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Autore: Stray_Ashes    20/07/2016    1 recensioni
"Hate me
Break me
I'm a criminal"
In città la gente mi indicava col termine di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Ma andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo.
Guardai il nome della mia nuova tela, la mia nuova vittima: Frank Anthony Iero.
E il nome non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto..?
"What have I done?"
[Revisionato 04/07/16]
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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8. Déjà-vu





Avevo storto il naso all'idea di un dormitorio, ma alla fine non era così male; era di modeste dimensioni, non troppo luminoso né troppo buio, un numero giusto di letti e una finestra ampia, ma sbarrata. La cosa che però più mi tolse il fiato, fu la vista del soffitto, quando sollevai il viso rimanendo letteralmente a bocca aperta: era un grande affresco, con bassorilievi ai lati e decorazioni floreali che dividevano scena da scena, anche se i protagonisti della storia avevano perso gran parte delle loro fattezze e forme, per via di tutto il tempo che era passato strisciando lì sopra, con la spietata delicatezza di un soffio di vento e troppi anni trascurati nell'abbandono.

Doveva essere stata una piccola chiesa, molto tempo fa. La gente, dopo la catastrofe e la guerra, aveva smesso di credere nell'esistenza di Dio, o almeno, aveva smesso di credere nell'esistenza di un Dio buono. Non aveva certo perso il bisogno impellente di credere in qualcosa, ma non era neanche più in grado di inventarsene uno nuovo, di Dio, perché stanca di auto-illudersi. Si era arresa all'idea di essere figlia di nessuno.

Scossi la testa, decidendomi a distogliere lo sguardo dall'affresco che stava risvegliando dal profondo la mia arte, e non era proprio il momento, adesso.

Andy mi aveva detto che c'era un letto libero proprio sotto la finestra, e infatti, appena sotto il mobiletto che faceva da comodino, riconobbi la mia sacca, che giaceva lì con l'aspetto arreso di chi è stato trafugato e derubato.

In realtà, la conversazione con Andy e Frank, era stata un pelo più lunga... prima di andare da Oliver Frank mi aveva consigliato di andare a riposare, per non sforzarmi troppo e rischiare di riaprire le ferite, e silenziosamente aveva approvato, perché sentivo le garze pizzicare fastidiosamente la pelle del braccio, il filo dei punti sfregare a ogni movimento; avevo solo voglia di chiudere gli occhi e dimenticare tutto questo, almeno per un po'. Ma poi mi avevano guardato strano, con l'evidente timore che io me la svignassi non appena calata la notte: voglio dire, era un timore legittimo, se fossi stata una persona intelligente l'avrei fatto, ma... per qualche motivo, non me la sentivo di inventarmi un modo di scappare senza farmi vedere, o comunque di scappare in generale, perché sotto sotto, qualcosa mi sussurrava di restare lì, e di aspettare. Curiosità? Spossatezza? Non lo sapevo, e non era più di tanto importante.

Fatto sta che non ero una persona intelligente. Solo istintiva.

Certo, se per magia si fosse aperta una porta nel muro in grado di portarmi dall'altra parte del paese, l'avrei presa così su due piedi, ma siccome la magia non apriva passaggi nel legno, non valeva la pena cercare un altro modo.

