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Autore: FioreDArgentoWattpad    07/07/2016    1 recensioni
Forse io mi ero sempre sentita diversa perché io il mio nome, a differenza degli altri, lo conoscevo. Quando ero sola, alcune volte lo sussurravo alle pareti grigie della mia stanza; lo ripetevo quanto bastava a ricordarmi di non essere solo una lettera simile alle altre.- Prologo
Nessuna origine.
Nessun nome.
Nessun appiglio.
Queste sono le caratteristiche che accomunano gli studenti dell'Heddem Institute, una scuola costruita su un'isoletta dell'arcipelago delle Bahamas, lontana da tutto e da tutti. Queste e un marchio nero sull'avambraccio.
Amira però è diversa, lo è sempre stata. Ha ricordi confusi della sua vecchia vita, ma il solo averli vissuti la separa inevitabilmente dai suoi compagni.
Riuscirà a soffocare le proprie emozioni o ne rimarrà sommersa?
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo II

Capitolo II

Come al solito la Prima Campanella non aveva ancora suonato quando aprii gli occhi, che già guizzavano vigili lungo il perimetro della stanza. Lunghe spade di luce dorate trafiggevano la penombra della stanza, solleticandomi delicatamente gli occhi.

Amavo l'alba.

Con la mia prima professoressa di Letteratura, la signorina Kuffner, in una lezione avevamo letto dai nostri appunti che i poeti traevano spesso ispirazione dalla natura.

Non avevo potuto fare a meno di chiedere perplessa:"Cosa ci trovano di speciale?"

Il resto della classe mi aveva fissato impaurito, convinto che avrei ricevuto una sgridata da parte del professore.

Mai interrompere una lezione.

Mai dubitare della correttezza degli appunti.

Avevo infranto coscientemente due punti del Regolamento in una volta sola, ero già rassegnata ad essere spedita nell'ufficio della signorina Hedd. A uno studente davvero ribelle, capitava sì e no una volta nella carriera di finire nel "covo" di Samantha Hedd.

Io però, avevo affrontato così tante volte la mezz'ora di tiritera condita di minacce della signorina Hedd, che ormai rispondevo placidamente con un sorriso ai suoi rimbrotti.

Sorrisi tranquillamente anche allora, riposando gli occhi annoiati sulla carta stampata.

La signorina Hedd non mi avrebbe mai ferita o espulsa così come non avrebbe mai ferito o espulso un altro alunno qualsiasi.

Gli occhi della signorina Kuffner balenarono stranamente di vita e con mia somma sorpresa ribatté:"Hai mai visto un'alba?"

"Quando ci svegliamo il sole è già sorto." affermò W piatta.

"Almeno un tramonto?" ritentò indefessa la signorina Kuffner, continuando a rivolgersi a me.

Scrollai le spalle:"Ceniamo a quell'ora."

"Ma c'è una finestra. Stasera guardalo e la prossima volta dimmelo, cosa c'è di speciale."

Non rividi mai più la signorina Kuffner.

Tuttavia quella sera mi ricordai di lei, e osservai il sole incendiarsi attraverso la finestrella della Mensa.

Anche il mattino dopo, mi alzai in punta di piedi e mi gustai i colori pastello dell'alba.

Glielo avrei voluto confessare, che li trovai entrambi belli, splendidi, meravigliosi... ma non speciali.

Glielo avrei voluto dire, ma non ci fu occasione.

Rimase così soltanto l'amaro in bocca, mentre cercavo invano di comprendere cosa ci fosse di speciale nella normalità.

Intanto amavo l'alba.

Non perché animasse in me il desiderio di scriverci sopra una poesia, o ritrarla in un quadro, o osannarla in un romanzo.

L'amavo perché in quegli unici attimi della giornata, ero Amira. Ero qualcuno.

Non riuscivo a datare quella mia strana abitudine di svegliarmi presto, avrei dovuto spingere allo stremo la mia memoria per ricordarmi l'esatto momento in cui mi ero posta quell'obiettivo.

Pensavo risalisse ai primi anni all'Istituto, quelli che avevo trascorso rinchiusa in una stanzetta sullo stesso piano dei neomarchiati, isolata dagli altri studenti.

Un imprevisto, mi aveva definito la signorina Hedd stizzita, prima di rinchiudermi in quelle quattro pareti scrostate e macchiate d'umidità. L'avevo odiata già da allora.

Avevo iniziato a svegliarmi presto, per la necessità di essere libera anche soltanto pochi minuti, prima che la campanella suonasse dando inizio ad un alternarsi serrato di professori nella mia stanza. Era stressante essere sottoposti di continuo ai loro sguardi di sufficienza o sorrisi derisori, di cui inoltre non capivo l'origine.

