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Autore: AnyaTheThief    05/06/2016    2 recensioni
Roman Kozlov fissava quella palazzina da alcuni minuti. Gli sembrava incredibile che fosse rimasta in piedi, visto il destino crudele nel quale era incorsa Vienna intera.
“Quanto tempo è passato? Quanto tempo dall'ultima volta che mi hai baciata e senza parlare mi hai promesso una vita assieme?”
Athos si svegliò all'improvviso con un sussulto ed ansimò forte, in un letto di sudore. Si portò le mani tra i capelli fradici e fissò il vuoto per alcuni minuti.
Sbroglierò i nodi che ho creato nei due capitoli precedenti di Crossed Lives, spero li abbiate letti!
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Milady De Winter, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Athos aveva raggiunto Londra dopo alcuni giorni di viaggio. Sentiva di essere sulla buona strada, ma non aveva idea di quanto fosse grande l'Inghilterra, né di dove iniziare a cercare.

Era stato ingenuo ed ostinato nel pretendere di arrivare fino a quel posto sconosciuto, dove nessuno capiva ciò che diceva, e poterla cercarla chiedendo a tutti se conoscessero la donna più stronza del mondo, anche se una parte di sé era ancora convinta che l'avrebbe trovata soltanto con quell'informazione.

Si ritrovò in una taverna a bere, di nuovo. Nulla era cambiato. Parigi o Londra, finiva sempre sconfitto e distrutto da una donna che non vedeva da cinque lunghissimi anni e che poteva benissimo essere morta.

Si scolò un paio di bottiglie di vino. Non era buono come quello di Parigi, ma il George Inn Pub era accogliente, nessuno faceva risse e nessuno lo guardava storto perché era straniero.

In uno dei suoi ultimi momenti di vaga lucidità, udì qualcuno parlare francese al bancone. Erano due uomini: non sembravano viaggiatori, quindi dedusse che risiedevano nella città o quantomeno erano lì da più tempo di lui.

Si ripulì la bocca con la manica e, senza lasciare la bottiglia, barcollò verso di loro. Doveva essere più rumoroso di quanto pensasse perché non li aveva ancora raggiunti che i due si erano già voltati verso di lui. “Possiamo esserVi utili?” domandò in inglese il più basso, un uomo sulla cinquantina tarchiato.

Athos tirò fuori il guanto dalla tasca. “Quanti abitanti ha Londra?” biascicò confuso dall'effetto del vino ed ancora stordito dal lungo viaggio.

“Più di duecentomila, diamine!” rispose il più basso e tarchiato dei due.

“Li passerò uno ad uno. E la ritroverò.” disse sventolando il guanto davanti alle loro facce, come se ritenesse importante dar loro quell'informazione, forse perché erano gli unici in quel pub a poterlo capire.

“Dove ha preso quel guanto?” domandò d'un tratto l'oste in inglese ai due uomini, avendo compreso che Athos non parlava la sua lingua.

I due, stupefatti, alternarono lo sguardo dal corpulento uomo dietro il bancone al moschettiere, che aveva intuito la domanda nonostante la barriera linguistica.

“Perché me lo chiede?” si fiondò sul bancone, verso l'uomo. “Sa qualcosa?!” esclamò concitato.

“Si calmi.” disse il più alto dei due francesi. “Cerchiamo di capirci.”

“Una donna che veniva sempre qua indossava la copia identica di quel guanto.” spiegò l'oste ai due uomini. “Pensavo cercasse lei.”

Ed uno dei due tradusse ad Athos, che nel frattempo riacquistava lucidità e tornava un po' in sé.

“Chiedetegli come si chiamava. Chiedetegli dove si trova ora. Devo sapere tutto.”

I due parlarono in inglese con l'oste per qualche istante, che ad Athos parve un'eternità. Si ripromise di imparare la lingua, perché stava soffrendo di un'impazienza incontenibile. Tutti tacquero e lui guardò i due con occhi spiritati. “E allora?!”

“Ha detto che non sa il suo nome. Veniva sempre qui con un uomo, ma ormai è qualche settimana che non la vede.” disse incerto lo spilungone.

“E chi è questo tipo?” esortò Athos. Si stava innervosendo, quei due nascondevano qualcosa.

“Mr. Matthews.” rispose di nuovo quello alto, dopo un attimo di silenzio.

“Lo conoscete?” dovette insistere il Capitano.

“E' uno... poco raccomandabile.” confessò il più basso.

Athos perse la pazienza. “Giuro su Dio che se non parlate, ve ne darò così tante da farvi dimenticare entrambe le lingue che conoscete!” ringhiò. L'oste gli lanciò un'occhiataccia ma lui non se ne curò.

