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Autore: Shadow writer    28/07/2016    0 recensioni
Ognuna di queste storie è ispirata ad una canzone, di cui porta il titolo, i frammenti e la musica.
Nei miei racconti ho cercato di descrivere la Vita, come i cantanti hanno espresso sulle note delle loro canzoni. Queste sono le storie, di Theo, che chiede solo un po' di tempo, di Jem che di tempo ne ha avuto fin troppo, di Talia che è arrivata troppo in alto, dopo essere stata troppo in basso, di Andy, che vuole smettere di credere negli altri, di Selene, che ha riposto troppa fiducia nelle persone, di Mila e Nathaniel, che amano la notte, e di tutti gli altri che vivono come noi, che sono come noi.
Perché alla fine, non siamo poi così diversi.
Genere: Commedia, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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DO I WANNA KNOW
 
 
 

 
(Do I wanna know)
If this feeling flows both ways 
(It's hard to see you go) 
Was sorta hoping that you'd stay 
(Baby we both know) 
That the nights were mainly made for saying things 
that you can't say tomorrow day. 
Crawling back to you 
 
 
Attraverso il giardino buio barcollando e raggiungo il balcone che si affaccia sul grosso albero di fronte. Comincio ad arrampicarmi su questo e la memoria non mi tradisce perché riesco a trovare tutti gli appigli, nonostante il buio e la sbronza mi confondano terribilmente.
Gattono con scarso equilibrio sul ramo che sporge sul terrazzo e salto il più silenziosamente possibile sul balcone, il che significa che faccio così rumore che potrei svegliare tutto il vicinato.
Incespico verso la porta-finestra, di cui un'anta è spalancata e lascia intravedere la tenda sottile che nasconde la camera.
Picchietto con insistenza sul vetro, lasciando l'impronta del palmo mentre cerco di non crollare a terra.
Dato che non ricevo alcuna risposta, continuo a bussare, fino a che la tenda viene tirata bruscamente e il suo volto compare al di là del vetro. 
Nonostante l'espressione stanca, riesce comunque ad apparire arrabbiata.
«Nate?» dicono le sue labbra, più seccata che sorpresa.
Continuo a picchiettare sul vetro, così lei capisce che deve aprirlo. Lo fa con un gesto secco e le crollerei addosso, se non si fosse spostata velocemente di lato. Incespico nelle tende, lisce come abiti di seta troppo costosi, e per miracolo riesco a non stramazzare sul parquet chiaro.
«Dio quanto puzzi» si lamenta lei con un'espressione di disgusto dipinta sul volto.
«Anche tu non sei questa gran bellezza a quest'ora» replico con la voce impastata, non perché lo pensi davvero, ma perché se lei è maleducata, devo esserlo anche io.
«Vaffanculo Nate» sbotta lei sottovoce, poi la sua espressione si fa incerta. Guarda alle mie spalle, come se qualcun altro potesse entrare dalla porta-finestra.
«Senti, te ne devi andare» sussurra, cercando di farmi arretrare.
Sorrido, anche se probabilmente risulta solo una smorfia da ubriaco: «Perché? Hai paura che rovini il sonno di bellezza di tua mamma? Tanto tuo papà non smetterà di tradirla con la sua segretaria»
Le mie parole la fanno veramente infuriare, perché diventa bordeaux.
«Lui non la tradisce!» sibila e questa volta non cerca più si farmi arretrare, ma mi spinge non troppo gentilmente.
«Aspetta, aspetta!» la supplico «Mi dispiace, sono un coglione. Lo sai che quando bevo straparlo»
«No» risponde lei secca «Sei un coglione comunque»
Sbuffo: «Va bene, hai ragione. Ma per favore, ho bisogno di un bicchiere d'acqua. Ti giuro che poi tolgo il disturbo e ti lascio dormire in pace»
Lei fa saltare indecisa lo sguardo tra me e il davanzale, da cui entra un'arietta fresca.
«Per favore...» insisto con voce supplichevole e so che nonostante la sua espressione perennemente incazzata, a certe cose non può resistere.
Sospira: «Va bene, ma ti prendo l'acqua del lavandino.»
«È perfetto» replico, sapendo che l'acqua del suo lavandino sarebbe ambrosia in casa mia.
«Aspetta qui» risponde e prendendomi per le spalle mi costringe a sedermi sulla poltrona accanto alla sua scrivania.
«Non fiatare, intesi?» dice con voce leggermente tesa.
«Sissignora» replico con uno sguardo sornione che la fa arrossire.
Non riesco a seguirla con lo sguardo mentre esce dalla stanza, perché mi gira dannatamente la testa e reprimo a fatica un conato di vomito, che mi causerebbe l'immediata espulsione da questa stanza e definitivamente dalla casa.
Lei torna qualche istante più tardi che potrebbe essere stato una manciata di secondi o un paio di ore, ma tutto ciò che riesco a metabolizzare è che stringe tra le mani un bicchiere di acqua, per me.
Lo mando giù come uno shot di vodka, ma l'effetto è esattamente il contrario. Mi disseta e raffredda.
«Ora devi andartene» ribadisce lei, fissandomi con le braccia incrociate al petto.
«Sei così impaziente di avermi fuori dai piedi?» commento con un sorrisetto deformato in smorfia.
«Irrompi nella mia camera nel cuore della notte e puzzi di alcol e fumo come un vecchio barbone perennemente ubriaco e strafatto» replica lei senza troppi giri di parole «Dove diavolo sei stato?»
«Non è mai troppo tardi per essere una spara-sentenze, vero?» replico tagliente, ignorando la sua domanda.
Le mie parole la fanno arrossire nuovamente, sia perché è punta sul vivo, sia perché ora l'ho fatta incazzare sul serio.
Decido che è il momento di togliere il disturbo, così le rimetto maldestramente il bicchiere tra le mani.
«Grazie» dico facendo un gesto indefinito con la mano «E divertiti domani nella tua scuola per bambini ricchi»
«È un 'università, coglione» replica lei sottovoce e mi costringe ad uscire sul terrazzo senza troppa gentilezza.
«Grazie per la visita» aggiunge poi, glaciale.
«Sempre un piacere incontrarti, Mila, anche se di solito, di notte, sei più...calorosa»
«Vaffanculo» termina lei e questa volta mi sbatte veramente la porta in faccia. Se mi ero preoccupato di aver fatto rumore, ora lei ha risolto ogni problema.
La vedo tirare la tenda liscia e scorgo la sua sagoma che torna verso il letto.
Non lo ammetterei mai e soprattutto mai direttamente a lei, ma non riesco a capacitarmi di come possa essere così dannatamente attraente anche nel cuore della notte.
 
Mila
Sapevo perfettamente, quando Nate ha bussato al vetro della porta-finestra, che il mio riposo era finito.
Però mi sono alzata, forse perché il rumore era fastidioso e insistente, o forse perché così volevo credere.
Da ubriaco è anche più irritante che da sobrio, anche se sembra difficile che riesca a superarsi in fatto di seccatura.
Nathaniel Winchester è una seccatura ambulante.
«A che stai pensando?» 
La voce di Clelia mi scuote e piombo nuovamente nell'auto che la mia amica sta guidando verso l'università.
«Cosa...» replico confusa e lei ride: «O dovrei dire a chi?»
La guardo interrogativa e lei mi rivolge un'espressione divertita: «Sembri stanchissima, con chi hai passato la notte?»
C'è una certa ironia nella sua voce, che non colgo del tutto, perché prontamente ribatto: «Nessuno!»
Clelia ridacchia: «Lo so, stupidina. Mila Barnes non starebbe mai sveglia la notte prima della scuola!»
Il suo commento m'infastidisce, così mugugno qualcosa che non saprei distinguere neanche io.
«Eddai Mila, lo sai anche tu che è vero»
«Anche io faccio pazzie» replico indispettita.
«Me ne ricordo! Ma metti sempre la scuola prima di tutto, è una cosa molto nobile. Questo non ti impedisce di fare baldoria nei weekend»
Alzo gli occhi al cielo, ma non aggiungo altro, perché ormai siamo arrivate al parcheggio dell'università.
Clelia lascia l'auto al suo solito posto, vicino all'edificio principale e si avvia verso l'ingresso lasciando dietro di sé l'inconfondibile scia di profumo fruttato.
Quando mettiamo piede nell'atrio, mi saluta con un bacio che lascia il suo lucida labbra sulla mia guancia, e se ne va ancheggiando verso la sua prima classe.
Rimasta sola, mi sistemo la borsa sulle spalle e mi affretto a fare altrettanto.
 
