foglio, per chiuderli in una bottiglia da affidare al mare. Immaginava un marinaio che trovava la bottiglia, l’apriva e, invece di leggerci il fatidico “aiuto!”, ci trovava una “aiutati!”... aiutati, e comincia a correre.
A gennaio, comunque, Gerard sapeva non fosse una buona idea bagnarsi, quindi si fermò sulle sue sponde, lasciando che gli anfibi affondassero di qualche millimetro nel fango. Si guardò intorno: vuoto, sicuro, silenzio. Affondò la mano nella tasca dei jeans, e trovare la consistenza grezza della pietra raccolta fuori dalla stazione di Hershey, gli fece nascere un sorriso storto tra le labbra. Raccoglierle era un’abitudine, ma poi si dimenticava di assicurarsi di non perderle. Era successo una volta soltanto, per fortuna, ed era dovuto tornare indietro: era stato in giro per l’America quasi una settimana intera, in quel periodo, ed era stata una sensazione quasi meravigliosa, anche se al tempo ancora doveva andare a scuola e la sua scomparsa improvvisa aveva scatenato un gran macello.
Gerard osservò la pietra scura, posata sopra la pelle chiara del suo palmo, e poi spostò lo sguardo sul fiume. «Beh, buon viaggio, Hershey» mormorò, lanciando quindi il sasso da qualche parte nell’acqua, perché si posasse tra i sassi di tante altre città, e perché venisse un giorno portato via dalla corrente.  
Sospirò, e fece risalire lo sguardo lungo il fiume, adocchiando da lontano il ponte che, incorniciato da tutti i faggi e le betulle della foresta, lo attraversava... e allora la notò, la figura esile, instabile, fremente e terrorizzata, che si teneva male oltre la ringhiera del ponte, a un passo dal vuoto, a un passo dal fiume, dalla morte e dal mare.
Gerard sospirò ancora e spinse in avanti le labbra, in una smorfia seccata, molleggiandosi sui talloni. Non era la prima volta, o altrimenti, diamine, quello non sarebbe stato il ponte “degli ultimi sospiri”, come l’avevano soprannominato gli abitanti del posto. Che luogo migliore, per morire? Una foresta tranquilla, di foglie chiare, di acqua limpida e ribelle, dove nessuno sarebbe venuto a disturbare il corso, l’ultimo, dei tuoi pensieri tormentati.
Lì ci venivano le persone che a forza di girare in tondo inseguendosi la coda, sbattevano la testa contro uno spigolo e cadevano scompostamente a terra, con un gran mal di testa e qualche lacrima, e si accorgevano di quanto tempo avevano sprecato, e di come fosse troppo tardi; a quel punto, strisciavano fino al bordo e si lasciavano morire.
Era la fine insulsa per un’esistenza insulsa, coerente a sé stessa.
Aguzzando la vista, la figura diventò un ragazzo giovane, ma quei tipi di tormenti non avevano un età.
Gerard notò i suoi occhi grandi, spalancati enormi perché si specchiassero nell’acqua, perdendosi nei suoi riflessi così tanto allettanti. Li notò grandi, vuoti eppure pieni.
Gerard distolse lo sguardo. Non sarebbe intervenuto, non ne sarebbe valsa la pena, quell’anima avrebbe trovato un altro ponte per morire, e non voleva avvicinarsi a quel baratro d’oblio.
Ma erano occhi così grandi... ed erano... spenti, eppure non neri e morti come quelli che già aveva visto lasciarsi cadere, arrendersi, dare vittoria alla loro stessa vita, o meglio, alla loro stessa morte. Ma Gerard aveva imparato a non giudicare.
Il ragazzo aveva un’anima grigia, sotto quegli occhi grandi, lontani.
E Gerard amava, il grigio.
Il suo sguardo si spostò nuovamente in alto, alla ricerca di quel colore spento, molto simile a quello del cielo, e non lo distolse più.