“E' proprietario di un bordello. Vicino al porto. Ma non vi conviene anda--”

Athos non seppe mai la fine di quella frase. In un attimo era già fuori dal pub: sembrava aver ripreso controllo delle sue gambe e per un paio di fantastici minuti sperò di poter raggiungere il porto, riprendersi la sua donna e tornare a Parigi senza nemmeno fermarsi a dormire per la notte. Ma uno schianto lo riportò alla realtà: era il suo corpo che cadeva a terra, pesante e inerme.

Si addormentò lì e la rivide soltanto nei suoi sogni.

 

 

Roman non era riuscito ad aspettare nemmeno per qualche ora. Si era procurato del cibo, l'aveva ficcato in una sacca già piuttosto piena e si era fiondato a quell'indirizzo, trepidante.

Inutile dire che rimase deluso quando capì che il palazzo corrispondente a quel numero civico era collassato su se stesso e rimaneva in piedi per miracolo. Ma non si arrese. Nella sua testardaggine, si infilò nel portone, stando attento a non toccare nulla che potesse minare la stabilità dell'edificio, alla ricerca di un indizio qualsiasi. Notò che la rampa di scale che portava ai piani superiori era mezza crollata, ma quella che scendeva verso la cantina era intatta e anzi, sembrava essere stata ripulita dai calcinacci.

La scese in silenzio, guardandosi attorno un po' inquietato dagli scricchiolii provocati dalle travi che si inclinavano e dagli scalpiccii di pezzi del soffitto che cadevano. Non si vedeva nulla là sotto. Per poco non si scontrò con la porta che dava l'accesso alla cantina.

La aprì lentamente e subito capì che il posto non era abbandonato: una fioca luce proveniva dall'interno, accompagnata dal suono di uno strumento che però si smorzò subito. Dovevano averlo sentito.

“Non voglio farvi del male.” disse, per l'ennesima volta. Si stava così abituando a dire quella frase che quasi la pronunciava senza più accento. Sentì dei rumori provenire dall'interno, come se qualcuno stesse cercando di nascondersi frettolosamente, ma lui fu più lesto: quando entrò nello scantinato, riuscì ad intravedere un lembo del vestito di Vanessa sparire rapidamente dietro ad un grosso armadio. “Sono io, Roman.” disse, avanzando lentamente per non spaventarla.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare.”

Sul tavolo accanto ad un divano vecchio e rotto, insieme ad una lampada ad olio, era appoggiato un violino, del quale aveva riconosciuto difatti il suono con qualche attimo di ritardo. Non c'era nessun altro lì.

A Roman sfuggì un sorrisino: sapeva che gli aveva mentito. E sapeva anche come farla uscire allo scoperto. “E' proprio un bello strumento...” la provocò, pizzicando una corda.

“Non toccarlo!” esplose subito lei, fiondandosi fuori dal suo nascondiglio, a difesa del suo violino che subito andò a prendere con sé. Roman sorrise vittorioso e lei si ritrasse, rossa di rabbia e frustrazione. “Come mi hai trovata? Mi hai seguita?” domandò impettita e offesa.

Il soldato si sedette sul divano e lei lo fulminò con lo sguardo. Lui aprì la sacca che portava con sé e ne estrasse un tozzo di pane, del formaggio, una scatola di fagioli ed una bottiglia di acqua potabile.

“Credo che tu abbia dimenticato qualcosa...” disse teatrale, tirando fuori dalla tasca un documento e leggendone il nome “... Nico Weber. E credo che non sia nemmeno tuo.”

Lei scattò in sua direzione e cercò di strappargli di mano il documento, ma Roman fu più rapido e lo ritrasse. “Penso che tu mi debba delle spiegazioni. O non hai tempo? Devi accudire tua sorella, forse?”

Vanessa tremava di rabbia. Lo fissava, ferma sul posto. Se fosse stata un animale selvatico, starebbe sicuramente ringhiando, pronta ad attaccare. Ma era solo una ragazza, e gli occhi le si riempirono di lacrime sincere che le scorsero giù lungo le guance, rivelando il vero colore della sua pelle chiara nel solcare lo strato di sporco accumulatosi.

Roman inizialmente si sentì in colpa, ma continuò a tirare fuori oggetti dalla sua sacca. “Perché non mi racconti a chi hai rubato questi documenti... Questi vestiti...” e ne estrasse una giacca, dei pantaloni ed un cappello da uomo. “E questa pistola?” domandò infine, tenendo l'arma ben salda, prima che lei potesse fare qualcosa di avventato. “Non credo più alle tue lacrime.” dichiarò poi, sicuro di sé. Era stanco di farsi ricattare dalle donne, in un solo giorno era stato minacciato e preso in giro più di quanto lo fosse stato in tutta la sua vita.

Vanessa si ostinava a non rispondere.

“Hai nascosto tutto nelle macerie di quella casa, quando hai capito di essere in trappola. Ingegnoso il travestimento, ma adesso mi spieghi perché diavolo mi hai sparato!” la severità con la quale Roman pronunciò quelle parole andò crescendo e sfociò in risentimento. Dopotutto avrebbe anche potuto ucciderlo.