 
A fine giornata, trovo Clelia nel parcheggio, accanto alla sua auto, con gli occhiali da sole inforcati che impediscono di intuire la direzione del suo sguardo.
So che la sua ultima lezione è finita prima della mia e sta aspettando solo me, prima di tornare a casa.
«Eccoti principessa» mi saluta, poi sale sull'auto e mette in moto.
Durante il viaggio di ritorno sono distratta e mi concentro sulla conversazione quanto basta per dire "Sono d'accordo" e "Hai ragione", quando so che devono essere detti.
Clelia mi lascia davanti al cancello di casa mia e prosegue fino alla sua, non molto lontano.
Dopo aver varcato il cancello, attraverso il giardino ordinato, responsabilità di un'equipe di giardinieri scelta dai miei genitori.
Quando raggiungo l'ampio ingresso, trovo una figura, che non riconosco subito, ma impiego qualche istante a mettere a fuoco.
Lui mi ha già identificata, perché si avvicina sorridendo.
«Nate?» sibilo, riconoscendo il volto che ha disturbato il mio sonno.
Il mio cuore accelera all'improvviso e sento le guance scaldarsi. Anche Nate lo nota e scoppia a ridere.
«Mila?» 
La voce di mio padre mi distoglie dallo stupore per la presenza del ragazzo e impedisce ad entrambi di parlare.
L'uomo spunta sulla cima dello scalone che scende verso l'atrio e percorre rapidamente i gradini che lo separano da noi.
«Hai visto George? Quel dannato maggiordomo dovrebbe scortare le persone per la casa, invece siamo noi che andiamo alla sua ricerca» sposta il suo sguardo su Nate, poi lo riporta su di me «Oh, lui è il meccanico che Jackson mi ha consigliato per la Diavel. Quel gioiellino non vuole ripartire e ho proprio bisogno di qualcuno che faccia miracoli. Ti dispiace accompagnarlo, Mila? Non so dove si sia cacciato George!»
«Va bene» acconsento senza riuscire a trattenere un velo di amarezza nella voce. L'uomo non ci fa caso e ritorna sui propri passi, lasciandomi sola con Nate.
Comincio a camminare verso il guardino, incurante che mi segua o meno.
Ovviamente lui è immediatamente al mio fianco, con quel sorriso irritante stampato sulla faccia.
«Meccanico?» domando rivolgendogli uno sguardo interrogativo.
Lui scrolla le spalle: «Sì, a volte lo faccio. Un amico mi chiama se ha bisogno di una mano e io lo faccio volentieri per guadagnare qualcosa»
«E perché sei venuto qui?» continuo l'interrogatorio con tono circospetto.
«Quell'amico di tuo papà, Jackson, era rimasto contento del mio lavoro e quindi mi ha fatto chiamare per il lavoro alla Diavel. Non sapevo fosse in casa tua» risponde tranquillamente «E anche se lo avessi saputo, ci sarei venuto comunque. Non si sputa sui soldi facili»
«Facili?» commento, svoltando dietro l'angolo della casa, dove si apre l'ampio giardino posteriore.
Nate ridacchia: «I ricconi tendono a chiedere aiuto ad esperti per ogni piccolezza e sono disposti anche a farsi fregare purché tutto sia perfetto»
Gli lancio un'occhiataccia e lui alza le mani: «Stai tranquilla, io sono una persona onesta»
«E anche sincera» aggiungo ironica. 
Siamo giunti davanti alla saracinesca del garage, così inserisco il codice e aspetto che si apra per poter guidarlo all'interno.
Quando nota la collezione di auto e moto di mio padre, Nate lancia un fischio, poi si volta a guardarmi. 
I suoi occhi scuri mi scrutano, assorti.
«Com'è andata a scuola?» domanda, cambiando completamente espressione.
Il suo tono mi lascia spiazzata e mi ritrovo a rispondere senza troppo convinzione: «Bene...»
E mi affretto ad aggiungere: «È un'università, comunque»
Lui fa roteare gli occhi e sbuffa: «Vedi? Io cerco di essere gentile con te, ma tu trovi sempre il modo di rovinare le cose»
Arrossisco e farfuglio una scusa confusa, poi cammino non troppo agilmente verso l'angolo buio dove è nascosta la Diavel di mio padre, lontano dalla luce dell'apertura.
Nate si avvicina, poi si avvicina ancora, così che sento il suo calore anche se non ci tocchiamo.
Mi schiarisco la voce e cerco con lo sguardo i suoi occhi: «E com'è stata la tua giornata?»
Lui sorride, come se avesse intuito il collegamento tra la sua domanda e la mia.
«Grandiosa» risponde «Ora che ti vedo»
Adesso sento veramente il suo calore, ed è quello che traspare dalle sue mani, che circondano il mio viso.
Sento le sue labbra sulle mie ancora prima che le tocchino e non so se è lui a sporgersi verso di me o viceversa. 
Non posso resistergli e lo so perfettamente, così lascio che il suo calore mi avvolga e che le sue mani mi accarezzino.
Un rumore proveniente dal giardino fa sobbalzare entrambi, così ci stacchiamo e fingiamo noncuranza, quando mia madre, qualche secondo più tardi, fa capolino nel garage.
«Eccoti qua Mila! Tuo padre mi ha detto che stavi accompagnando il meccanico» dice facendo saltare lo sguardo da me a Nate e viceversa.
«Sì» rispondo con un cenno affermativo e aggiungo: «Ora è meglio lasciarlo lavorare. Mi accompagni a casa?»
Mia madre non risponde subito e la sua indecisione fa accelerare il mio battito cardiaco.
Fissa Nate per qualche secondo, che le rivolge un sorriso di circostanza, poi annuisce e mi segue all'esterno.
Non riesco a togliermi dalla testa il pensiero di star comportandomi da stupida, ma non è una cosa più forte di me.
Mia madre rimane una bella donna, anzi una donna bellissima, e la freddezza che scorre tra noi mi permette di essere gelosa che lei rimanga con Nate.
Sono una stupida.
«Dovevi parlarmi di qualcosa?» chiede mia madre mentre varchiamo la soglia di casa.
Ovviamente la mia richiesta l'ha insospettita, così mi affretto a scuotere il capo e correre in camera mia.
Una volta rimasta sola, prendo un respiro profondo, ma realizzo che i miei vestiti e la mia stanza sono impregnati del profumo di Nate.
Cercare di togliermelo dalla testa è come tentare di liberarsi di una cosa dannatamente appiccicosa. Appena pensi di esserci riuscito, ecco che si aggrappa a te con più forza, con più insistenza e alla fine, l'unica cosa che puoi fare, è arrenderti.
 
