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Autore: Losiliel    18/06/2016    7 recensioni
Finwë e i suoi nipoti attendono a Formenos il ritorno di Fëanor, richiamato presso la dimora di Manwë per partecipare a un'importante celebrazione, quando la tragedia si abbatte su di loro.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Amras, Finwë, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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CALANO LE TENEBRE

Capitolo 2

 

 

________________________

Ambarussa il maggiore = Amras
Ambarussa il minore (Pityo) = Amrod
Nelyafinwë (Russandol) = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curvo = Curufin
Káno = Maglor
Moryo = Caranthir

WARNING: per punti di vista molteplici, ma ben segnalati all'inizio di ogni sezione
_______________________

 

 

 

IV

AMBARUSSA

 

 

Presso la tenda che avevano eretto quella mattina in attesa dell'arrivo di Tyelkormo, in una radura dove spesso si accampavano quando andavano a caccia in quei boschi, Ambarussa assisteva al sopraggiungere della fine. 

Intorno a lui il mondo stava crollando. L'oscurità era calata all'improvviso, il freddo scendeva veloce, le grida stazionavano in fondo alla mente. Sembrava che tutto stesse per essere inghiottito dal Vuoto.

Da qualche istante sentiva anche le belve spaventate che si avvicinavano circospette. Era un buon cacciatore, sapeva che le belve spaventate diventavano feroci.

Eppure, niente di tutto questo bastava a intimorirlo. Ambarussa aveva imparato a sopprimere le proprie paure fin dalla più tenera età. Aveva sviluppato un carattere determinato, che davanti alle difficoltà diventava quasi testardo. Il padre stesso gli aveva riconosciuto quella dote, in più di un'occasione.

C'erano ben poche cose che Ambarussa non sarebbe stato in grado di affrontare.

Purtroppo non si poteva dire altrettanto del suo gemello. 

Pityo, il piccolo, così l'aveva chiamato il padre, e Ambarussa non poteva che trovarsi d'accordo, perché per quanto i due condividessero un aspetto che li rendeva quasi indistinguibili, lui si era sempre ritenuto il più grande, il più forte, il più capace. 

Anche adesso, nella situazione di estremo pericolo in cui si trovavano, dove potevano contare solo su loro stessi, Pityo se ne stava lì, in piedi, paralizzato dal terrore, con lo sguardo smarrito spalancato contro il cielo nero. Sembrava in pieno delirio, e balbettava parole spezzate.

Lui ne riconobbe soltanto una: – Mamma.

Ambarussa imprecò, lasciando libero sfogo all'insofferenza, e reagì quasi per contrasto, per dimostrarsi ancora una volta diverso da quel fratello debole, che nei momenti difficili sembrava regredire al livello di un bambino.

Accatastò nel centro della radura la legna che avevano raccolto quel mattino e accese un grande fuoco. Recuperò gli archi, le faretre e i pugnali, conficcò alcune frecce nel terreno a portata di mano.

Infine afferrò il fratello per un polso e, con poca grazia, lo trascinò vicino al fuoco, alla luce. Lo guardò negli occhi, scuri e assenti, allo stesso livello esatto dei suoi, e trovò confermati i propri timori: il piccolo sembrava aver perso completamente il contatto con la realtà.

A quella vista, la rabbia che cercava così tenacemente di alimentare minacciò di abbandonarlo. Dovette sforzarsi per ricordare a sé stesso che la compassione era debolezza, e la debolezza era la prima cosa da evitare in un frangente come quello. Anzi, era la prima cosa da evitare e basta.

Prese il viso del fratello tra le mani e lo tenne fisso davanti al suo. – Ambarussa, guardami! – gli ordinò, chiamandolo col nome che condividevano. La sua voce era ferma, anche se non dura quanto avrebbe voluto.

A volte bastava questo per placare le ansie del gemello. Come se vedere un'immagine di sé capace di mantenere il controllo gli desse la forza per recuperare la calma.

Ma non questa volta. Pityo perseverava nel suo sguardo assente, come perso su luoghi a lui preclusi.

Ambarussa si domandò ancora come fosse possibile che il suo gemello fosse così diverso da lui. Era irritante, peggio, era un affronto personale: il fratello non aveva il diritto di indossare il suo stesso corpo, di essere chiamato persino col suo stesso nome, se non possedeva nemmeno un briciolo di quel coraggio richiesto a tutti i figli di suo padre!

Eppure era sempre stato così. Ambarussa ricordava ancora quelle notti, da bambini, quando si svegliavano di soprassalto sentendo i genitori litigare nella stanza accanto alla loro. Parole dure, cariche di risentimento, che filtravano attraverso le pareti anche se chi le pronunciava si sforzava di non alzare la voce.

Era stato lui, allora, ad avventurarsi fuori dal suo letto, raggiungere il gemello, prenderlo per mano e trascinarlo su per le scale fino alla camera di Russandol, dove finalmente si addormentavano al suono della voce del maggiore che gli raccontava una storia.