Vanessa prese qualche rapido respiro, sbuffando rabbiosa, poi partì correndo verso la porta, col suo violino stretto in mano.

“Ferma!” gridò lui, fiondandosi a bloccarla. La riprese appena davanti all'uscio, mentre lei già lo aveva aperto. La cinse con le braccia da dietro, immobilizzandola nonostante lei continuasse a scalciare e dimenarsi.

“Lasciami, lasciami, maiale!” squittiva, ribellandosi.

“Ma quale maiale, se esci là fuori sai cosa ti succederà! Stai ferma, non ti farò niente. Ti stavo solo provocando un po'.” confessò. E lei si calmò, gradualmente.

“Vieni. Raccontami.” Roman si porse in maniera più gentile, accompagnandola verso il divano, mentre lei singhiozzava sommessamente, sconfitta. “Ti giuro che non volevo farti del male.” aggiunse.

“Le promesse dei soldati non valgono niente.” ripeté lei, come gli aveva detto quello stesso pomeriggio.

“Quanti soldati conosci?” replicò lui, ancora un po' provocatorio e stanco di sentire quella frase non veritiera: lui le sue promesse le rispettava sempre.

“Uno. Mio padre: Nico Weber.” rispose subito lei. “Aveva promesso che sarebbe tornato. E' rimasto in Spagna con quella puttana e ci ha lasciato qui a venire massacrate da altri maiali come lui.”

Quella confessione fu così dura e grezza che Roman non sapeva come rispondere. Avrebbe voluto farle tante domande, ma niente gli usciva dalla bocca. Non ce ne fu bisogno: fu lei a proseguire.

“Li hai mai visti? Li hai mai visti violentare una bambina di nove anni? Come puoi chiedermi di fidarmi, dopo che mia sorella e mia madre sono morte per mano vostra?” la sua voce era stranamente controllata, oscillava leggermente soltanto sulle parole sulle quali voleva porre accento. Il suo corpo, tuttavia, tremava forte come le corde del violino che stringeva forte al petto come se potesse proteggerla.

Roman la fissò in silenzio e non poté fare a meno di pensare che anche in quella sua espressione così sconvolta, questa volta per davvero, fosse bellissima. Ripensò alla bambina che aveva salvato qualche giorno prima, pagando con le botte il suo gesto d'eroismo e avrebbe voluto risponderle che sì, li aveva visti, ma stava cercando di dimenticare.

“Volevi far incolpare tuo padre di omicidio o soltanto uccidermi?” le domandò tranquillo.

“Mi sono accorta di aver sbagliato bersaglio solo quando ti ho visto da vicino. Uno dei porci che hanno ucciso la mia famiglia ti assomigliava molto, e...”

“Quindi te ne vai in giro per la città cercando vendetta? Ti farai ammazzare.” la derise con aria decisamente scettica, senza pensare al fatto che comunque era riuscita a ferirlo ed ingannarlo.

Lei sembrò risentirsi a quell'affermazione. “Non ho chiesto il tuo parere a riguardo! E per la cronaca, sono già a metà opera, quindi forse non sono così stupida come credi!” ribatté lei indignata.

“Non ho detto che sei stupida, ma solo incosciente. Cosa intendi con 'a metà opera'?” Lei non rispose e distolse lo sguardo, evasiva. “Quanti uomini hai ucciso?” insistette Roman. Vedendo che ancora non accennava a rispondere, le prese una mano tra le sue così rapidamente che lei non ebbe tempo di ritrarla. “Devi fermarti. Non puoi andare in giro ad ammazzare gente e pensare di farla franca.”

Vanessa ritrasse la mano di scatto come se il contatto con lui la stesse ustionando. “A te cosa importa?”

“Insomma, mi sto preoccupando per te!” sbottò lui, alzandosi in piedi.

“Per me o per i tuoi compagni?!” ribatté lei, alzandosi a sua volta e fissandolo per istanti interminabili.

Lo mandava fuori di testa e nemmeno lui sapeva spiegarsi il perché. Era soltanto una donna ostinata, avrebbe potuto farla tacere in qualsiasi momento, ma non riusciva a trovare le risposte adeguate alle sue insinuazioni. Perché non l'aveva semplicemente lasciata perdere? Perché gli sembrava così sensuale nonostante fosse sudicia, misera e lo trattasse così male? Come era finito ad avvicinarsi così tanto al suo viso?

In poco meno del tempo necessario a Roman per pensare a cosa stesse facendo, si ritrovò a baciarla con desiderio. Le aveva preso il viso tra le mani ed assaporava la sua bocca un movimento alla volta. Lei ricambiava, ma rimaneva sempre un po' distaccata: nella sua mano destra reggeva ancora il violino, mentre la sinistra pendeva lungo il fianco immobile. Era come se Vanessa avesse vinto ancora; aveva ottenuto ciò che voleva, ed ancora una volta lui aveva fatto il suo gioco.

Stupido.  

  
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