 
Rispondo al mio cellulare sapendo che è Clelia ancora prima di sentire la sua voce squillante esplodermi nell'orecchio.
«Sto arrivando, zuccherino, sei pronta?»
«Prontissima» rispondo, lanciando uno sguardo incerto allo specchio intero della mia camera.
Indosso una gonna, camicia di jeans e scarpe da ginnastica di quel genere che dovrebbe apparire sportive, ma che in realtà hanno una vita di quarantott'ore e costano come delle scarpe eleganti.
Ovviamente Clelia avrà da ridire sul mio outfit, così cerco di non preoccuparmi più del solito.
Afferro una borsetta e volo al piano inferiore in tempo per sentire l'auto della mia amica fermarsi sulla strada.
«Buona sera» mi saluta lei, mandandomi un bacio volante con le labbra color ciliegia. 
«Non sai quanto i tacchi slancerebbero le tue gambe» aggiunge «Ma non male la scelta delle scarpe»
«Anche tu stai benissimo»
Rimette in moto e la sua Mini sfreccia sulla strada, diretta verso l'oceano.
Il Blue Dolphin è un locale alla moda che vanta di una terrazza all'aperto sulla spiaggia dove si svolgono le migliori feste, altresì dette raduni di ragazzi di buona famiglia.
Chiunque metta piede al Blue Dolphin arriva su un auto costosa, indossa abiti firmati e lascia dietro di sé una fragranza penetrante. È il locale preferito di Clelia e, devo ammettere, anche il mio.
Parcheggiamo la Mini e ci avviamo verso l'ingresso, dove altre persone attendono di entrare.
La musica è alta e le luci illuminano a giorno lo spazio, come se non fossero già passate le dieci di sera. Al posto dei tavolini ci sono delle grosse botti di legno, affollate di ragazzi che sorseggiano i propri drink colorati ridendo rumorosamente.
Clelia ordina al bancone due bicchieri e me ne piazza uno in mano senza chiedermi se lo voglio. Mentre ci aggiriamo per la terrazza, prendo la cannuccia tra le labbra e assaggio lentamente la bevanda.
Sento il sapore dolce della frutta e il retrogusto caldo dell'alcol che scendono insieme lungo la gola.
Clelia ha già attaccato bottone con due ragazzi dell'Università, che avevamo già incontrato qui qualche settimana fa.
Ride, scuotendo i lunghi capelli arricciati con cura e diffondendo il proprio profumo Chanel nell'aria.
«Tu sei Mila, giusto?» domanda uno dei due ragazzi. Ha gli occhi di un castano profondo, come quelli di uno scoiattolo.
Annuisco e lo indico: «Elliot?» 
Lui fa un cenno di assenso, entusiasta: «Esatto! Comunque sei uno schianto stasera!»
Mi lascio sfuggire una risatina e mi sento arrossire per il complimento. Quando mia volto verso Clelia lei ammicca come per dire: "Ben fatto, zuccherino".
Finisco in fretta il mio drink e Elliot insiste per offrirmene un altro, mentre il suo amico fa lo stesso con Clelia. Cerco di dissuaderlo, ma per la seconda volta mi ritrovo con un bicchiere in mano senza che io possa impedirlo.
Dal momento che me lo ritrovo tra le mani, non posso far altro che bere anche questo, senza dispiacermene troppo. Ha un sapore più intenso del precedente e mi complimento con Elliot per la scelta.
Lui sorride, facendo mostra della sua dentatura splendente.
Mi appoggio ad un tavolino-botte e lascio vagare lo sguardo intorno a me.
Clelia e l'amico di Elliot, Scott, stanno ballando poco distante, insieme ad altre persone che conosco di vista. Elliot è scomparso e sono quasi certa che mi abbia detto dove sarebbe andato, ma non ho sentito per la musica alta e ho finto di capire.
Rimango da sola per qualche istante, poi decido di avvicinarmi al bordo della terrazza.
Sulla spiaggia ai miei piedi è acceso un grande falò e altri ragazzi lo circondano. Alcuni ballano con la musica, altri chiacchierano e ridono, altri si sfidano e si lanciano in acqua.
C'è un motivo se si trovano sulla spiaggia e non qui, sulla terrazza.
I ragazzi che sto guardando vengono dall'altra parte della città, dove la vita costa meno, i quartieri sono malfamati e non esistono scuole valide.
È una tacita regola che vige da anni, forse da prima che i miei genitori fossero adolescenti: ognuno deve rispettare il proprio territorio. Se uno di loro osasse salire sulla terrazza, verrebbe immediatamente scacciato, rimediando probabilmente qualche cazzotto.
Ci saranno almeno un centinaio di persone sulla spiaggia, così mi perdo nell'osservarli e mi viene da sorridere.
Sembra di assistere ad uno spettacolo, perché io non faccio parte di quella scena.
Mi volto, per cercare Clelia, ma in questo momento sta baciando appassionatamente Scott ed è meglio non interromperla.
Rimango immobile per un istante, incerta, poi decido di farlo.
Mi accuccio a terra, come se dovessi raccogliere qualcosa, mentre sfilo sotto alle assi della balconata e mi sporgo.
La terrazza non è molto in alto rispetto alla spiaggia, ma devo comunque aggrapparmi e scendere lentamente, perché non so contro cosa potrei cadere.
Mollo la presa e i miei piedi affondano nella sabbia fresca.
Mi guardo attorno, avanzando lentamente per immergermi nel nuovo gruppo.
I loro volti sono illuminati dalla luce rossastra del falò e non dalle mille lampadine colorate del Blue Dolphin, così che talvolta le ombre dipingono sulla loro pelle forme strane e deformanti.
«Ehi ragazzina, ti sei persa?» esclama una voce pericolosamente vicina al mio orecchio.
Faccio un vigoroso cenno di no col capo e quello che ha parlato scoppia in una risata fragorosa. Mi allontano velocemente, senza smettere di scrutare i volti.
«Che cazzo guardi?» mi inveisce contro una ragazza piena di piercing, con gli occhi segnati dal pensante eye-liner. Mi risparmio di rispondere anche a lei e proseguo.
Ad un tratto noto un giovane con i capelli biondi raccolti che ridacchia con un gruppo di persone, bevendo da un bicchiere di carta.
«Mike» lo chiamo afferrandolo per una spalla. Lui si volta, confuso, ma quando mi riconosce mi rivolge un sorriso caloroso e completamente sbronzo.
«Guardate chi c'è!» esclama rivolto alla compagnia: «La bambola di Nate! Ehi, avete...»
«Mike» lo interrompe «C'è Nate?»
Lui mi guarda frastornato per qualche secondo, come se stesse pensando, poi annuisce: «Nate? Gli ho fottuto una sigaretta dieci minuti fa, forse venti...anzi facciamo mezz'ora»
«Grazie dell'aiuto» borbotto a denti stretti e lo lascio al suo gruppo, tornando a farmi largo tra la folla.
Se fossi Nathaniel Winchester, cosa starei facendo?, mi chiedo.
Le uniche risposte che mi vengono in mente, non mi sono di grande aiuto.
Decido di optare per la cosa più stupida: sfidarsi ad entrare in acqua.
Mi avvicino al gruppo di ragazzi senza magliette che urlano a gran voce e ridono piegati in due dalle risate.
Centro.
Nate è tra loro, con la maglia ancora addosso, un bicchiere mezzo vuoto in mano e un sorriso da ubriaco dipinto sulla faccia.
«Ehi, tesoro» mi saluta quando mi sono avvicinata. Il suo respiro sa di alcol, sigarette e menta. 
«Non ce la fai proprio a starmi lontana» commenta posandomi una mano sul fianco.
Sento i brividi partire da dove mi sta toccando.
«Mi annoiavo» rispondo con nonchalance «Pensavo che i ragazzi qua sotto sapessero come divertirsi»
Sul suo viso si dipinge un sorriso sghembo e malizioso: «Hai ragione, ma tutti si divertono più di quei coglioni impagliati»
Alzo gli occhi al cielo, ma non ho il tempo di replicare, perché lui ha incollato le labbra alle mie.
Gli circondo il collo con le braccia e affondo le dita tra i suoi capelli, godendomi quell'istante.
 