E quando, col tempo, le liti si erano fatte più accese e Ambarussa, ormai ragazzino, non aveva più voluto mostrarsi debole agli occhi dei fratelli più grandi, era stato lui ad accogliere il gemello nel proprio letto, a tenerlo stretto tra le sue braccia, e a consolarlo nel solo modo cha aveva trovato. Era entrato nella sua mente e aveva scacciato la confusione e la paura con tutta la determinazione e il coraggio che era riuscito a mettere insieme.

Alla fine la madre se n'era andata, le grida erano cessate, e non c'era stato più motivo di condividere il letto o la mente.

Ambarussa aveva allora provato un disagio indefinibile, come se la partenza della madre non fosse stato l'inizio di un nuovo equilibrio, ma il preludio di qualcosa di ancor più disastroso. E con un certo fastidio, perché mostrarsi debole a sé stesso era persino peggio che farlo agli occhi dei fratelli, aveva dovuto ammettere che da quella condivisione col fratello anche lui aveva tratto conforto.

Così, le rare notti in cui Pityo, preso dal timore che anche il padre potesse abbandonarli, o da chissà quali altri a lui sconosciuti, si rifugiava sotto le sue coperte, lui gli faceva posto nel suo letto ormai troppo stretto e dormiva ancora col piccolo tra le braccia, anche se questo comportava lo svegliarsi con qualche arto intorpidito o con una manciata di capelli che gli finiva in bocca.

Aveva però rifiutato di concedergli il conforto della condivisione della mente. Basta, gli aveva sussurrato all'orecchio, un notte, all'ennesima richiesta del fratello. Siamo troppo grandi per questo genere di cose, buone per i mocciosi che chiamano la mammina perché hanno paura della propria ombra.

Così si era giustificato, ma la verità era che non sopportava più di essere messo di fronte a quelle paure infantili, col rischio di scoprire che, in fondo, erano sempre state anche le proprie.

Ambarussa aveva superato. Aveva soppresso. Era andato avanti. Ambarussa non aveva più bisogno di nessuno.

E Pityo aveva smesso di domandare.

Adesso però non vedeva altra strada per riportare il fratello alla realtà che ricorrere a quella pratica a cui si era sottratto anni prima. Non poteva permettersi di lasciarlo in quello stato fino all'arrivo dei soccorsi (non dubitava che Russandol o Tyelko sarebbero presto arrivati): aveva bisogno di aiuto se volevano restare in vita fino a quel momento.

Allora lo fece sedere in terra, si sfilò la casacca e gliela appoggiò sulle spalle. Gli allontanò dal viso una ciocca di capelli sfuggita dal nodo che legava i suoi ricci scarlatti dietro la nuca e si sedette al suo fianco. Poi gli prese una mano tra le sue e, ricorrendo a tutta la dolcezza che nel corso degli anni si era sforzato di reprimere, implorò: – Ambarussa, lasciami entrare.

E senza attendere la risposta, che credeva scontata, si accinse ad accedere alla mente del fratello, pronto a sostituire la paura con quel minimo di sicurezza di cui disponeva. Era passato molto tempo dall'ultima volta, e si trovò a procedere con insolita cautela e con un certo imbarazzo, confidando però nel fatto che, appena il fratello avesse percepito la sua presenza, l'avrebbe accolto senza esitare.

Invece, del tutto inaspettatamente, Pityo lo respinse.

E come se non bastasse, il fratello cominciò a tremare, sebbene sedesse proprio di fronte al fuoco, anzi sembrava quasi che il fuoco stesso, invece che dargli conforto, lo spaventasse ancora di più. Lo sentì mormorare parole senza senso sul mondo intero divorato delle fiamme.

Il maldestro tentativo di Ambarussa aveva ottenuto l'effetto opposto a quello sperato.

Allora il maggiore fu preso dal panico: una cosa era decidere di non entrare più nella mente del fratello, un'altra era venirne respinto. Le tenebre potevano anche calare sul mondo, per quel che gli importava in quel momento, ma lui non sarebbe mai stato separato da suo fratello!

Perse il controllo e forzò il contatto, incapace di ritirarsi di fronte a quel rifiuto.

Pityo continuò a opporre resistenza per qualche istante, poi cedette all'improvviso.

Ambarussa precipitò in un pozzo di nera disperazione, e ne fu sopraffatto. Non era preparato a ciò che trovò: lì non c'erano più i timori di un bambino, quello di essere abbandonato, di restare solo al mondo, e non c'erano nemmeno le paure di un adulto, quella di non riuscire a trovare la propria strada, di non essere all'altezza delle aspettative… Laggiù c'era il terrore di un intero mondo condannato alla sofferenza, c'erano le paure di tutte le madri che avrebbero pianto i loro figli, di tutti i padri che avrebbero fallito nel difenderli, di tutti i figli che sarebbero rimasti soli ad affrontare la fine. Come potevano essere racchiuse nella mente di suo fratello?

Ambarussa annaspò. Ecco il motivo per cui Pityo cercava di tenerlo fuori, realizzò, mentre affondava senza possibilità di scampo in quel ribollire di visioni apocalittiche: il fratello non stava cercando di respingerlo, ma di proteggerlo.