Fu C a spiegarmela.

Fu lei a spiegarmi molte cose.

C era la cameriera che mi portava i piatti di cibo, direttamente nella stanza. L'avevo soprannominata tra me e me Cenerentola, come la protagonista della fiaba che spesso Kathleen mi leggeva prima di andare a dormire.

In realtà non aveva il viso cosparso di cenere, o una matrigna cattiva, o due sorellastre insopportabili.

Aveva la pelle dello stesso colore del cioccolato fondente, un'indomabile massa di ricci scuri le circondava il viso sul quale spiccavano due occhi nocciola brillanti di vivacità.

Il nostro primo incontro era ben impresso nella mia memoria.

Ero stufa di essere rinchiusa in quella stanza angusta, mi trovavo lì già da più di un giorno.

Avevo rifiutato di mandare giù un solo boccone, sebbene diversi camerieri si fossero presentati alla mia porta con il medesimo vassoio d'argento coperto da un panno. Lo stomaco serrato non accennava a mostrare appetito, ma la gola secca reclamava un bicchiere d'acqua. Persino le lacrime non scendevano più sul mio viso, sfinite quanto me da quella lotta persa in partenza.

Era un incubo, non poteva trattarsi di altro.

Mamma mi avrebbe svegliato presto, con un delicato bacio sulla fronte e avrei scordato quel brutto sogno.

Toc toc.

Nessuno aveva avuto l'accortezza di bussare nelle ultime ore, di fatti mi rizzai a sedere velocemente.

"Posso?" domandò una voce argentina da dietro la porta.

Io disorientata sussurrai a voce appena udibile:"S-sì."

Con un cigolio sommesso la porta si aprì, svelando una ragazza minuta.

Non doveva avere più di dodici anni, ma per me era come un'adulta e provai subito un moto di ammirazione nei suoi confronti.

"Ciao." mormorò in tono gentile.

Io non ricambiai il saluto, abbassando diffidente il viso.

Anche lei portava un vassoio, ma invece di pormelo sbrigativa davanti agli occhi pretendendo che m'ingozzassi, lo posò con noncuranza sulla scrivania.

"Sai, ci stai facendo impazzire giù in cucina. Hai proprio un bel caratterino!" scherzò. "Ti dovrei ringraziare, di solito scorre tutto in modo così monotono..."

Scoppiò a ridere, contagiando anche me che sorrisi lievemente. Sembrava simpatica. Appuntata sulla sua divisa, c'era una targhetta su cui era incisa una lettera. C.

"Anche tu sei... anche tu sei come me?" La indicai titubante.

"Non esattamente." rispose quasi dispiaciuta. "Ma forse adesso sono la persona più simile a te dell'Istituto, sì."

Si avvicinò con cautela, sedendosi sul letto sfatto.

"E... e anche tu hai questo?" Scoprii il braccio, mostrando il marchio scuro.

La ragazza si rabbuiò, ma non si scompose, e alzò una manica della divisa. Anche sul suo braccio scuro s'intravedeva un disegno simile al mio.

"Come ti chiami?" chiesi curiosa.

"C." rispose poco convinta.

"Io invece mi chiamo Ami--" Svelta la ragazza mi coprì la bocca con una mano.

"Shhh. Non puoi rivelarmi il tuo nome intero. Se vuoi trascorrere serena i prossimi anni, ti conviene non rivelarlo a nessuno." m'intimò, senza che dalla sua voce trapelasse un filo di timore.

"Lo so. Me l'hanno già detto... ma credevo che tu... " balbettai. Non proseguii, lasciando che le parole fluttuassero nell'aria.

Credevo fosse diversa, almeno lei. Credevo che non avrebbe mozzato il mio nome, accettandolo integralmente, accettandomi integralmente.

"Non è colpa mia." sussurrò per la prima volta imbarazzata. Restò alcuni minuti in silenzio, formulando pensieri che non potevo ascoltare.

"Il tuo nome è speciale. Non dimenticarlo, anzi, tienilo come un tesoro prezioso. Sappi semplicemente che nessuno in questo istituto merita di conoscerlo." affermò convinta d'un tratto.

"E tu?"

"E io?"

C mi fissò interrogativa, ma un lampo di consapevolezza percorse i suoi occhi, ancor prima che precisassi: "Anche tu nascondi il tuo nome, perché nessuno merita di conoscerlo?"

"Non oggi." ribatté pensierosa. "Un altro giorno ti racconterò la mia storia, ma non oggi."

La ragazza improvvisamente turbata si alzò di scatto e riprese il vassoio abbandonato sul tavolo. Poggiandolo sulle coperte morbide, un sorriso luminoso le increspò le labbra:"Fai solo un torto a te stessa non mangiando. Inoltre la pasta che prepara Sergio è deliziosa, sai, è uno chef italiano."