Nate
«Mila?»  
Lei si muove leggermente, come se respirasse appena, ma il letto è così piccolo che riesco a percepire ogni suo movimento.
«Mm?» domanda con la voce impastata dal sonno.
«Per quanto mi lusinghi pensare che sei venuta da me per il mio fascino incredibile...» è ancora abbastanza sveglia per rifilarmi una gomitata. Ridacchio e proseguo: «Perché lo hai fatto? Sembravi...triste»
«Non è niente di importante, Nate» risponde, con aria rassegnata.
Mila non lascia mai perdere. Quando deve rompere le palle, le rompe fino in fondo, quindi questo tono non è da lei.
«Non me lo vuoi dire?» chiedo, con cautela.
«È che...» fa una pausa leggera, vedo le sue ciglia tremolare. «Te l'ho detto, non è così importante» conclude.
Le accarezzo con disinvoltura i capelli, che scendono soffici sul mio petto.
Mi schiarisco la voce: «Lo sappiamo entrambi che le notti sono state concepite principalmente per dire cose che non diresti il giorno dopo»
Lei sospira e si solleva. Mi guarda negli occhi. Le sue iridi blu come l'oceano sono fisse nelle mie.
«È una cosa piuttosto stupida» comincia, ma dal suo tono capisco che prima di tutto, sta già mentendo: «Non so se ricordi quel concorso che ho vinto...»
Annuisco. Mila non se lo aspetta, ma io l'ascolto sempre.
«Ho scritto un articolo sulla diversità...»
«Sì, mi era piaciuto»
Mila si interrompe e mi fissa, con le labbra dischiuse e gli occhi spalancati.
«Ti era...piaciuto?» ripete perplessa. «Ma se non l'hai mai letto!»
Improvvisamente realizzo le circostanze in cui lo avevo fatto. Sfodero un sorriso smagliante: «Quella volta in cui i tuoi erano fuori casa, qualche mese fa. Ero passato e mi avevi segregato in camera tua "nel caso entri qualcuno". Mentre non c'eri ho visto dei fogli che mi incuriosivano e li ho letti»
Le sue guance si scuriscono velocemente e so che sta per inveirmi contro, così mi affretto ad aggiungere: «Di solito, con un tema del genere, la gente scivola in un nauseante moralismo. Invece tu ne hai parlato in modo realistico, senza giri di parole. Mi è piaciuto un sacco»
I complimenti paiono calmarla, così decide di stare buona e tornare al proprio racconto.
«Comunque di dicevo che mi hanno invitata ad una sorta di conferenza venerdì sera proprio perché ho vinto. Probabilmente mi faranno qualche domanda e ci saranno delle discussioni. L'ho detto ai miei genitori» si rabbuia all'improvviso «Mio padre dice che sarà a New York per lavoro e mia madre ha una cena importante»
Mila non ha mai detto "mamma" o "papà". Li chiama "madre" e "padre", come due figure lontane, con cui ha qualche legame non ben definito.
«Ecco te l'avevo detto» sussurra interrompendo il silenzio «È una cosa stupida»
Ritorna ad appoggiare il capo sul mio petto.
«No» sussurro accarezzandola «Non lo è per niente»
 
 
Quando mi sveglio la mattina successiva, in preda ad una sete implacabile, noto subito di essere solo nel letto.
Razionalmente sapevo che Mila se ne sarebbe andata, perché lo fa sempre. Dice ai suoi genitori che ha dormito da un'amica, ma prima di pranzo si fa trovare a casa per poter mantenere in piedi la balla.
So che ormai i suoi genitori le lasciano maggiore libertà, ma lei ha preso quest'abitudine quando frequentava ancora le superiori e non so quando cambierà.
Mi alzo, sbadigliando vistosamente e scorgo fuori dalla finestra, la sagoma familiare di Mila che si allontana sulla strada.
Mi ha lasciato un biglietto, come al solito, in cui mi augura buona giornata. 
A volte è sorprendentemente gentile.
Decido di risponderle con un messaggio: È stato triste vederti andare. Stavo quasi sperando che rimanessi.
Quando esco dalla camera, trovo Mike e Jay, i miei coinquilini, già svegli, con una birra a testa.
«Ma che cazzo fate?» sbotto interdetto «Dopo la sbronza di ieri sera bevete birra per colazione?»
«Coglione, abbiamo finito l'acqua e quella del rubinetto è ancora una volta piena di fango. Secondo me ti viene qualche malattia solo se l'annusi, quell'acqua» replica Jay, sorseggiando la sua bottiglia.
«'fanculo» replico avvicinandomi al frigo. Lo apro e mi accorgo che hanno ragione. Sono rimaste solo le birre e del formaggio ammuffito.
«Tocca a Mike fare la spesa» commento sedendomi al tavolo.
Micheal mi lancia un'occhiataccia. Ha gli occhi cerchiati da occhiaie profonde, come se non avesse dormito per nulla.
«Mi costringeresti a fare la spesa in queste condizioni?!» domanda a gran voce «Gran bell'amico sei!»
«Non è colpa mia se ti sei dimenticato di fare la spesa!» sbotto puntandolo minacciosamente con la canna della bottiglia. «Prenditi le tue responsabilità!»
«Anche tu, Nate» replica lui in un tono da saputello.
«Che cazzo vuoi dire?» domando mentre Jay annuisce con l'aria di chi la sa lunga.
«Mi volete spiegare, pezzi di merda?» insisto irritato.
Mike si piega in avanti verso di me, così che le mie narici sono invase dal suo odore di birra.
«Eddai Nate, quando ammetterai che provi qualcosa per la ragazza?» risponde, muovendo maliziosamente le sopracciglia.
«Ragazza?» ripeto temendo di aver in realtà capito.
«Sai perfettamente di cosa sto parlando» commenta Mike con un sorrisetto.
«Bah, 'fanculo. Non è una cosa seria. Lo so io. Lo sa lei»
Mike e Jay si scambiano un'occhiata che significa "Te l'avevo detto", ma per il loro bene, sanno che è meglio non aggiungere altro.
 
 
Il grande portone di legno bianco si apre lentamente davanti a me e pare inverosimile che a tirarlo sia la figurina al di là della soglia.
Mila indossa dei pantaloncini di tela e una maglietta troppo larga. Ha i capelli scompigliati, come se fosse sconvolta, e l'immancabile espressione incagnata.
«Che cosa vuoi?» domanda sulla difensiva, pronta a chiudermi la porta in faccia.
Le rivolgo un sorrisetto sghembo: «Ho per caso disturbato il tuo studio, angioletto?»
«Mi stai sfottendo?» replica lei tagliente «Un normale universitario come me studia il mercoledì pomeriggio e non va ad importunare gli altri»
«Mmhh» commento «Così ora io ti starei importunando?»
Lei mi fulmina con lo sguardo, poi aggiunge: «Che cosa vuoi? Ti servono dei soldi?»
La sua insinuazione mi trafigge come una lama.
Stringo i denti e le rispondo, glaciale: «Non voglio i tuoi soldi. Devo finire il lavoro per tuo padre, se hai intenzione di farmi entrare. Altrimenti digli di cercarsi un altro meccanico»
Il mio tono duro la colpisce. Sbatte un paio di volte le palpebre, come una gattina pigra, poi si scosta leggermente dall'ingresso e mi fa cenno di entrare. 
Dopo aver chiuso la porta alle mie spalle mormora: «Ti accompagno»
«Conosco la strada» replico trafiggendola con lo sguardo. 
Mila sa che le parole sono un'arma potente e le sue sono particolarmente letali.
Mi lancia un'occhiata veloce, poi decide che vuole accompagnarmi e mi fa strada.
Probabilmente teme io possa rubare qualcosa.
Percorriamo la stessa strada che mi aveva mostrato l'ultima volta, poi apre il garage.
Indugia un istante, pensierosa, poi si fa da parte e mi lascia passare.
«Gentilissima» commento a denti stretti e mi guadagno un'occhiata fulminante.
«Buon lavoro» replica lei e se ne va.
È impossibile pensare che quattro giorni fa mi sono addormentato stringendola dolcemente tra le braccia.
 