Fece un labile, vano, tentativo di riemergere, ma presto scoprì che la disperazione era contagiosa, che le sue misere certezze non erano altro che castelli di sabbia spazzati dall'onda, e in fondo gli sembrò che nulla avesse senso, neppure cercare di resistere.

Grazie a Eru, il gemello sembrò tornare in sé proprio in quel momento, e con uno sforzo che dovette impegnarne la mente tanto quanto il fisico, Pityo riuscì a chiuderlo fuori.

Fu come il colpo di una frusta: Ambarussa venne scaraventato indietro nel suo corpo, che parve non gradirne la presenza. Un nodo gli serrò le viscere e lo fece piegare in due. Si girò di lato appena in tempo per non investire entrambi col contenuto del suo stomaco.

In preda ai conati, sentì vagamente le mani del fratello su di sé che gli impedivano di crollare in avanti, e quando si riebbe, con gli occhi chiusi contro le lacrime che minacciavano di sfuggirgli, il respiro spezzato, la gola dolorante, sentì quelle stesse mani che lo aiutavano a rialzarsi, che gli pulivano delicatamente la bocca con un lembo della manica, che gli accarezzavano una guancia.

Ed erano mani che non tremavano.

Come poteva, il custode di tutta quell'angoscia, avere mani che non tremavano? Come poteva non mettersi a urlare, o a piangere, o crollare a terra schiacciato dal peso della disperazione?

Ambarussa si trovò a dover riconoscere ciò che aveva cercato di negare per tutta la vita: tra loro due, non era Pityo quello debole.

– Scusa – riuscì a balbettare, a capo chino, sopraffatto dalla vergogna. E non si riferiva alla forzatura della mente, allo spettacolo sgradevole a cui l'aveva costretto, alla manica imbrattata. O almeno, non solo a quello.

Voleva credere che ciò che aveva visto nella mente di suo fratello fosse dovuto esclusivamente al calare delle tenebre e alle grida che assediavano le loro menti, che il piccolo non era stato in grado bloccare.

Ma una parte di lui, che sembrava emergere dall'infanzia, gli insinuava che non era così: che tutto questo andava avanti da anni, che mentre lui lo accusava di debolezza e gli rifiutava il conforto, le paure del fratello erano mutate in angoscia, e l'angoscia in disperazione. E che tutto si sarebbe potuto evitare se lui non avesse abbandonato il gemello a sé stesso, se non gli avesse rifiutato l'aiuto, se avesse cercato di capirlo.

Pityo, come se gli avesse letto nel pensiero, e forse era davvero così, perché rimaneva ancora una traccia di quel contatto profondo, mormorò: – Non è stata colpa tua…

Ma se voleva dire altro, Ambarussa non lo seppe mai, perché quando i loro sguardi si incrociarono, fu come se non fosse trascorso un solo istante dai tempi in cui condividevano il letto e i pensieri, le paure e le speranze, e si ritrovarono uno tra le braccia dell'altro. 

Ambarussa non riuscì più a frenare le lacrime, frasi incoerenti sfuggirono dalle sue labbra: – Scusami… non sapevo… non immaginavo… ho sbagliato tutto… 

Parole vuote, che non potevano disfare le sue colpe, e nonostante ciò sentiva il piccolo negare contro la sua spalla, e gli fu grato di quella concessione.

– Andrà tutto bene – continuò Ambarussa per consolare sé stesso al pari del fratello, – adesso siamo di nuovo insieme, mi occuperò io di te… 

E Pityo si strinse a lui con più forza.

 

Ambarussa aveva completamente dimenticato la loro situazione di immediato pericolo (le tenebre che avvolgevano il bosco non erano nulla in confronto a quelle che aveva visto nel cuore del fratello) e così non sentì il fruscio alle sue spalle, né lo scalpiccio quando un grosso animale gli si avvicinò furtivamente da dietro, finché questo non arrivò ad appoggiargli il muso in grembo.

Allora tornò alla realtà e staccandosi di dosso il fratello quanto bastava per guardarlo negli occhi, esclamò: – Ambarussa, guarda, c'è Huan! È arrivato Tyelko!

Poi alzò lo sguardo e vide l'oscurità trafitta dalla luce di lanterne, e sentì la voce di Tyelkormo che gridava: – Russandol! Li ho trovati!

 

 

 

V

FINWË

 

 

Finwë fece velocemente un ultimo giro del piano terra della fortezza, per assicurarsi che tutti l'avessero abbandonato.

Cominciò dai locali riservati a coloro che, pur non essendone obbligati, per lealtà nei confronti di suo figlio avevano deciso di seguire Fëanáro anche in esilio, poi passò alle aree comuni: le cucine, il laboratorio, la biblioteca.

Quando ebbe la certezza che non fosse rimasto nessuno, scese nei sotterranei.

Si affrettò lungo un corridoio illuminato da lampade argentee simili a grandi cristalli, che sbucavano a intervalli regolari da nicchie nelle pareti ai suoi lati, e gettavano cerchi di luce sul pavimento di pietra chiara. La galleria terminava con una porta chiusa, di un legno quasi bianco, ma percorso da venature più scure che sembravano lingue di fiamma che si irradiavano da un centro di fuoco.