Frank aveva minacciato di chiudere a chiave il dormitorio, o persino di ammanettarmi al letto, ma per qualche ragione Andy era scoppiato a ridere istericamente, e allora avevo promesso che non sarei scappato, e che mi avrebbero trovato qui almeno fino al mattino dopo. Se provavo a dimenticarmi di Bert, delle guardie e della mia vita stessa, tutto questo non sembrava nemmeno così male, prometteva uno di quei brividi che non sentivo da anni, o che forse non avevo mai sentito, non per quanto ricordassi... eppure continuava a non essere giusto che io restassi qui, e far finta di dimenticare gli indelebili fatti non avrebbe cambiato questa cosa, né tanto meno il mio modo di pensare. Se c'era qualcosa che, volente o nolente aveva imparato, era l'arte della sopravvivenza, perché il mio lavoro non era solo uccidere, era anche restare vivo, e riscuotere la mia ricompensa guardandomi costantemente alle spalle, pur di non essere sorpreso da qualcuno – un incidente già capitato, più di una volta. Far fare il lavoro sporco a un cacciatore di taglie e poi far fuori anche lui, è troppo facile, e anche troppo stupido. Tant'è che più volte avevo dovuto rompere il collo a chi tentava di fregarmi, prima di intascare i soldi che mi erano dovuti – non legalmente forse, ma mi erano dovuti senza dubbio. Non dicevo addio ai miei sogni tranquilli senza avere in cambio nulla.

Sospirai, lasciandomi cadere sul letto e nascondendo il viso tra mani, tentando – inutilmente – di organizzare le cose che mi erano successe e di darci un senso, ma ero così stanco e tutto era così confuso, che stavo perdendo voglia di dargliene uno.

«Hey. Perché hai l'anima piena di graffi?»

Sobbalzai e spensi in gola un urlo stridulo, togliendomi subito le mani dagli occhi e allontanandomi di botto dalla figura che in qualche modo si era piazzata dinanzi a me, senza che me ne accorgessi.

In uno sguardo, registrai che persona che avevo sotto gli occhi, ma allo stesso tempo non capii un bel niente di lei.

Si trattava di un ragazzo giovane, slanciato, seduto a rana per terra davanti al mio letto, un sorriso sornione dai canini appuntiti, un anello argentato all'orecchio e bizzarri capelli bianchi che non nascondevano affatto la ricrescita nera. Aveva vispi occhi celesti, e un naso lievemente all'insù che dava un aspetto ancor più infantile al ragazzo - probabilmente sedicenne - che avevo davanti.

Sbattei le palpebre un paio di volte, i muscoli ancora tesi e sulla difensiva, ma allo stesso tempo rimasi bloccato dal suo sguardo; non mi sentivo davvero in pericolo vicino a lui, nonostante sapessi che avrei dovuto, perché insomma, avevo i miei precedenti... una volta uno dei miei clienti mi mise alle calcagna un quattordicenne per uccidermi nel sonno; il ragazzino alla fine lo risparmiai, ma non il mio cliente.

«C-che cosa hai detto...?» balbettai infine, cercando di riafferrare le strane parole che il giovane mi aveva riferito.

L'altro non smontò il sorriso vivace, e fece spallucce. «Non è importante. Prendi una matita»

Preso alla sprovvista aggrottai la fronte, e poi notai la mano che lo sconosciuto teneva davanti a sé, tre matite di colore diverso incastrate tra le dita. Ce n'era una viola, una rossa e una azzurra, eleganti e delle stessa dimensione.

Scossi piano la testa, seriamente confuso da questa scena assurda, che mai mi era capitata prima di allora, e le cose nuove mi mettevano una notevole agitazione, specie quando non si doveva combattere o difendersi, ma solo "socializzare". Non ero bravo, a socializzare, né tanto meno rientrava nella lista delle cose che era utile saper fare – anche se una lista ovviamente non ce l'avevo per davvero. «Perché...? Non capisco»

«Non c'è un perché. È soltanto un gioco» mi rispose il ragazzo, molleggiandosi brevemente sui talloni e lanciando un'occhiata alle matite, per poi tornare a fissare me con intento. «Prendi una matita»

Mi accigliai, non affatto soddisfatto dalla risposta, ma d'altronde avevo seri dubbi che la suddetta matita avrebbe potuto esplodere se io l'avessi presa in mano, quindi perché no? Allungai una mano con cautela, senza perdere d'occhio il ragazzo e il suo inguaribile sorrisetto, e presi la matita al centro, quella rossa, sentendo il legno sottile sotto i polpastrelli; non era diversa dalla matita che io usavo per il mio taccuino, ma la mia era grigia, e non ne avevo mai avuto una colorata. «Contento?»