 
Quando ho finito il lavoro, rimetto a posto la Diavel, mi pulisco alla bell'e meglio le mani su un fazzoletto ed esco dal garage.
Ho intenzione di uscire direttamente da questa casa, quando intercetto Mila al di là delle vetrate che si affacciano sul giardino.
Lei mi fa un cenno indistinto che potrebbe significare "Vaffanculo" tanto quanto "Aspetta", così decido di aspettare.
Se ho interpretato male, posso sempre mandarla affanculo a mia volta.
Qualche secondo più tardi, mi raggiunge correndo attraverso il giardino. È scalza e vestita così sembra una bambina.
Quando si ferma, poco distante da me, ha le guance arrossate.
Mi tende una busta: «Mio padre mi ha detto di darti questi»
«Mi ha già pagato la scorsa volta» replico rigido.
Lei fa fatica a sostenere il mio sguardo, però insiste: «Lo so, però dice che quello di oggi era un lavoro extra ed è giusto pagarti»
«Non voglio l'elemosina»
«E allora vai a farti fottere, Nate. Non tutti hanno come scopo della vita quello di offenderti» ribatte, con le guance in fiamme e tiene la mano ancora tesa verso di me.
Sono combattuto tra l'istinto di fare un'epica uscita di scena con una replica da stronzo e la necessità di prendere quei soldi. Ne ho davvero bisogno.
«Senti prendili» dice Mila fiaccandomi la busta in mano «Così mio padre è contento perché pensa che li abbia tu. Puoi restituirmeli pagandomi da bere, se proprio ci tieni»
Mi guarda ancora per un istante con i suoi occhioni blu, poi fa per andarsene.
«Grazie» le dico e lei rallenta leggermente, si volta e mi sorride, poi torna in casa.
Perché sa che non le ridarò questi soldi, almeno non per i prossimi dieci anni, ma non gliene importa.
 
 
Mila
«Che cosa stai indossando?» la voce di Clelia mi giunge dal cellulare insieme al sottofondo di voci e piatti che tintinnano.
«Jeans scuri, church's nere e maglioncino dello stesso colore»
«Quello con lo scollo a v?»
«No» replico.
«Bene, quello non mi piaceva. Capelli?»
«In ordine?»
Lei sbuffa: «Li ha arricciati?»
«Ehm...un poco»
La immagino far roteare teatralmente gli occhi come fa lei.
«Ora devo andare Clel» dico, guardandomi attorno.
Chi l'avrebbe mai detto che ci sarebbe stata così tanta gente alla conferenza? Non è la mia aspettativa di programma il venerdì sera.
Invece la sala davanti a cui dovrò parlare fra poco è già piena e sta arrivando ancora gente.
«Va bene, tesoro. Stai calma, sii confidente e scandisci bene le parole» si raccomanda lei.
«Certo, buona cena di famiglia» le auguro.
«Già, qualcuno mi salvi» dice lei, poco prima di terminare la chiamata.
Ripongo il telefono e sbircio la sala dalla porta accanto al palco. Ormai tutti i posti sono occupati.
Ho già parlato con il presentatore, un uomo di mezz'età, non molto alto, dai radi capelli scuri e un sorriso affabile. Si chiama John e mi ha detto alcune delle domande che potrebbe rivolgermi, il che mi manda già nel panico.
Ci sono altri due relatori, un medico e un operatore dei servizi sociali che sembrano sapere il fatto loro e mi intimoriscono non poco. 
Decido di sedermi nel posto che mi hanno assegnato, in prima fila, e cinque minuti più tardi, il presentatore sale sul palco per dare inizio alla serata.
Durante la prima ora, i due esperti si alternano nelle proprie orazioni, poi il presentatore e la platea rivolgono loro qualche domanda.
«Ora salutiamo con un caloroso applauso la vincitrice del premio Adkins di quest'anno, Mila Barnes»
Mi alzo in piedi con un sorriso leggero dipinto sul volto, cerco di non inciampare sui gradini del palco e mi avvicino al presentatore, che mi fa cenno di accomodarmi sulla poltrona al suo fianco.
Dopo i convenevoli, lui comincia a rivolgermi le domande che mi aveva riferito poco fa. Rispondo con semplicità e schiettezza, cercando di limitare i giri di parole al minimo. 
L'uomo legge dei frammenti dall'articolo che ho scritto e li commentiamo insieme, dopodiché chiede al pubblico se ci sono domande.
Un uomo in giacca e cravatta alza la mano e si complimenta per il mio interesse per l'attualità, che mi fa onore tra tanti giovani disinteressati del mondo.
Lo ringrazio con un sorriso modesto.
Il microfono passa al prossimo interlocutore.
«Vorrei chiedere alla signorina Barnes» comincia questo «come può essere contemporaneamente intelligente e così attraente. Qual è il suo segreto?»
Mi sento avvampare, sia per le parole, sia perché riconoscerei questa voce fra mille.
Anche se si trova dall'altra parte della sala, sento lo sguardo di Nate fisso su di me. 
La platea ride di gusto.
«Posso rispondere che non so di cosa stia parlando?» replico con ironia. 
«Sarebbe una bugiarda, signorina Barnes» replica Nate, divertito dalle sue stesse parole.
Il presentatore s'intromette: «Questa conversazione sta prendendo una piega piuttosto interessante»
Dalla platea si alzano altre risatine, che fanno arrossire.
«Credo che il suo segreto» continua Nate, riconquistandosi l'attenzione del pubblico «sia di esserne completamente inconsapevole»
Mi schiarisco la voce: «Mi dispiace essere completamente impreparata in questo campo. Se l'avessi saputo, mi sarei preparata i bigliettini»
Il presentatore fa ancora qualche battuta, poi riporta la conversazione sui toni sobri della serata e alla fine mi congeda.
Dopo che l'uomo ha salutato il pubblico, mi trovo circondata da persone che non ho mai visto, che si complimentano con me. Alcuni si presentano come conoscenti dei miei genitori oppure di quello e quell'altro parente. Li liquido gentilmente ma velocemente, e mi faccio spazio verso il fondo della sala. 
Quando raggiungo gli ultimi sedili, però Nate non c'è più.
Cercando di scacciare la delusione, spingo la porta a vetri che conduce all'esterno e m'infilo nell'aria fresca della notte.
Campanelli di persone chiacchierano fra loro sotto la luce dei lampioni. 
Alcuni se ne vanno, altri restano, altri ancora sembrano indecisi su cosa fare.
«Niente male, signorina Barnes»
Mi volto e appoggiato alla parete alle mie spalle, vedo Nate, con il suo tipico sogghigno stampato sulle labbra.
«Ciao» lo saluto avvicinandomi. 
Lui si stacca dalla parete: «Non stavo scherzando, mi sei piaciuta»
«Grazie» mormoro arrossendo. Lui solleva le sopracciglia e io aggiungo: «Per i complimenti, ma soprattutto per essere venuto»
Lui ridacchia: «Diciamo che non avevo niente di meglio da fare stasera che ascoltare una noiosa conferenza sulla società»
Incrocio le braccia al petto: «Perché sei venuto se la ritieni noiosa?»
Ammicca: «Mi hanno detto che ci sarebbe stato l'intervento di una secchiona niente male»
«"Niente male"?» ripeto perplessa quanto divertita.
Lui ride ancora: «Sì, ma dicono anche che sia un po' carente in fisica»
Ora rido anche io: «Per questo ci sei tu»
Ho incontrato Nate per la prima volta due anni fa.
Uscivo dalla scuola superiore che frequentavo lamentandomi con Clelia dell'impossibilità dei problemi di fisica che ci avevano assegnato. Lei ascoltava senza troppo interesse, ma io insistevo, preoccupata.
Ad un tratto, un colpo di vento mi ha strappato dalle mani il foglio dei problemi che brandivo e lo ha fatto volare ai piedi di Nathaniel Winchester, fermo davanti alla sua vecchia moto.
Jeans sbiaditi, t-Shirt scura, giacca di pelle, anfibi e una faccia da schiaffi.
Lui ha raccolto il foglio, lo ha guardato per qualche istante, mentre io lo fissavo, a due metri di distanza, con le guance in fiamme, in attesa che me lo restituisse.
Lui mi ha rivolto un'occhiata sorniona.
«Hai una matita?» ha chiesto.
«C-cosa?» ho farfugliato.
«Una matita. Ne hai una?»
Prima che io potessi muovere un muscolo, Clelia gliene ha tesa una, improvvisamente interessata al foglio dei problemi di fisica.
Nate ha appoggiato il foglio al sedile della moto e ha cominciato a scriverci qualcosa. 
L'ho fissato, interdetta e confusa, fino a che lui non me l'ha restituito.
Io ho preso il foglio tra le mani, attonita, mentre lui diceva: «Non c'è di che» e si metteva il casco.
Se n'è andato prima che io potessi realizzare che aveva risolto undici problemi in velocità record.
E aveva anche aggiunto il suo numero di telefono in fondo al foglio.
«Mila? Ti sei addormentata?»
Mi riscuoto improvvisamente e metto a fuoco le dita che Nate da schioccando davanti al mio naso.
«Sì, ci sono. Hai detto qualcosa?» replico velocemente.
Lui ride. La sua risata è come un'onda. Parte bassa, sale leggermente, poi dolcemente ridiscende. E provoca il maremoto nella mia pancia.
«Ho detto che voglio cominciare a ridarti i soldi di tuo padre. Stasera. Ti offro qualcosa»
«Oh» è tutto quello che riesco a dire, poi mi schiarisco la voce e aggiungo: «Va bene. Però ho voglia di gelato e il nostro patto valeva solo per i drink. Stasera pago io»
Senza aspettare una sua replica mi volto e mi incammino verso il parcheggio.
So per certo che mi seguirà.
 