Finwë si fermò appena prima, e aprì una porta sulla parete di destra, entrando nell'armeria. Questa si estendeva, più lunga che larga, in corrispondenza di tutta l'ala ovest della fortezza, illuminata dalle stesse lampade argentee, che qui aderivano al soffitto in due corsie che correvano parallele.

Contro le pareti lunghe, ordinate su file e file di rastrelliere, erano disposte armi in numero incalcolabile, lame di ogni genere forgiate da Fëanáro e dai suoi fabbri. Spade lunghe a due mani e spade leggere a lama ricurva, il cui acciaio era stato ripiegato mille volte su sé stesso per ottenere un'affilatura insuperabile, pugnali di tutte le dimensioni e poi, ancora, lance e alabarde e daghe.

Molte mancavano, portate vie dai suoi nipoti, lo si capiva dai numerosi spazi vuoti sui ripiani, ma ne rimanevano ancora a sufficienza da fornire a Finwë un'ampia scelta, se l'avesse desiderato.

Lui le ignorò tutte e si diresse velocemente alla parete sul fondo. Qui, sorretta da due ganci conficcati nella pietra, era appesa una spada racchiusa in un logoro fodero di cuoio. L'elsa, ricoperta da una striscia di pelle annerita dall'uso, non presentava alcuna decorazione, né era abbellita dalla presenza di pietre preziose.

Senza indugio, Finwë la rimosse dai supporti e la sguainò. 

La lama, sebbene lucente e ben conservata, era chiaramente di un metallo meno pregiato rispetto alle altre custodite nell'armeria, e le numerose tacche che la incidevano dimostravano che era stata sottoposta a una lunga usura. Era senza dubbio un'arma meno efficace di quelle forgiate dal suo primogenito.

Ma era la sua spada. Era la spada con cui aveva guidato il suo popolo fuori dalle tenebre, con cui aveva difeso la sua gente nel lungo viaggio verso la salvezza. Era la spada che aveva fatto di lui un Re.

Finwë inclinò la lama davanti a sé, fino a vederci rispecchiati i suoi occhi. La soppesò nella mano destra e tracciò nell'aria immobile un paio di fendenti, come a volerne verificare la maneggevolezza, poi la rimise nel fodero e la agganciò alla cintura.

Infine lasciò i sotterranei con passo deciso, e salì rapidamente al secondo piano, diretto ai suoi alloggi privati. Sperava gli rimanesse abbastanza tempo per un'ultima cosa.

Ma quando passò davanti alle camere che erano state abitate dai suoi nipoti, il suo incedere si fece meno sicuro.

Il ricordo della loro recente separazione, così precipitosa da non permettergli quasi un ultimo saluto, gli fece desiderare di poterli rivedere ancora una volta, e prima che potesse rendersene conto si trovò a vagare dentro e fuori da quelle stanze, e a indugiare con lo sguardo sui quei piccoli particolari che emergevano dalle ombre e che, ai suoi occhi attenti, narravano un'intera vita.

Un fascio di lettere sul letto di Káno, un ciondolo di legno appeso a un chiodo in camera di Tyelkormo, cassetti chiusi da un lucchetto alla scrivania di Moryo. Un bracciale con inciso sopra il suo nome sul comodino di Curvo. Dagli Ambarussa, un letto in disordine e uno rifatto.

In camera di Nelyafinwë si fermò un istante, quando vide sul tavolo l'ultimo foglio di una lunga lettera le cui altre pagine erano già ripiegate dentro una busta indirizzata alla madre.

Nella fievole luce che ancora riusciva a raggiungere l'interno della stanza, si riusciva a malapena a distinguerne le parole. 

"Per quando riceverai questa lettera, avrai forse visto nostro padre. Non stare in pensiero nemmeno per lui. Non permetteremo che gli accada nulla, sai di cosa siamo capaci quando siamo tutti insieme… e qui mi accorgo di non aver scelto l'argomento giusto per rassicurarti. Ma ricorda che c'è il nonno con noi e, non ultimo, che, confinati qui, siamo di fatto costretti a stare lontano dai guai."

Staccato di qualche riga, invece che la firma, Nelyafinwë aveva scritto altre quattro parole.

"Madre, un'ultima cosa"

Poi uno sbaffo d'inchiostro, e nient'altro.

C'è il nonno con noi. Le parole riecheggiarono nella testa di Finwë, mentre piegava il foglio con cura e lo riponeva nella busta insieme agli altri.

Quando finalmente si decise a uscire nel corridoio, la sua determinazione venne nuovamente messa alla prova. Proprio di fronte alla camera di Nelyafinwë c'era una porta i cui battenti erano chiusi dal giorno in cui suo figlio aveva lasciato la fortezza.

Finwë sapeva che non poteva più permettersi di indugiare. Eppure avanzò di un passo e appoggiò una mano aperta sul legno lucido.

Sapeva che doveva affrettarsi. Invece l'altra mano raggiunse la maniglia, come guidata da una volontà propria.