L'altro si limitò ad annuire. «Ok, adesso mettitela sopra l'orecchio. Così...» mi disse, per poi lasciar cadere la matita viola a terra e mettersi quella azzurra sopra all'orecchio, accanto alle ciocche di capelli chiari.

Stranito ma curioso, inarcai un sopracciglio e mi piazzai la matita rossa sopra l'orecchio, ma nel mio caso, il pastello rimase in contrasto con ciocche color pece. «E quindi...?» feci, non riuscendo a tenere a bada il mio seccante scetticismo.

Il ragazzo sorrise per un paio di secondi, poi per mia sorpresa si fece avanti, mettendomi entrambe le mani vicino alle orecchie, e quando si tirò indietro teneva in man una moneta dorata, che prese a farsi girare velocemente tra le dita. Io, intanto, continuai a fissarlo con gli occhi sbarrati, rigido come uno stecco, cercando di controllare l'istinto di afferrarlo e rompergli le braccia prima che riprovasse ad avvicinarsi così tanto a me e al mio viso.

«In questo posto le voci su di te stanno correndo come un cervo impazzito, lo sai?» ridacchiò il giovanotto, sollevando un istante i grandi occhi celesti su di me, senza fermare il movimento fluido e quasi ipnotico della moneta tra le proprie dita esperte, lasciandosela scivolare sul palmo per poi riafferrarla tra l'indice e il medio, roteandola e lasciandola passare sull'anulare e sotto il mignolo, fino a tornare al palmo ed il pollice. «Qua di cose ne capitano di continuo, ma non partivano così tanti gossip da quella volta in cui Jack ha scoperto lo smalto. C'è chi dice che hai salvato Frank, chi dice che sei tu che hai tentato di ucciderlo, o chi sostiene che sei il suo ragazzo, e no, non guardarmi come se volessi usare la mia faccia per lavare i bagni, quella voce non l'ho messa in giro io» disse, prendendosi a malapena il tempo di respirare e finendo la frase con una mano sollevata per provare innocenza sotto i miei occhi truci, mentre l'altra continuava a gestire la moneta. «Fatto sta che qui c'è qualcosa di nuovo, e a me piacciono le cose nuove. Ma chi sei tu, esattamente? Perché a Frank importa di te?»

Sentendo la rabbia e l'impotenza montarmi in corpo, aprii la bocca per ribattere. «Quante volte devo dirlo, io non ho idea del per– »

«Shhhh» fece l'altro, e in quell'istante il movimento regolare e liquido della moneta cambiò, ai lati del mio campo visivo, e non appena i miei occhi si spostarono brevemente a guardarla, il ragazzo ne fermò del tutto i movimenti, aspettando che io riportassi gli occhi su di lui prima di muovere il braccio con uno scatto felino vicino al mio orecchio, e quando si ritrasse, le mani erano di nuovo vuote, la moneta sparita.

Mordendomi le labbra per reprimere la mia esclamazione sorpresa, notai improvvisamente una cosa diversa sul volto del ragazzino davanti a me: il sorrisetto giocoso era invariato, e anche la matita sul suo orecchio era ancora lì, ma un cosa in effetti era cambiata: la matita era rossa.

Sbarrai gli occhi e velocemente andai a recuperare quella abbandonata contro la mia tempia, e non appena me la portai sotto gli occhi, la trovai azzurra, uguale identica a com'era stata prima, tra le dita del giovane illusionista. «Come- ...»

«Nah nah, trucchi del mestiere» fece quello, socchiudendo appena appena gli occhi. «Ho voluto provare se riuscivo a confondere anche te, è stato un buon allenamento. Ma ora le cose importanti: a Frank interessava tanto questa. Che cosa apre?»