 
 
Well baby I'm too 
Busy being yours to fall for somebody new 
Now I've thought it through 
Crawling back to you 
 
 
 
Nate
Dire che Mila ama il gelato è un eufemismo.
Lei lo adora alla follia, ne è pazzamente innamorata.
Lo mangia in ogni stagione e ogni occasione è buona per comprarselo, quindi guardarla mangiare un'enorme coppa di gelato al cioccolato e panna montata, è come vedere un bambino al luna park.
Immerge il cucchiaio nella panna montata come se seguisse un rituale sacro, poi lo solleva e lo infila tra le labbra, socchiudendo leggermente gli occhi per godere dell'istante estatico in cui le sue papille gustative ne accoglieranno il sapore.
«C'è qualche problema?» domanda lei con le guance piene di gelato. 
Scuoto il capo, ridendo.
«Ho del gelato sulla faccia?»
«Solo sulle labbra» rispondo. 
Lei incrocia gli occhi per cercare di vederlo, poi si passa lentamente la lingua sulle labbra per togliere il cioccolato.
Bevo della cedrata dalla bottiglia di vetro e ora è il turno di Mila di fissarmi.
Sgrana gli occhi e ha lo sguardo perso, come incantata.
«A cosa stai pensando?» le chiedo.
Sbatte le palpebre un paio di volte, poi risponde: «Alla cena che i miei hanno organizzato. Settimana prossima. Persone noiose»
«Posso offrirti una scappatoia se vuoi» le dico ammiccando maliziosamente.
Lei sorride, ma la sua espressione si spegne velocemente.
«Non è così facile liberarsi da questi impegni» commenta guardando la propria coppa.
Resto in silenzio perché io al penso diversamente, ma non ho voglia di litigare, non stasera.
Lei alza gli occhi e sorride leggermente.
Il suo sorriso può spezzare i cuori, ma lei non lo sa.
 
«Nathaniel, giusto?» alzo gli occhi dal biliardo e incrocio quelli verde chiaro della rossa che ha continuato a fissarmi da quando sono entrato.
Ho fatto finta di niente e ho giocato con Mike e Jay, ma ora lei è qui, davanti a me e mi guarda con le labbra tese in un sorrisetto.
«Sì» replico secco. 
Stasera non ne voglia sapere.
«Nate» il tono di Mike suona tanto come un rimprovero. Gli rivolgo un'occhiata scocciata e lui indica con il mento la rossa.
Io scuoto il capo.
«C'è qualche problema?» la voce mielosa della ragazza riporta la mia attenzione su di lei.
«No, nessuno» rispondo «Solo che ora è il mio turno. Ti dispiace...»
Le chiedo di spostarsi così posso prendere meglio la mira.
Lei gira i tacchi e se ne va senza salutare.
Mando in buca due palle, ma quando alzo il capo per sfottere i miei amici, leggo il dissenso sui loro volti.
«Qual è il vostro problema?» domando, appoggiando l'asta a terra.
«Qual è il tuo, Nate?» replica Mike.
«Già, non sei mai stato così musone» gli fa eco Jay.
«Semplicemente ieri sera sono uscito con Mila e non ho voglia di fare nuovi incontri» replico, sperando che questo basti loro come spiegazione.
I due si scambiano un'occhiata d'intesa, poi Mike commenta: «E da quand'è che sei così impegnato ad essere suo da non farti prendere da nessun'altra?»
Non gli rispondo e fingo di concentrarmi sulla partita, anche se so già che non penserò ad altro che lei.
 
Mila
Le cene eleganti sono terribilmente noiose.
Pensavo che questo fosse il mio giudizio di bambina, offuscato dalla voglia di giocare che i miei genitori si affrettavano a tenere a bada, costringendomi a sedere a tavola.
Invece anche ora, a stento riesco a sopprimere l'impulso di sbadigliare davanti a tutti.
Il membri del catering si affaccendano intorno a noi, silenzio ed efficienti, mentre uomini e donne in abiti lussuosi discutono con un bicchiere di champagne in mano e una tartina afferrata al volo.
Dopo aver mangiato al portata principale e aver conversato con persone di cui non ricordo né il volto né il nome, decido che ne ho abbastanza e mi dirigo verso la casa, vuota e silenziosa, al contrario del giardino affollato di ospiti.
Salgo le scale ascoltando l'unico rumore delle mie scarpe contro i gradini e mi dirigo verso camera mia.
La casa è avvolta dalla penombra, scarsamente illuminata dalle luci del giardino.
Spingo la porta della camera e solo quando la richiudo alle mie spalle, noto una figura davanti alla porta finestra.
Sento il mio urlo risuonare ancora prima che io realizzi di averlo emesso. 
Premo violentemente l'interruttore e Nate indietreggia, cercando di ripararmi dalla luce improvvisa.
Emana un pungente odore di alcol, ma la cosa non mi sorprende.
«Mila, tutto bene?»
Non è stato Nate a parlare. 
È stato mio padre, alle mie spalle.
È entrato dalla porta e ora sta spostando lo sguardo da me verso l'intruso.
«Cosa sta succedendo?» domanda, con un'inflessione severa e preoccupata nella voce.
Nessuno parla, Nate barcolla.
«Chi è questa persona che si è introdotta in camera tua?!» mio padre grida come quando lo fa con un collega che non rispetta i suoi termini.
«I-Io non lo so» farfuglio frastornata dalla sua voce troppo alta.
Vedo un guizzo sul volto di Nate. È diventato di ghiaccio. Lo fa sempre quando viene ferito.
«Chi cazzo sei?» sbotta mio padre. Lui non dice mai parolacce, ma ora è livido in volto.
«Pensavo che a sua figlia avrebbe fatto piacere vedermi» risponde Nate con decisione, nonostante biascichi leggermente le parole.
L'uomo al mio fianco lo punta con l'indice: «Tu mia figlia non la tocchi neanche con un dito!»
Il volto dell'altro si apre in un ghigno e so già che le sue parole porteranno solo guai.
«Sua figlia si è fatta toccare con più che un dito da me»
Mio padre si lancia in avanti e schiaffeggia Nate e sento il dolore come se avesse colpito me.
Il ragazzo non reagisce.
Sposta il capo e lo guarda fisso negli occhi.
«Lei, sua moglie, la vostra vita, mi fanno schifo» gli dice, ogni parola intrisa di veleno «E avete reso vostra figlia un prodotto del vostro piccolo mondo marcio»
Sento il secondo schiaffo ancora prima che arrivi.
Nate ridacchia, forse troppo ubriaco per provare dolore.
Le mie gambe paralizzate decidono di darmi un segno di vita e mi spingono tra Nate e mio padre.
Spingo il primo fuori dalla porta finestra.
«Non dirmi che non mi puoi più vedere» sibila lui, con l'alito che sa di alcol «Perché mi ruberesti le parole di bocca»
Scavalca il davanzale e si cala dall'albero prima che io possa fermarlo, così non mi rimane altro che guardarlo andare via con gli occhi pieni di lacrime.
«Dobbiamo parlare signorina» 
Mio padre mi attende nella mia camera, con le braccia incrociate al petto e un'espressione inflessibile.
«Io...te l'ho detto» mormoro «Non l'ho mai visto prima»
Lui corruga la fronte, ma a quanto pare l'idea che io possa aver frequentato Nate gli appare così ripugnante che preferisce accettare la mia pessima bugia.
«Stai bene?» domanda, più gentilmente.
Annuisco, ricacciando indietro le lacrime.
Sono una stupida.
«Torniamo alla cena, ti va?»
Annuisco ancora e mi lascio scortare da lui verso il giardino.
 