Fëanáro.

Non riusciva a distaccarsi da lui.

Era certo che fosse vivo, ma nonostante questo ogni tentativo di contatto mentale era fallito. Voleva credere che fosse per colpa di quel caos creato dalle anime sopraffatte dalla sofferenza, ma una parte di lui, quella che non era mai riuscita a liberarsi dal senso di colpa, gli suggeriva che il suo primogenito lo stava respingendo di proposito, che era arrivato il momento, tanto temuto, della separazione definitiva.

Appoggiò la fronte alla porta, accanto alla mano. Era liscia, e fresca. Gli costò uno sforzo enorme non aprirla.

Stava perdendo tempo. Peggio, stava perdendo il controllo delle proprie azioni.

Trasse un respiro profondo e si raddrizzò, poi voltò le spalle alla stanza del figlio e andò diretto in camera sua, percorrendo il corridoio ormai buio senza attardarsi ad accendere lampade.

Una volta entrato, andò subito alla finestra, sotto la quale era riposto un grande baule. Ne sollevò il coperchio ed estrasse uno scrigno di legno sul quale era intarsiato il simbolo della sua casata. Lo appoggiò sul letto e lo aprì.

Al suo interno, ripiegata con estrema cura, c'era una sciarpa dal tessuto raffinatissimo, ricamata con tale perizia da somigliare più a un dipinto su tela, che a un intreccio di sottilissimi fili dai colori diversi. E proprio come fosse un arazzo, da un'estremità all'altra il ricamo narrava la storia di Finwë e del suo popolo, dal Risveglio alla costruzione di Tirion, su uno sfondo blu scuro intessuto d'argento, mentre il retro era altrettanto stupefacente, perché, su un fondale azzurro e oro, raccontava la storia di Finwë e della sua prima moglie, dal momento in cui si erano conosciuti, in Aman, fino a poco prima della nascita di Fëanáro.

Finwë si avvolse la sciarpa attorno al collo, un giro solo e le due estremità che ricadevano fin quasi a terra. Era un gioiello ben più prezioso di qualsiasi collana potesse sfoggiare: le mani di Míriel l'avevano tessuta, la sua piccola, indomita, cocciutissima Míriel. Facendo scorrere tra le dita quella stoffa leggera, lo colpì il pensiero che presto avrebbe raggiunto la sua attuale dimora, e si chiese per un attimo come funzionassero le cose laggiù, se avrebbe avuto la possibilità di comunicare con lei, in qualche modo, e in tal caso, se avrebbe trovato qualcosa da dirle.

Poi, spinto dallo scorrere incessante del tempo, spostò la sua attenzione su ciò che rimaneva nello scrigno: un cerchietto d'oro, molto semplice, formato da due fascette che si univano sul davanti in un intreccio nel quale era incastonata una piccola pietra azzurra, che proveniva dalla sponde stesse del Cuiviénen. Un retaggio dei tempi antichi, quando lui ancora non era un Re, ma un condottiero, e la fanciulla che gli aveva donato quella pietra non era sua moglie, ma un'amica.

La cara, carissima Indis, che avrebbe in seguito abbandonato la sua gente per amor suo, che avrebbe accettato le difficoltà di un legame unico nel suo genere, e che gli avrebbe donato quattro figli meravigliosi quanto il suo primogenito, e avrebbe reso la sua vita qualcosa di meritevole di essere vissuta anche dopo che il suo cuore era stato spezzato.

Finwë si cinse la fronte col cerchietto d'oro, sfilò i lunghi capelli dalla sciarpa e li fece ricadere liberi sulla schiena, poi si incamminò giù per le scale, col cuore colmo del ricordo di sua moglie e dei loro figli, che non avrebbe più rivisto, e dei loro nipoti, che gli erano cari quanto quelli a cui aveva appena detto addio.

Alla fine giunse all'ingresso e sostò sull'uscio. Le tenebre ormai avvolgevano la fortezza e la luce generata dalle lampade del salone, che proveniva dalle sue spalle, gettava ai suoi piedi una pallida finestra che faceva da cornice alla sua sagoma scura.

Finwë raddrizzò le spalle e puntò lo sguardo dritto davanti a sé, come potesse bucare l'oscurità con la sola forza di volontà. 

Ma dentro, i suoi pensieri cominciarono a vagare fuori controllo e il suo sguardo interiore cercò di sondare il futuro, alla disperata ricerca di ciò che sarebbe accaduto, per dare un senso alla storia del suo popolo, e alla sua stessa vita, che ora giungeva al suo temine. 

Forse, si disse, la sua morte sarebbe servita per far tornare insieme la sua gente, sotto un unico stendardo, accomunata dal desiderio di ottenere la vendetta per il loro Re. Forse i Noldor, sotto la guida di Fëanáro, avrebbero lasciato Aman per tornare nella loro terra natia, perché non c'erano dubbi su dove sarebbe andato a rifugiarsi il Nemico.