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Frank aveva definitivamente finito le lacrime. Certo, aveva ancora male ovunque, male alle gambe, ai polmoni e all’anima, ma non piangeva più. Adesso, abbandonato alle tentazioni della sua anima strappata, aveva in viso asciutto, scolorito come quello di un morto, ed era intento a guardare in giù, verso il fiume, verso i risucchi violenti e gorgoglianti dell’acqua, le pietre che andavano e venivano sotto e sopra il pelo dell’acqua, arrotondate e letali.
Com’era finito lì?
Forse, pensò Frank, era meglio morire con un colpo secco alla nuca, o alla tempia, che aspettare di morire affogando, ma ora che aveva deciso di mettere fine ai suoi pensieri, ora che era in bilico in piedi sul quel ponte, ora che aspettava che qualcuno gli strappasse via anche l’anima, non aveva più alcun potere, e sarebbe stato il fato, o forse solo il caso, a decidere per lui.
Suicidio.
Era una parola così strana, tagliente e aspra al solo farsela scivolare sulla lingua, con troppe i mescolate ai suoni melliflui eppure acidi della s e la c; un termine banale di otto caratteri, ma mille milioni di domande e risposte, forze e debolezze, lì appena sotto l’inchiostro. Era impressionante come una parola tanto misera potesse contenere questo, e potesse bastare a esprimere una vita di sensazioni tutte sbagliate, che non erano andate a parare da nessuna parte, che erano rimaste sprecate e abbandonate a ridosso di un muro di graffiti scoloriti.
Sarebbe stato interessante scoprire con che criterio ci si accorgeva delle vite vissute giuste, e le vite vissute sbagliate, e perché una di queste avesse accolto a braccia aperte una parola con tutti quei significati.
Suicidio. Su. Dio. Io.
Era qualcosa di semplice che diveniva complicato, per poi tornare alla realtà e ridiventare una reale, cruda, complicata semplicità.
Cosa sarebbe bastato?
Solo un salto.
E un salto sarebbe bastato, per volare?
La vita non gli aveva mai davvero sorriso, e Frank sapeva che non avrebbe aperto in tempo le ali, e che sarebbe morto nel tentativo. Ma era okay, andava bene così, perché anche volando non sarebbe mai riuscito a scappare a sufficienza da sé stesso, né tanto meno dalle urla folli che grattavano e allargavano le sue crepe interiori.
Frank bramava quel silenzio, quel silenzio assoluto che già riusciva a cogliere in mezzo ai risucchi del’acqua... lo sentiva proprio lì, tentatore molesto di patetiche tragedie, risalire dal fondale e accarezzare il pelo dell’acqua con la punta delle dita, facendo seducentemente segno di seguirlo, perché all’inizio farà freddo, ma poi ci sarà silenzio, e quindi pace.
O forse, poi, ci sarà l’Inferno, ma quello probabilmente se lo meritava.
E comunque, all’Inferno, sarebbe stato troppo occupato a urlare per poter sentire qualcuno urlare a lui.
Ma era meglio, era meglio così.
 
Si spostò ancora un po’ di più sul bordo, le dita ancora avvinghiate al metallo gelido e arrugginito della ringhiera del ponte. Era freddo, e la ruggine pizzicava la sua pelle... quindi, lo mollò.
Bastava solo un salto.
Sto per morire.
Il suggerimento della sua mente lo fece deglutire, ma ricordare dove fosse lo calmò... ricordò quando ci veniva da bambino, con i suoi genitori, passandoci ore. Ricordò quando giocava nell’acqua, quando suo padre scherzosamente lo inseguiva, su per i sassi e in mezzo alle acque più basse, anche a costo di bagnarsi i pantaloni da lavoro. A lui non importava, diceva, perché voleva godersi qui e l’ora, con le persone che amava, nei luoghi che amava, e quindi al diavolo il lavoro e i pantaloni.
Linda! Linda! Vieni a vedere, ho trovato un granchietto che parla!» Frank ricordava suo padre urlare quella frase, quando lo catturava e lo capovolgeva per farlo dondolare, e ricordava chiaramente le risa cristalline di sua madre, che si copriva la bocca con il libro che fino a poco prima stava leggendo; a sua madre piacevano i libri d’avventura e di fantasia, proprio come ai ragazzi, e non si stancava mai di quelle storie.
Frank non si stancava mai di sentirla raccontarle.
Se si concentrava, sentiva ancora il rimbombo delle loro voci, rimbalzare sulle rocce e tornare a lui, incurante del tempo che era passato, che passava e che passerà.
Ora, questo posto Frank lo vedeva così vuoto... così vuoto da scavare ancora un po’ di più nella sua anima; non c’erano risa, non c’erano schiamazzi, non c’erano scherzi, non c’erano baci, ma solo e soltanto il gorgoglio veloce e irregolare del fiume. Esasperante e primordiale.
I suoi genitori non avrebbero potuto tornarci mai più, ma... ora come ora, Frank sperò di poterci rimanere per sempre.
Tanto, pensava, ci sarebbero voluti un sacco di giorni prima che qualcuno si accorgesse che mancava, e altrettanti prima che qualcuno si rendesse davvero conto che poteva essere morto, e ancora di più prima che qualcuno capisse dove, aveva deciso di morire. E quel giorno, probabilmente, il fiume avrebbe già provveduto ad affidare il suo cadavere al mare.
 