Inarcando nuovamente un sopracciglio, aprii la bocca per chiedere a che cosa diamine si riferisse, ma ogni parola mi si congelò in gola, quando mi accorsi cosa il ragazzo teneva in mano: la mia chiave, quella che tenevo al collo da tutto la vita. Non avevo fisicamente idea di come fosse riuscito a sfilarmela o a come fosse riuscito a sciogliere il nodo in brevi movimenti, ma al momento nemmeno mi interessò. Ignorando l'impulso di energia violenta che mi spinse a ad afferrarlo per il bavero e riprendermi ciò che era mio, riuscii a ostentare una calma fredda, bensì pericolosa, che sapevo funzionare meglio di molto altro. Portai avanti la mano, palmo all'insù.

«Quella è mia, e la rivoglio indietro. Adesso».

Studiando la chiave attaccata al filo di spago, il ragazzo sorrise con curiosità, finché i suoi occhi non si spostarono sulla mia figura, sul mio viso irrigidito, e la giocosità sparì improvvisamente dal suo volto, lasciando un'espressione vuota e seria che lo rendeva molto più adulto. Mi chiesi per istante che razza di persona avessi davanti, ma la mia priorità tornò subito alla chiave.

«Quando ha trovato questa chiave, l'ho visto tremare e stringere gli occhi, e ha mandato via tutti dalla stanza. Non è una cosa che Frank fa. E appena ti hanno messo sul letto dell'infermeria, te l'ha rimessa al collo, incurante delle lamentele di Johann. Perché? Chi sei tu?» mormorò lui con altrettanta calma, e non appena finita l'ultima sillaba, si sporse leggermente in avanti e delicatamente mi lasciò la chiave sul palmo, senza aggiungere altro.

Io, non appena ritrovato il peso rassicurante di quel pezzetto di metallo, mi permisi di deglutire e assorbire quell'informazione, che mi rese inquieto, più di quanto avrei voluto, perché io non lo sapevo chi ero, non sapevo chi era Frank, non sapevo cosa apriva la chiave, non sapevo cosa essa significasse per Frank, e non sapevo cosa significasse per me. Ma era stata al mio collo da sempre, e in qualche modo mi ricordava che ero più che questo, e che avevo avuto altro, prima.

Quindi, per me la chiave alla fine aveva un significato, ma non doveva averne per Frank. Era tutto così assurdo, e non aveva senso.

«Non lo so» dissi alla fine, senza guardare l'altro ragazzo negli occhi. «So che non mi crederai, ma io non lo so».

L'altro non disse niente, e quando sollevai lo sguardo, lo trovai intento a guardarmi con attenzione, forse persino occupato a studiarmi, frugando fin nel profondo dei miei occhi color muschio. Per un istante soltanto, mi parve di riconoscere quella sensazione, e il déjà-vu mi riportò alla mente due occhi bianchi, vuoti. Socchiusi le palpebre; «Ti credo» disse alla fine, e il suo sorriso lentamente tornò. Ma non il mio.

Sopirai e sollevai le braccia, risistemando il filo di spago attorno al mio collo e risistemando la chiave sotto il cappotto e la maglietta, lì dove doveva restare, da qualche parte appoggiata sul mio petto, piena dei suoi segreti con cui avevo imparato a scendere a patti. E da un lato, ora avevo paura di rompere quel patto d'ignoranza, e scoprire qualcosa che non avrei voluto scoprire.

Il ragazzo tornò a sedersi sul pavimento, gambe incrociate e braccia abbandonate in grembo. «Scusami, non volevo prendere le tue cose» disse, inaspettatamente, per poi sorridere timidamente. «Sono una maledetta persona curiosa, e quando sai di avere le carte per scoprire qualcosa in modo interessante provi a usarle, non ti pare?»