E gli sembrò di vederli davvero, di nuovo uniti, forti di esperienze, capacità, conoscenze, armi, che ai suoi tempi non potevano neppure immaginare, combattere insieme per riconquistare ciò che gli apparteneva: la loro terra, le loro opere sublimi, la loro supremazia, e cacciare l'Avversario una volta per tutte, per riuscire là dove anche i Valar avevano fallito. Che impresa degna di essere ricordata nei canti, più epica persino di ciò che era stata la Grande Marcia!

Dalle sue labbra socchiuse sfuggì un sospiro e la sua mano raggiunse l'elsa della spada senza che lui se ne rendesse conto. Pensieri che fino a quel momento aveva tenuto confinati nel profondo del cuore ebbero libero accesso alla sua mente.

Quanto avrebbe voluto prender parte all'impresa. Quanto avrebbe voluto vedere i suoi figli e le sue figlie fianco a fianco a Fëanáro, e i suoi nipoti, non più divisi, farsi strada con onore nelle Terre dell'Est. Quanto avrebbe voluto rivedere le lande sconfinate nelle quali aveva vissuto durante la sua giovinezza e, perché no, magari ritrovare il caro amico di un tempo per combattere di nuovo al suo fianco. Elwë. A lungo l'aveva cercato, a lungo aveva pianto la sua assenza.

Finwë sbattè le palpebre, più volte, per impedire alle lacrime di raggiungere i suoi occhi.

Poi, all'improvviso, rise di sé stesso, riconoscendo quelle visioni per ciò che erano veramente: i vaneggiamenti di uno spirito prossimo a raggiungere le Sale dell'Attesa.

Vecchio sciocco, ritorna alla realtà.

Lottò per rallentare il respiro e per tenere a bada il battito del cuore.

Dove sono finiti i tuoi nervi saldi, la tua proverbiale saggezza? 

Non era un futuro per lui, questo delirio che aveva preso forma nella sua testa. Se lui fosse fuggito, Melkor avrebbe preso i Silmarilli, e Fëanáro sarebbe partito sulle sue tracce da solo, perché in pochi lo avrebbero seguito se il motivo non fosse stato la vendetta, il riscatto, l'orgoglio, ma solo la riconquista di quei gioielli che il figlio custodiva così gelosamente da non far partecipe alcuno della loro bellezza.

Riportò l'attenzione di nuovo su ciò che lo circondava. Ora le tenebre erano tali che sembravano proiettare un'ombra sul pavimento all'interno dell'edificio, nello stesso modo in cui poco prima era stata la luce a illuminare il selciato ai suoi piedi.

La fine era vicinissima.

Finwë lasciò che i pensieri, i ricordi, i dubbi e le visioni lo attraversassero, fino ad arrivare a infrangersi contro l'unica, solida, immutabile verità, che rendeva inutile ogni altro ragionamento: lui non sarebbe mai arretrato davanti al Nemico.

Allora il suo volto si distese, il battito del cuore si placò, e lui fece l'ultimo passo che lo portò fuori dalla fortezza, chiudendo il portone dietro di sé.

Sono pronto, pensò, e non era mai stato così sincero. Eppure, alle sue labbra affiorarono parole altrettanto sincere: – Ma non vorrei andarmene. 

Un sussurro che riassumeva la dicotomia di una vita intera. Una terra o un'altra, una moglie o un'altra, un figlio o un altro… e infine, la scelta ultima: la vita o la rinuncia ad essa. 

Finwë sguainò la spada e attese il compiersi del suo destino.

 

 

 

EPILOGO

NELYAFINWË

 

 

Nelyafinwë aveva fatto quello che gli era stato chiesto.

Aveva condotto gli abitanti della fortezza presso il piccolo Lago Lucente indicatogli dal nonno, uno specchio d'acqua di dimensioni esigue, la cui luce si stava affievolendo sempre più. Aveva fatto allestire un accampamento, aveva disposto degli uomini armati a guardia del perimetro, e si era assicurato che tutti i suoi fratelli fossero al sicuro.

Adesso si sentiva libero di fare ciò che riteneva giusto. 

Prese il suo cavallo e si incamminò lungo il sentiero che attraversava il bosco, attento per quanto possibile a non fare rumore. Avanzò nel buio più assoluto finché non fu certo di essere abbastanza distante, poi si arrischiò a scoprire un poco la lampada che portava con sé, e alla luce azzurrognola che ne scaturì proseguì più spedito. Quando il sentiero cominciò a farsi più ampio, decise montare a cavallo. Ma proprio in quel momento una figura uscì dal bosco e si mise davanti a lui, bloccandogli la via. Al suo fianco, la sagoma di un cane enorme.

– Pensavi di andare da solo? – lo interrogò Tyelkormo.

Il fratello aveva un arco sulle spalle, una spada al fianco, un pugnale al polpaccio. Non sembrava intenzionato a farsi dissuadere.

Nelyafinwë fece comunque un tentativo: – Devi rimanere a presidiare l'accampamento.

– Curvo e io ci siamo già spartiti i compiti – ribattè il fratello. – C'è lui al comando.

– Gli Ambarussa?

– Káno se ne sta prendendo cura.

– Moryo? – domandò ancora Nelyafinwë, terminando il conto dei fratelli.