Prese un respiro, si inumidì le labbra secche, strinse gli occhi e li riaprì: li voleva vedere avvicinarsi, il fiume e i suo segreti.
Addio. pensò, perché almeno un addio se lo meritava, anche se nessuno avrebbe potuto rispondergli, o agitare una mano e sorridergli, rassicurandolo con “ehy, ci si vede dall’altra parte”.
Adesso, un salto, lo stesso salto che compiva da bambino per saltare dalla roccia fino alle braccia di suo padre. Era semplice.
Un salto.
E quindi uno...
Due...
Tr-...
«Io non lo farei.»
 
Frank sbarrò gli occhi e si irrigidì, smise persino di tremare, o respirare, perché tutto al suo interno era diventato pietra e ghiaccio; a quel punto, con la potenza di una sberla il suo cervello si rese conto di quanto fosse in bilico sul vuoto, instabile e succube al cambiare del vento, e con uno stravolgente moto di terrore tornò a serrare i pugni sul metallo alle sue spalle. La sensazione di ritrovato equilibrio fu abbastanza piacevole da mandargli un capogiro e offuscarli per un attimo la vista.
«L’acqua lì sotto è fredda, te lo dico io»
Ancora quella voce. Cristo.
Frank, senza sapere bene come reagire a quell’assurdità, voltò di scatto la testa: lì sui ciottoli del ponte, a qualche metro da lui, c’era un ragazzo, che con un sorriso storto e un po’ beffardo lo guardava, le mani nelle tasche dei jeans scuri mentre si molleggiava sugli anfibi.
Frank temette di essere stato folgorato. Nel senso, una volta un fulmine gli era caduto piuttosto vicino, e la scarica elettrica se l’era sentita vibrare sulla pelle, e una volta aveva messo erroneamente la mano nella presa: la sensazione, ora, era diversa ma simile.
Ebbe l’impressione che il tempo si fermasse, o meglio, desiderò che lo facesse, purché permettesse a Frank di rimanere in quello stato di stallo, ad osservare le ciocche nere dello sconosciuto muoversi a ritmo con i soffi del vento, a seguire la linea perfetta dei suoi occhi, troppo lontani e troppo ristretti per vederne il colore, e a studiarne i lineamenti morbidi interrotti dalle sopracciglia scure e corrucciate... solo quell’occhiata bastò a farlo sentire rapito, lasciato col cuore in gola in uno spicchio di spazio fuori dal tempo, mentre contemplava le sensazioni che uno solo dei suoi sguardi silenziosamente esprimeva.
Poteva essere frutto della sua fantasia, oppure chissà, il suo angelo custode.
Ma, fanculo, se era il suo angelo custode avrebbe potuto fare qualcosa molto prima, perché oramai c’era molto poco da salvare, o da custodire. E non importava quanto quella persona – se una persona era – fosse affascinante, enigmatica e, beh, invitante. Perché sì, nella frazione di un istante Frank aveva provato il desiderio di sentire sotto le dita quei capelli, sentire che odore avesse la sua pelle porcellana, e soprattutto vedere di che colore fossero i suoi occhi.
Sentire il suo calore sulla pelle, perché Frank aveva il disperato bisogno di qualcuno, di sentire il loro cuore battere al ritmo con il suo.
Ricordava ancora, quello di Julie.
Ma era tardi, ormai.
E dopo questo pensiero, Frank sentì risalirgli la gola anche un’arrendevole irritazione: voleva essere lasciato solo, anche nell’ultimo giorno della sua vita. E invece ora gli sconosciuti si prendevano la briga di rompere - con frasi idiote - l’intimo addio a sé stesso.
Che ironia.
«Vai via» sibilò a denti stretti, forse più rabbiosamente di quanto intendesse, tornando a puntare lo sguardo in avanti, non verso il fiume, ma verso la linea irregolare che divideva la foresta dal cielo.
Il ragazzo non rispose, e Frank tentò con tutto sé stesso di ignorare il rumore dei suoi passi e dei suoi movimenti, ma la cosa divenne pressoché impossibile quando qualcuno si appoggiò alla ringhiera, e si trasformò in impensabile, quando Frank si vide il corpo dello sconosciuto pericolosamente vicino, mentre questi scavalcava il metallo e ci appoggiava contro la schiena, sistemandosi in piedi proprio accanto a Frank, con un nulla di distanza dal nulla stesso.
Frank sbarrò ancora di più gli occhi, vedendolo così vicino al bordo, e sentendo formicolargli nelle membra l’istinto di allungare un braccio per assicurarsi che l’altro ragazzo non cadesse.
E invece non fecero niente, rimasero lì, muti, tra il ponte e il fiume, a guardare in avanti e sentire il rumore dei propri respiri.
Frank era confuso, e ovviamente non capiva perché questo tizio se ne stesse lì, accanto a lui, con il rischio di cadere, senza dire niente e senza nessuna espressione in viso: non sorrideva più, guardava in avanti e la sua espressione non comunicava assolutamente niente.
«...e io lo so, che è quel tipo di freddo che se cadi ti arriva fino all’anima».
Era serio, impassibile... fermo, immobile, una statua bellissima che Frank ebbe il coraggio di osservare solo con la coda dell’occhio, nonostante fosse lì accanto a lui. A malapena comprese ciò che disse.
Non seppe quanti minuti passarono, ma Frank se li sentì scivolare addosso, e per una volta nella sua vita, rimasero muti, silenziosi, come desiderava fossero sempre: niente più grida.  E non stava facendo proprio nulla di diverso dal solito, se non fissare lo stesso punto che il ragazzo misterioso accanto a lui fissava, o inspirare l’aria fresca di gennaio intrisa dall’odore delle foglie e dell’acqua; la città non arrivava a rompere quella splendida selvatica armonia.
Fu con la forza di uno schiaffo che Frank boccheggiò, realizzando all’improvviso che, se quello sconosciuto non fosse spuntato all’improvviso,proprio adesso, proprio mentre seguiva il volteggiare di una foglia gialla screziata di rosso, il suo corpo avrebbe potuto essere lì sotto, sul fiume, a perdere sangue sopra i sassi.
Morto.
La foglia si posò sull’acqua, e lì rimase, in balia della corrente.
All’improvviso, ebbe paura.
Paura dell’ignoto, perché non sapeva dove, prima del mare, il fiume andasse, e non sapeva cosa davvero lo aspettasse, dopo, perché non era sicuro né del silenzio né dell’Inferno.
Si girò di scatto, e poté catturare i lineamenti del profilo del ragazzo con un solo, deciso, chiarissimo sguardo.
Il ragazzo aveva gli occhi verdi.
Ed era bellissimo. Ed era serio, insofferente, e non comunicava niente, ma Frank decise di vestirlo con i colori della speranza, e ci si aggrappò con tutto sé stesso, anche se sapeva quanto fosse sbagliato.
Probabilmente, non l’avrebbe neanche rivisto mai più.
 