Guardando i suoi grandi, giovani occhi azzurri, alla fine cedetti e riuscii a piegare da un lato le labbra, concedendogli almeno quello. «Sì, forse sì, almeno finché qualcuno di irascibile non decide di slogarti i polsi; ammetto di aver sentito l'istinto»

Lui rise, come se avessi veramente fatto una battuta, spingendosi lievemente avanti e indietro. «In realtà è già più o meno successo» ammise, scuotendo piano la testa e perdendosi qualche secondo in quel ricordo. «Ma dopo mio fratello gli ha reso pianeggiante la faccia, quindi ho la mia reputazione e nessuno ci ha provato più. E comunque, ho imparato ad essere veloce» disse, facendomi brevemente l'occhiolino.

Sollevai le sopracciglia e sorrisi anch'io, chiedendomi brevemente chi fosse suo fratello. Avere un fratello per me era una cosa sconosciuta, aliena addirittura, perché io ero da sempre cresciuto da solo, arrancando sulle mie forze, fino a perdermi in un mondo enorme, tra uomini più grandi di me e responsabilità che ancora oggi non sarei stato in grado di gestire. Non avevo avuto dei genitori, e di certo non il lusso di dover proteggere, o di essere protetto, da un fratello. Eppure, nonostante tutto questo, io ero ancora qua.

«Mi chiamo Matthew» disse all'improvviso il giovane illusionista, per rompere il silenzio che era calato, e strappandomi ai miei malinconici pensieri.

Gli accennai un sorriso, guardandolo vagamente con sfida. «Scommetto che il mio nome invece lo sai già» risposi, anche se poi mi ricordai del modo in cui Hayley mi aveva chiamato, ma sperai comunque che Matthew invece non avesse frainteso. Mi sembrava un tipo sveglio, d'altronde.

«Beccato» si ammise sconfitto Matthew, sollevando le braccia in segno di resa, prima di ridacchiare nuovamente. Dopo poco lo osservai alzarsi lentamente, rivelandosi magro ma non molto alto, seppur agile. «Ora è meglio che vada» disse, e io mi limitai ad annuire, già pronto a riportare la mia attenzione al letto e le sue coperte. «Ah, e se vuoi, le matite puoi tenerle».

Lo guardai un istante, poi spostai l'attenzione sulla matita azzurra che era rimasta abbandonata sopra la mia coscia, e le altre due per terra, quella rossa che avevo scelto e quella viola. Sorrisi a Matthew, «Grazie». A lui potevo dire grazie, sì?

Matthew sorrise a sua volta e si allontanò di qualche passo verso la porta, per poi fermarsi e tornare a guardarmi, questa volta con un'espressione insicura, combattuta, e persino apprensiva. «Io... non so cosa tu possa mai significare per Frank, ma mi è sembrato scosso, più scosso di come io l'abbia mai visto negli ultimi tempi. E ne ha passate tante anche lui, ne abbiamo passate tutti... però lui è tutto ciò che resta a questo posto, e siamo in bilico già da troppi mesi»

Senza capire, mi accigliai e inclinai di un poco la testa.

Matthew si mordicchiò nervosamente le labbra, abbassando lo sguardo. «Quando sei arrivato qui e ho guardato Frank negli occhi, dal suo sguardo ho avuto paura che le cose sarebbero peggiorate ancora di più, e volevo che te ne andassi, e che non avessi mai nulla a che fare con le nostre vite. Volevo che sparissi e che non facessi niente. Ma ora penso che dovresti proprio fare qualcosa, invece»

E detto questo, mi sorrise brevemente e lasciò la stanza.

Rimasi solo, nel silenzio tombale del dormitorio che troppo tempo addietro fu una chiesa, con i raggi del sole della sera che mi accarezzavano la schiena, poco prima di tramontare, come tutte le sere, come tutti i giorni, come tutti gli anni. Anche prima della guerra, anche durante, e dopo, il sole era tramontato nello stesso identico modo, ma diverso ogni giorno.