"Rimani qui con me?" la pregai.

"Certo, perché no?"

Affiancandosi a me, tolse il panno dal piatto che emanava un profumo invitante. Presi la forchetta sentendo la pancia brontolare e mi accorsi che, sorprendentemente, non stavo trattenendo le lacrime.

In seguito mi confessò il suo nome, ma io continuai lo stesso a soprannominarla mentalmente come Cenerentola, perché quel giorno avevo scorto in lei la scintilla di coraggio ribelle dell'eroina fiabesca.

Il frastuono della sveglia interruppe il filo dei miei pensieri. Sbuffai, udendo uno sbadiglio levarsi dal lato opposto della stanza. Anche W si stava destando.

Balzai di scatto giù dal letto e, prima che la mia compagna di stanza abbandonasse del tutto il mondo dei sogni, mi precipitai nell'unico bagno della camera.

"A!" strillò W, rendendosi conto di essere arrivata troppo tardi anche quella volta.

La ignorai deliberatamente, squadrando la me allo specchio. I capelli neri avevano lo stesso taglio di quelli delle altre ragazze dell'Istituto, appena sopra le spalle, e le ciocche ondulate mi circondavano l'ovale pallido del viso. Su questo spiccavano due occhi ambrati, che mi restituivano uno sguardo perplesso attraverso il vetro.

Ero Amira.

Dovevo provare a non dimenticarmelo anche quel giorno.

Aprii il rubinetto e misi a coppa le mani sotto il flusso d'acqua, gettandolo sul mio viso subito dopo. Il contatto gelido mi provocò un brivido lungo la spina dorsale e strinsi i denti. Almeno mi ero svegliata.

Mi affrettai a finire sentendo le proteste di W dall'altro lato della porta, e una volta uscita le lanciai un'occhiata diveritita.

Stava ritta in mezzo alla stanza sottosopra, i capelli scarmigliati le cadevano disordinatamente sulle spalle e gli occhi verdolini sembravano volermi incenerire.

"Se hai la prontezza di una lumaca, non è colpa mia!" puntualizzai sibillina.

W soffocò in un sospiro insofferente gli insulti che di certo mi voleva rivolgere, e si limitò ad entrare nel bagno e sbattere con violenza la porta.

Mi sfuggì un risolino, la mia compagna di stanza teneva davvero tanto alle regole.

È severamente vietato attuare un litigio con altri studenti dell'Heddem, a eccezione di legittima difesa nei confronti di uno/a alunno/a che ha contravvenuto al Regolamento. Si è pregati in tal caso di renderlo noto a chi di competenza.

Era uno dei trenta punti del Regolamento e W si sforzava di seguirlo al meglio, nonostante io mettessi a dura prova la sua pazienza. Non capiva che non reagendo, m'invogliava ancora di più a continuare.

Dieci minuti dopo W uscì dal bagno, la calma già tornata a regnare sul suo viso.

"Andiamo." mormorò semplicemente, tirando la porta a sé.

Nel corridoio le studentesse ancora intontite si dirigevano verso la rampa di scale che scendeva verso il basso, nella mensa. Eravamo le ultime, nulla di nuovo.

Trascinai W dietro di me, quasi correndo, verso i gradini di marmo e nell'intercettare per un secondo lo sguardo spaurito della mia compagna, mi scontrai con una persona.

"Ci dispiace.... desolate... non volevamo..." colsi solo sprazzi di ciò che W stava dicendo, incespicando nelle sue stesse parole.

La mia attenzione era stata catalizzata completamente dalla signorina Key, che invece di guardare l'imbarazzatissima W, teneva i propri occhi fissi su di me. Sembrava incuriosita più che arrabbiata.

"Non era nostra intenzione disturbarla. Ci perdoni." scandii con voce incerta.

La donna fece un gesto con la mano e sentenziò infastidita:"Avrei dovuto stare io più attenta."

Io meravigliata non mi mossi di un millimetro, qualunque altro insegnante ci avrebbe spedito direttamente dalla vicepreside.

W sbalordita balbettò ringraziamenti sconnessi, ma la signorina Key la interruppe spazientita:"Andate!"

Rossa di vergogna la mia compagna di stanza si precipitò giù per le scale e io la seguii in fretta.

"Strana, vero?" domandai a W nella Mensa.

La mia compagna però replicò con convinzione:"È il suo primo giorno, di sicuro l'abbiamo colta alla sprovvista."

Evitai di controbattere che tutto mi era sembrato la signorina Key, meno una persona disorientata, e addentai un biscotto.

Per tutta la colazione non riuscii a togliermi di dosso la brutta sensazione di essere osservata, costantemente.


   
 
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