 
Passano i giorni.
Clelia mi chiede se va tutto bene e io annuisco, distratta.
Pensavo sarebbe stato facile, il mondo è pieno di persone. Ma la mia testa ne contiene una sola.
Mi chiedo se il suo cuore sia ancora aperto.
Non riesco a smettere.
Finché succede.
Un venerdì sera Clelia insiste di guidare al ritorno anche se ha bevuto un drink di troppo.
La strada è buia, i lampioni radi e cade una fastidiosa pioggerella.
Un'auto sbuca all'improvviso sulla strada, Clelia sterza, la Mini vola fuori strada e precipita in un fosso.
Sono paralizzata.
Non per il dolore alla fronte, che ho sbattuto contro il cruscotto e sta cominciando a sanguinare, ma perché è successo tutto velocemente.
Saremmo potute morire.
Clelia sta meglio di me.
Ma saremmo potute morire.
Ci guardiamo negli occhi.
Lei scoppia a ridere, io a piangere, ma ci abbracciamo strette.
Saremmo potute morire. E io non ho più tempo da perdere.
 
 
Pigio il pulsante del campanello e attendo in silenzio, fissando l'elenco dei nomi dei condomini.
«Chi è?» mi risponde una voce assonnata. Sono le due di pomeriggio di domenica, ma la cosa non mi stupisce.
«Devo parlare con Nathaniel»
Silenzio.
«Sei Mila?» domanda la voce e riconosco Jay. Impreco mentalmente. 
Jay è diffidente e se non si fida, non acconsente. Speravo mi rispondesse il caloroso e mite Mike.
«Sì, sono io. C'è Nate?» rispondo frettolosa.
«Io...non so se...»
«Per favore» lo interrompo «È una cosa importante»
«Io credo che lui sia incazzato. È da un po' che si comporta in modo strano»
«Posso parlargli? Magari riesco a risolvere qualcosa»
Jay esita. Riesco a sentire il suo respiro leggero attraverso l'altoparlante.
«Va bene» acconsente alla fine «Ma prometti che sa da in escandescenza te ne vai senza insistere?»
«Promesso»
La porta del condominio si apre con un click.
Mi lancio all'interno e salgo i gradini a due a due fino al terzo piano.
La porta dell'appartamento è già socchiusa e gli occhi di Jay mi scrutano dall'interno.
«Hai promesso» mi sussurra.
«Lo so. Stai tranquillo» rispondo e lui apre la porta quanto basta per farmi passare.
La casa di Nate è come me la ricordavo: disordinata, priva di un ordine logico, spoglia e con una perenne aroma di birra e sigarette.
«È in camera sua» dice Jay socchiudendo la porta alle mie spalle, come se fosse pronto ad aprirla nuovamente in tutta fretta «Ma ti consiglio di non entrare a meno che non ti inviti esplicitamente»
Annuisco: «Grazie mille»
Attraverso la piccola sala cucina ed emergo nell'atrio che conduce nelle camere. Quella di Nate è la penultima a destra.
Mi fermo davanti alla porta e busso contro il legno.
«Che c'è?» replica la voce irritata del ragazzo. Sento un tuffo nel cuore. «Sono impegnato»
Temo che se sente la mia voce, mi farà cacciare di casa senza neanche guardarmi in faccia, così bussò ancora.
«Che palle, Jay, non hai niente di meglio da fare?»
Picchio le nocche sul legno, ancora.
La porta si apre di scatto.
Nate non è arrabbiato. È la rabbia stessa.
Occhi fulminanti, espressione di ghiaccio, muscoli tesi.
Il mio cuore ha accelerato improvvisamente, ma la mia lingua sembra essersi fatta di piombo.
«Midispiace» dico, tutto d'un fiato.
Nate stringe le labbra fino a farle impallidire, così ne approfitto per aggiungere: «Hai dalla tua ogni ragione per essere arrabbiato con me e capisco che nessuna giustificazione può rimediare a come mi sono comportata. Quindi volevo solo dirti che mi dispiace, nulla di più»
Lui socchiude gli occhi e mi scruta in silenzio.
«Che hai fatto alla fronte?» domanda poi.
Apro la bocca, perplessa, ma realizzo che si sta riferendo alla ferita dell'incidente.
«Oh nulla di che» dico minimizzando.
«Ti hanno picchiata?»
«Cosa?» replico «No! Ho solo avuto un incidente, nulla di grave»
Lui prende un respiro profondo e sono certa che sta per sbottarmi contro.
«Ti devo chiedere scusa anche io»
La sua replica mi lascia spiazzata. 
«Cosa?»
«Mi sono comportato da testa di cazzo. Non avevo alcun diritto di introdurmi in casa tua e ho detto delle cose orribili su di te. Mi dispiace»
Annuisco, ricordando come le sue parole mi abbiano trafitto.
«Non avrei dovuto dire che non volevo più vederti» mormora poi, abbassando lo sguardo.
Vorrei accarezzare la sua guancia, poi i suoi capelli, ma temo che toccandolo si possa arrabbiare, come fosse un animale imprevedibile.
«Grazie per avermi ascoltata» dico poi e mi guardo attorno con aria imbarazzata: «Io...è meglio che vada...»
Nate annuisce, ma non sembra aver metabolizzato le mie parole.
Accenno un leggero sorriso e torno nel salotto.
Jay mi mostra i pollici sorridendo dal divano, così mentre esco dalla porta mi lasciò scappare una risatina.
 