Una voce alle sue spalle: – Sono qui.

Nelyafinwë si voltò: Moryo li aveva raggiunti, portando con sé anche il suo destriero. La spada al fianco, l'elsa di due pugnali lunghi che gli spuntavano da dietro le spalle, la cotta di maglia che gli proteggeva il corpo non lasciavano spazio ai dubbi: nemmeno lui sarebbe rimasto all'accampamento. Come se non bastasse, Tyelkormo si portò a fianco del fratello minore, in una presa di posizione inequivocabile.

Nelyafinwë capì che per convincerli avrebbe dovuto sprecare tempo prezioso. Accordando loro il permesso di seguirlo, almeno si assicurava implicitamente il comando della spedizione.

– Allora sbrighiamoci – disse loro, e montò a cavallo.

I fratelli inarcarono un angolo della bocca in un'espressione che rese per un attimo i loro volti diversissimi straordinariamente simili, e si affrettarono a condividere il destriero di Moryo.

I tre avanzarono al passo fino al limitare del bosco, poi si lanciarono al galoppo verso la fortezza, incuranti dell'oscurità, perché quelle terre erano loro familiari, e ne conoscevano a memoria ogni irregolarità del terreno. Huan li precedeva di poco, adeguandosi alla loro andatura. 

La fortezza giaceva nelle tenebre; dovettero arrivare fin sotto i suoi cancelli per accorgersi che erano spalancati. Procedettero spediti lungo il viale che attraversava il giardino, con Nelyafinwë davanti che reggeva alta la lampada, sebbene il cristallo che la costituiva, sospeso nella sua reticella, non fosse che un misero lumicino contro il buio innaturale di quella notte infinita.

Giunti davanti all'ingresso principale smontarono e sguainarono le spade. Huan cominciò a emettere un ringhio basso, e si portò al fianco del suo padrone. A Nelyafinwë sembrò di scorgere, con la coda dell'occhio, un debole scintillio azzurro tra l'erba ai lati del viale, ma subito la sua attenzione fu attratta da ciò che si trovarono davanti. 

Il portone era divelto dai cardini. Avanzarono circospetti, ignari di ciò che avrebbe potuto attenderli. Il salone era immerso in un'oscurità densa, ancora più fitta di quella che c'era fuori, come se fossero giunti nel cuore stesso della tenebra. La lampada non illuminava che pochi passi davanti a loro, il silenzio era opprimente.

– Aspettate. – Intimò Nelyafinwë sottovoce, e, appoggiate a terra la spada e la lampada, si fermò presso la porta per rimettere in funzione le luci del salone. Ma Tyelkormo era già corso in avanti e, a giudicare dallo schianto metallico che si udì, il fratello era inciampato su qualcosa. Nelyafinwë si voltò di scatto, verso la sala ora fiocamente illuminata.

E così lo vide. 

Nel centro del salone, Finwë, riverso in una pozza di sangue, il volto nascosto, schiacciato contro il pavimento, la spada ancora stretta in una mano, lorda di liquido scuro.

Nelyafinwë sbatté le palpebre più volte, incapace di dare un senso a ciò che i suoi occhi gli presentavano.

Tyelkormo, a terra poco distante dal corpo, il viso deformato in un smorfia di orrore, sembrava avere la sua stessa difficoltà. 

– No… – mormorò il fratello. Poi lo ripeté più volte: – No… no… no… – come se negando a sufficienza potesse disfare l'accaduto. Avanzò carponi, scivolando sul sangue che gli imbrattava le mani e le ginocchia, verso il corpo. Lo afferrò per le spalle e lo voltò a faccia in sù.

Nelyafinwë fu distratto per un attimo da un clangore alla sua sinistra: Moryo aveva lasciato cadere la spada sul pavimento di marmo e si era portato entrambe le mani alla bocca, lo sguardo inorridito fisso su ciò che Tyelkormo aveva rivelato.

Finwë con uno squarcio alla gola, la testa quasi staccata dal collo, il volto nero di sangue, gli occhi sbarrati e vuoti.

Tyelkormo, che lo teneva ancora tra le braccia, alzò il viso e fece vagare lo sguardo smarrito tutt'intorno, come se da qualche parte, proprio in quella sala, potesse esserci la risposta a quell'evento incomprensibile. Poi si fermò su Nelyafinwë e le sue labbra formarono un nome: – Russandol… 

Alla richiesta d'aiuto del fratello, Nelyafinwë si riscosse. Raggiunse Tyelkormo e si inginocchiò al suo fianco. Molto delicatamente sfilò il corpo del nonno dalla sua presa e lo distese, composto, sul pavimento. Gli chiuse le palpebre e gli ripiegò le braccia sul petto. Tyelkormo allora recuperò l'antica spada, che era scivolata dalla mano di Finwë quando lui ne aveva rivoltato il corpo, la ripulì col suo mantello e la consegnò al fratello. Nelyafinwë la rimise tra le mani del nonno, con la lama verso il basso, adagiata sul suo corpo. Poi notò che indossava una sciarpa, sembrava di fattura pregiata, adorna di molti ricami che ora risultavano irriconoscibili per il sangue che li impregnava. Gliela chiuse sul collo, per nascondere lo squarcio alla gola. 