Frank ricordò sé stesso e il proprio pensiero: gli angeli erano sempre tutti così seri. Il diavolo, invece, l’avrebbe accolto col sorriso.
Ma i sorrisi mentivano, e ora come ora, onestamente, Frank non avrebbe voluto altro dalla vita se non osservare quell’angelo che sulla Terra aveva perso le ali, quell’angelo che con un espressione vuota osservava il niente, trovandoci il tutto. 




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Ed eccoci qui, anche se un po' in ritardo... Il punto, è che sono davvero esausta e stanca di qualunque e in qualunque aspetto della vita. Tutti gli anni è sempre un cattivo periodo questo, mi sale l'ansia già solo a febbraio. 
Uhm... fatemi sapere pareri per questo capitolo, se sono lenta o se corro troppo, se si capsice qualcosa o se secondo voi, è una scena stupida (sai com'è, non ho mai provato a fermare il suicidio di qualcuno, che ne so cosa funziona cosa no ._.

E ho bisogno di una vacanza, una vacanze lunga, che non devo nemmeno darmi lo stress di organizzare. 

Ah, e sì, sono abbastanza verme da aver fatto cominciare tutto questo il 13 Gennaio, alias il mio compleanno. Così, per sentirmela vicina.
Comunque... ho già un blocco, sulla scrittura in generale, lo stesso blocco che già sto gestendo con l'arte, ma è lì... ho voglia di scrivere ma non mi piace ciò che esce, nemmeno un po'. Quindi, spero di riuscire a scrivere il capitolo 4, prima o poi, ma non so dare date certe. 
Chiedo già scusa, per evenienza, spero di riuscire a caricare in un tempo decente.
Bye,
_Ashes

 
  
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