 
«Ehi, Mila!»
La voce di Nate mi chiama dal falò. Cerco il suo volto tra quelli degli altri ragazzi sulla spiaggia e lo trovo seduto su un tronco ribaltato.
«Ciao» lo saluto avvicinandomi. Mi fa cenno di prendere posto al suo fianco, così mi siedo, sfiorando la sua gamba con la mia.
Questa sera profuma solo di menta. Niente alcol, niente sigarette.
«È da un po' che non ci vediamo» commenta.
«Due settimane mi sembra» 
Subito dopo la gioia per essermi riappacificata con Nate sono piombata nella spirale dello studio. Gli ultimi esami dell'anno erano alle porte e non potevo permettermi distrazioni.
«Ora sei una donna libera?» domanda Nate con un sorrisetto sulle labbra e negli occhi.
Rido: «Solo fino a che ricominciano le lezioni»
Lui alza lo sguardo verso l'oceano scuro, poi ritorna a guardarmi: «Ti va di fare due passi?»
Gli rivolgo un'espressione stupita: «Non sei ubriaco ad una festa e mi stai chiedendo di fare due passi da soli. Cosa ti è successo?»
Lui ride e scuote il capo.
«Voglio solo passare del tempo con te» sussurra nel mio orecchio.
Rabbrividisco, poi gli faccio un cenno di assenso.
Lui mi prende per mano, alzandosi in piedi, e mi conduce sulla riva.
Mi tolgo le scarpe, così da poter sentire l'acqua fresca che bagna la sabbia.
Nate cammina al mio fianco e di tanto in tanto sfioro il suo corpo con la spalla.
Non parliamo fino a che siamo abbastanza lontani dal falò da sentire solo voci indistinte.
«Ho ricevuto una proposta» dice Nate all'improvviso.
Mi volto a guardarlo. Lui fissa davanti a sé, con la fronte corrugata.
Si gira e mi guarda negli occhi.
«Ricordi quel progetto che ti ho mostrato?»
Annuisco. Nate è un genio della fisica, ma non è né famoso né ricco, quindi il suo nome non vale nulla. Molti hanno rifiutato il suo progetto nonostante sia un gioiello di meccanica. Non che io me ne intenda molto, comunque.
«Be', a qualcuno è piaciuto e mi vogliono assumere»
Sgrano gli occhi, sorpresa quanto entusiasta: «È una bellissima notizia»
«Già» commenta lui «Ma è a Chicago»
Le mie gambe si fanno di marmo. Non voglio muovere un altro passo.
Chicago non è così lontana, mi dico, ma so che ci vogliono due giorni di auto per raggiungerla.
«Mi chiedevo» riprende Nate «Se ti andrebbe di venire con me»
«Oh» è tutto quello che riesco a dire.
Lo guardò negli occhi, abbasso lo sguardo, poi ritorno a fissarlo.
«Io...non so...» mi ha volta completamente alla sprovvista, non me l'aspettavo.
«Aspetta, pensaci su, okay? È una decisione importante, no?»
Annuisco in silenzio e lui mi rivolge un piccolo sorriso.
Accenno un sorriso anche io, poi ci voltiamo e torniamo alla festa.
 
Nate
Riconosco Mila da lontano.
Sta camminando nella sua strada, con addosso abiti sportivi e immagino stia andando dalla sua amica, Clelia, per fare jogging insieme.
Rallento con la moto e mi fermo poco distante da lei.
Mi guarda sospettosa, poi quando mi riconosce, mi saluta con un sorriso.
Mi tolgo il casco e aspetto che si avvicini.
«Ciao» dice «come stai?»
«Bene, sto finendo di impacchettare le cose. Parto sabato mattina» un secondo di silenzio «Hai pensato alla mia proposta?»
Sbatte le palpebre due volte, con la sua aria da gattina.
«Io...sì, è solo che è...complicato»
Sento l'incazzatura che preme contro il mio petto, ma cerco di reprimerla e di ascoltarla parlare.
«Complicato?» ripeto, aspettando una spiegazione.
«Già» acconsente lei «Insomma, io ho una vita qui che non posso ignorare. C'è l'università, la mia famiglia, i miei amici...»
«I tuoi amici? Tu odi quelle persone!» replico.
Mila sospira: «Lo so, Nate, ma io sono nata e cresciuta qui ed è difficile abbandonare tutto»
Potrei mettermi a gridare, ma sembrerei solo un egoista che non sa accettare che gli si dica di no.
Davvero pensavo che avrebbe accettato? Che avrebbe detto "Fanculo la mia vita perfetta, io me ne vado con Nate"? Sono stato un idiota a credere che ci sarebbe stata una possibilità che lei rinunciasse ai suoi studi, alla sua casa, ai suoi conoscenti, all'approvazione dei suoi genitori, solo per seguire me.
«Mi dispiace» sussurra, con gli occhi bassi.
«Già, anche a me» replico «Ci vediamo»
Mentre mi rimetto il casco, lei appare indecisa, poi muove lentamente le gambe per allontanarsi e penso che questo sia il peggiore addio di tutta la storia.
 
 
 
I'm sorry to interrupt 
It's just I'm constantly on the cusp 
Of trying to kiss you 
I dunno if you, feel the same as I do 
We could be together 
If you wanted to 
 
 
«Ehi, Nate» chiama Jay «Abbiamo qualcosa per te»
Mi affaccio dalla mia camera, dopo aver controllato che tutto sia ben impacchettato e vedo i miei coinquilini fermi in cucina.
Sul tavolo è appoggiata una piccola torta con una scritta di glassa che recita: "Bye"
«Abbiamo dovuto scegliere una parola breve perché ci stavano poche lettere» si giustifica Jay «Però l'abbiamo fatta noi!»
Dalla forma del tutto asimmetrica e la scritta sbavata, capisco che non ci sono dubbi che sia opera loro.
«Grazie ragazzi» dico, quasi commosso.
«Devi prometterci che sarà il tuo primo pasto nella Windy City» esclama Mike allegro.
«Certo, ve lo prometto»
Impacchettano la torta e me la cacciano in mano.
«Su, non fate i sentimentali» cerco di sdrammatizzare «Ve l'ho detto: se trovo del lavoro anche per voi, ritorneremo ad essere coinquilini»
Jay mi abbraccia forte, come una mamma che non vuole vedere il figlio partire, mentre Mike mi dà un colpo sulle spalle.
«Ci mancherai» mi dice stringendo le labbra.
«Anche voi, ragazzi» replico con un sospiro.
Mi accompagnano giù per le scale del condominio, mentre raccomando loro di mandarmi le mie cose con il corriere. L'inconveniente di possedere solo una moto, è che non si può caricare di valige.
Scendiamo in strada, dove il mio mezzo mi sta aspettando, già carico oltre allo zaino che porto sulle spalle.
«Stai attento!» mi ripete Jay per la milionesima volta.
«La strada è pericolosa per un motociclista» gli fa eco Mike. 
Alzo gli occhi al cielo, divertito dalla loro preoccupazione.
Sono solo le sei di mattina, ma già si preannuncia una giornata calda e soleggiata.
«Nate?»
Mi volto di scatto.
Sul marciapiede c'è Mila. Indossa dei jeans e una giacca di pelle, e ha i capelli scompigliati.
Non me l'aspettavo.
Mi fa tenerezza pensare che si è alzata presto per potermi salutare.  
«Sto per partire» le dico.
Lei annuisce e avanza leggermente. Solo ora mi rendo conto dello zaino gonfio che porta sulle spalle.
«Ma cosa...» comincio confuso e lei sembra divertita dalla mia espressione.
Si avvicina ancora, fino a trovarsi al mio cospetto.
«È solo che sono costantemente sul punto di cercare di baciarti» dice «Non so se provi quello che provo io, ma potremmo stare insieme, se tu lo volessi»
«Vuoi partire con me?» le chiedo deglutendo.
Lei ride: «Pensavo l'avessi già capito»
Sul volto mi si apre un sorriso enorme e non riesco a trattenermi. La prendo tra le braccia e la bacio.
Alle mie spalle partono i commenti di Mike e Jay accompagnati dai loro applausi.
Stringo il volto di Mila tra le mani.
«Sei sicura?» le sussurro a fior di labbra.
«Per te è un problema?»
«Dio, Mila, no, assolutamente no. Non mi sembra vero»
Lei si solleva sulle punte dei piedi e mi lascia un bacio leggero.
«Partiamo?» domanda, impaziente.
«Come la mia signora comanda. Partiamo!»
 
 
   
 
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