Il Diluvio Universale –
Annalisa
Ogni volta che tra
noi due sembra comparire un gradino su
cui alzarsi per andare avanti, ecco che scompare
qualcos’altro. Un pezzo di
ringhiera – e dove mai potrò aggrapparmi allora, a
te? – o il pianerottolo
precedente. Eccomi allora intrappolata tra un futuro a cui non posso
correre
incontro, e un passato a cui la mia testa non vuole far ritorno. Chi
dice che è
il presente ciò che conta, non credo abbia sempre ragione.
Conta se del
presente siamo soddisfatti, se non vorremmo mai cambiasse, se siamo
così felici
da essere terrorizzati che qualcosa possa minarlo. Io su questo
presente
galleggio, spesso indifferente, aspettando che un’onda
più forte di un’altra mi
trasporti più in là. O mi faccia affogare, giusto
in attesa che tu possa
salvarmi. Ma non mi abbandono a questa fiducia nei tuoi confronti, non
adesso
che ancora non capisco quale considerazione tu abbia di me.
Mi costringi
così a sognare un futuro che tu adesso non sai
offrirmi.
Ridi dei miei
sbagli, prendi in giro il mio rapporto con gli
uomini e addirittura consideri insufficiente il mio ruolo di madre. Ti
permetti
di criticare ogni cosa, giudichi come se i parametri
dell’essere umano perfetto
appartenessero a te; ciascuno che si allontana da questi termini di
paragone
non ha facoltà di concorrere per la tua approvazione.
E mentre ti guardo,
seduto al tavolino della zona ristoro,
in pausa pranzo – e ancora mi infastidisce che non mi abbia
proposto di
passarla con te –, mi chiedo cosa ci faccio, ancora qua, a
studiare ogni tuo
gesto, a calcolare quando potresti sorridere, a sperare che ti accorga
di me,
gettandomi magari un’occhiataccia.
Una delle cose che
sai fare meglio.
«Hai
mangiato?»
Riapro gli occhi.
Avevo spento il cervello per qualche
minuto, giusto il tempo perché ti accorgessi di una
dottoressa appisolata ad un
tavolino tristemente ingombrato da un'unica bottiglietta
d’acqua. Mi preparo a
una delle tue migliori battute, anzi, mi stupisco che la tua domanda
non fosse
andata dritta a chiedermi se ero pagata per dormire. E
tu per vincere ogni giorno il premio empatia.
«No.»
«Ah,
giusto: prova costume tra qualche mese.»
Odio questa
realtà, odio te, che non mi lasci niente di
concreto su cui gettare le mie speranze, odio volerti così
bene, e odio stare
così male.
«Ti offro
un caffè, accelera il metabolismo.»
«Ne ho
già preso uno. Mi verrà la
tachicardia.» Ci viene
così naturale, estraniarci dalla realtà anche
solo rientrando nella disciplina
che pratichiamo ogni giorno. Basta un riferimento qualsiasi e torniamo
ad
essere medici, se mai è possibile smetterlo di esserlo.
Possibile e conveniente, dati gli
esiti spesso
disastrosi dei nostri dialoghi ‘senza camice’.
«La
tachicardia? Quella ti viene perché ci sono io.»
«Ti
definisci anche causa dei miei mali, adesso?»
«E se
fossi il tuo medico ti prescriverei di starmi
lontano.» Faccio per aprire bocca, per dire che ci starei
volentieri se non
fossimo obbligati da contratto, che quando riesco a farlo sei tu a
cercarmi. Ma
mi anticipi, dopo esserti avvicinato a me. «Però
non saresti una paziente
modello.»
Strano, che tu abbia
ragione. Continuiamo a guardarci in
silenzio per decine di secondi, l’offerta di un
caffè ancora in sospeso, il
turno ancora lungo che mi avrebbe portata molte altre volte a
scontrarmi con
te, il desiderio di sentirmi completamente apatica quando siamo a meno
di un
paio di metri di distanza.
Mi alzo, scansandoti
con una mano all’altezza del tuo petto,
senza mai sfiorarti.
«Dove
vai?»
«A farmi
prescrivere da Sergio un beta-bloccante.» Voleva
essere un modo per ribattere provocatoriamente alle tue battutine da
quindicenne, ma uscì come un’ammissione in piena
regola dei tuoi sospetti.
Se non fossi voltata
di spalle ti vedrei ora sorridere.
Se non fossi
già lontana ti sentirei sussurrare «Prendine
una confezione anche per me.»