Scossi la testa e mi lasciai cadere del tutto sul letto, gambe e braccia allargate, osservando con la coda dell'occhio la polvere alzarsi dal cuscino e incontrare il raggio di luce, nel suo disperato aleggiare nell'aria senza un motivo.

Non so bene per quanto rimasi a fissare i disegni intricati e consumati del soffitto, mentre la luce diventava più buia e altri ragazzi, a me sconosciuti, entravano silenziosamente nel dormitorio e sprofondavano sui materassi, colti all'istante dal sonno, mentre io restavo lì, a guardare e a non pensare a niente.

Quando mi addormentai, lo feci soltanto perché non vedevo più nemmeno un singolo particolare dell'affresco, e la mia mente si arrese a spegnersi e diventare nera proprio come l'atmosfera inquieta, sospesa, della stanza.

* * * *

Troppe volte, nella mia vita, mi ero svegliato a causa delle grida.

Ormai, ero quasi in grado di sentire l'allarme nell'aria prima ancora che l'urlo iniziasse, riuscivo a sentire il sottile odore della paura, della tragedia, e capivo in quella frazione d'un istante che guai erano in arrivo, proprio come gli animali avvertivano la pioggia incombente solo respirando.

Fu per questo che quando aprii gli occhi nella penombra dell'alba, con l'affresco del soffitto ad accogliermi, il grido risuonò nell'aria solo tre secondi esatti dopo, e in un certo senso, in quei tre secondi mi ero già preparato a sentirlo: immediatamente scattai fuori dal letto, per fortuna già vestito dalla sera prima, e drizzai le orecchie, bloccando il respiro. Attorno a me, i ragazzi negli altri letti cominciarono a loro volta a destarsi, insicuri e persino seccati di essere stati svegliati, ma il meccanismo della loro coscienza scattò quando al primo urlo – che era stato femminile e acuto – se ne aggiunse un altro, maschile e arrabbiato, oppure terrorizzato, ma mascherato dalla rabbia, e avrei potuto giurare che quella era stata la voce di Frank.

Da sotto, adesso erano scoppiate le voci concitate, ordini ringhiati, respiri veloci, rumori di passi veloci. Prima ancora di rendermene conto, mi ritrovai fuori dal dormitorio, in piedi in cima alle scale, e con gli occhi stavo mangiando la grande sala sotto di me, alla ricerca di un indizio che mi aiutasse a capire cosa stesse succedendo, se c'era un pericolo all'interno, e di che genere. Nemmeno mi passò per la testa che non avevo armi, ma la mia mente da cacciatore aveva sempre funzionato così, coi suoi protocolli standard.

Cercai di riconoscere qualcosa, qualunque cosa, ma non riuscivo a identificare le voci, né a vedere Frank, o Andy, o Matthew, chiunque. Ci fu una voce, sconosciuta, che però attirò la mia attenzione: «Sono tornati!», ma ciò che mi stupii fu la nota di terrore e preoccupazione che vi colsi, mescolata a quella di un inspiegabile sollievo.

Mentre tendevo i muscoli, pronto a lanciarmi in quel casino di persone e parole, un paio di occhi si incastrò nei miei, un riflesso nocciola che, nonostante il velo di tesa preoccupazione e fretta, non abbandonò il mio sguardo.

Frank, per quel breve istante, mi rivolse un'occhiata di paura, di ansia, di colpa, di aspettativa, di terrore, di abbandono, accompagnato da capelli neri incasinati, la pelle pallida all'inverosimile, le labbra socchiuse e la fronte piegata in un'espressione di panico, di richiesta di aiuto.

Bastò quell'immagine a farmi sentire come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco, riconoscendo lo stesso dolore acuto e la stessa sensazione di smarrimento, che portò con sé l'ennesimo déjà-vu, ma che questa volta veniva da molto, troppo lontano. 

 

 

 

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Here I am again, tell me something if you can ~

_StrayAshes

  
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