Non poteva fare altro.

Infine, molto lentamente, si alzò e offrì una mano a Tyelkormo. Ma il fratello, con uno scatto, si tirò su da solo. E lì, in piedi di fianco al cadavere del nonno, coperto di sangue non suo, gettò la testa all'indietro e col volto sfigurato dalla rabbia e dal dolore urlò fino a consumare tutto il fiato che aveva in corpo. Poi prese il respiro e ricominciò a urlare.

Huan si accasciò ai suoi piedi e dalla sua gola scaturì un uggiolio penoso, sofferente, interminabile.

Moryo non si era mosso da dove stava, il volto rigato dalle lacrime, l'arma abbandonata sul pavimento. Sembrava fatto di pietra.

Nelyafinwë si impose di affrontare la tragedia fino in fondo. Tornò alla porta per recuperare la spada e la lampada, poi si diresse verso l'estremità opposta del salone. 

Nel passare accanto a Moryo, gli disse soltanto: – Andiamo. 

Accompagnato dalle urla di Tyelkormo, che si facevano sempre più roche e distanti, e dal suono ovattato dei passi di Moryo che si muoveva sulla sua scia, Nelyafinwë scese nei sotterranei fino a raggiungere il cuore della fortezza.

I cristalli alle pareti del lungo corridoio sembravano aver esaurito la loro riserva di luce, come prosciugati. La porta di legno chiaro che chiudeva la Camera del Tesoro era in pezzi. Su alcuni frammenti si riconoscevano ancora le tracce dello stemma della loro casata.

Nelyafinwë entrò, col fratello subito dietro.

La Camera era stata saccheggiata. Teche di cristallo in frantumi, scatole di legno intarsiato aperte sul pavimento, brandelli di velluto sui pochi scaffali ancora in piedi. Gli stessi muri erano solcati da enormi crepe e un rombo sinistro, accompagnato da una vibrazione del pavimento, fece loro temere che presto l'intero edificio sarebbe crollato.

Nelyafinwë si costrinse ad avanzare. Sulla parete opposta, c'era un'altra porta divelta: quella che conduceva alla Stanza di Ferro. La oltrepassò e si fermò sulla soglia. All'interno, su una una colonna di marmo bianco finemente scolpito, c'era ancora lo scrigno che custodiva i Silmarilli.

Era vuoto.

Nelyafinwë sentì che le gambe gli cedevano e appoggiò la schiena allo stipite dietro di lui. Moryo gli afferrò un braccio, forse per reggersi a sua volta, o forse per incitarlo ad uscire, ma lui a malapena se ne accorse.

Un boato, una nuova scossa, e dei calcinacci caddero dal soffitto: il segnale che presto tutto sarebbe crollato. Ma Nelyafinwë ancora non si mosse: negli occhi aveva solo l'immagine del nonno sgozzato, nelle orecchie il riverbero della grida di Tyelkormo. Una morsa gli serrava il petto e la mente affondava in un vortice oscuro. 

Poi la più terribile delle intuizioni eruppe, accecante e dolorosa come un lampo che squarcia le tenebre.

Se su di lui faceva questo effetto, come avrebbe reagito il padre?

 

Le parole di Moryo giunsero come un'eco dei suoi stessi pensieri: – È cominciata la fine del mondo.

 

 



 

___________________

Note finali

01.
Grazie per aver letto!

02.
Quenya - Sindarin
Fëanáro = Fëanor

03.
I gemelli Amrod e Amras hanno una genesi dei nomi complicata: il padre li ha chiamati Pityafinwë e Telufinwë, la madre li ha chiamati entrambi Ambarussa. Fëanor ha voluto che Nerdanel cambiasse il nome di uno dei due, e lei malvolentieri ne ha chiamato uno Umbarto (condannato), cosa che chiaramente Fëanor non ha apprezzato e quindi ha modificato il suo nome in Ambarto. Nonostante ciò, pare che il nome Ambarto non sia mai stato usato da nessuno se non da Fëanor, e che i gemelli si siano sempre chiamati l'un l'altro Ambarussa (HoME vol. XII - The Shibboleth of Fëanor).

04.
Maedhros regge una lampada fëanoriana, una delle tante meravigliose invenzioni attribuite a Fëanor, costituita da un cristallo che emana luce azzurra sospeso in una reticella. (Unfinished Tales - nota 2 di: Of Tuor and his Coming to Gondolin)

05.
La Stanza di Ferro
"… e quivi, a Formenos, una gran quantità di gemme fu radunata, e con esse armi, e i Silmaril furono custoditi in una stanza di ferro." (Quenta Silmarillion, cap. VII - I Silmaril e le agitazioni dei Noldor)

06.
Nel mio headcanon Míriel è nata in Aman, ed è quindi molto più giovane di Finwë, mentre Indis è nata nella Terra di Mezzo e conosceva Finwë da prima della Grande Marcia.

 

 

 

  
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