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Autore: fiammah_grace    16/09/2016    1 recensioni
[Resident Evil: code Veronica X]
"Seppur la non fisicità di Alexia, la sua presenza era rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Nulla avrebbe avuto importanza per lui. Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Unica Donna, la sua Unica Regina. Persino se stesso.
Qualcuno tuttavia aveva osato disturbare la sua macabra attesa.
Claire Redfield. Il nome della donna dai capelli rossi che aveva invaso il suo cammino nel momento più prezioso. Il nome dell’infima donna che aveva sporcato l’universo perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel suo territorio.
Quella formica che gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare."

[Personaggi principali: Alfred Ashford, Claire Redfield]
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Alfred Ashford, Claire Redfield
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 15: la caduta delle maschere
 
 
 
 
 
Nelle cave d'insondabile tristezza 
dove il Destino già m'ha relegato,
dove mai entra raggio roseo e gaio,
dove solo con quell'ospite rude ch'è la Notte, 

sto come un pittore condannato
da un beffardo Dio a dipingere sulle tenebre, 
dove, cuoco di funebri appetiti, 
faccio bollire e mangio questo cuore, 

a tratti brilla, s'allunga e si distende
uno spettro fatto di grazia e di splendore. 
Ma quando assume la sua massima estensione, 

con quell’orientale sognante andatura,
allora si che riconosco chi mi viene incontro:
è Lei, la mia bella, nera ma sempre luminosa!
 
(Le tenebre - Charles Baudelaire)
 
 
 
 
Una luce soffusa rigò ferocemente la fredda pavimentazione di un ambiente grigio e umido.
Le pareti ormai ammuffite dal tempo impregnavano la stanza con il loro odore di chiuso.
Dal soffitto pendeva buona parte dell’intonaco che, come fogli strappati, rimaneva arricciato su di esso conferendo un che di sinistro a quel quadro visibilmente abbandonato.
L’unica cosa che poggiava sulle mattonelle impastate di polvere, era un lavandino sporco e dimenticato. Il rubinetto era arrugginito e da esso scivolavano scoordinate delle gocce d’acqua che battevano sul marmo emettendo un ticchettio angosciante.
A solcare la soglia di quella stanza trascurata, fu la figura tremante di un uomo che aveva perduto ogni certezza e che adesso vacillava in un buio desolato, suo unico compagno in quella vita addolorata.
Egli infilò le dita fra i capelli biondi, sollevando con violenza la femminile parrucca bionda che indossava, simbolo delle sue menzogne e delle sue paure.
La gettò brutalmente a terra, rinnegando con essa la sua maschera, non potendo più reggere quel peso che lo angustiava.
Si appoggiò al lavabo, gravando tutto il peso sui suoi palmi, come se cercasse di reggere il suo intero corpo.
Si aggrappò al lavandino necessitando disperatamente di un sostegno.
Il suo castello era crollato ancora una volta, come accadeva sempre, costantemente, condannandolo a guardare con i suoi occhi quella crudele realtà che lo aveva ormai reso folle.
Alzò il viso verso lo specchio scheggiato posto dinanzi e guardò con sdegno la figura dell’uomo che osò ricambiare i suoi occhi.
Quella figura oltraggiosa e deplorevole che aveva appena offeso la sua Regina.
Ormai in preda alla pazzia, sfilò i guanti bianchi buttandoli lontano da lui, in seguito girò il pomello del lavello e strofinò il viso con veemenza, bagnandolo con quell’acqua fredda e calcarea. Sciacquò finché il trucco che lo aveva reso somigliante e vicino alla sua amata sorella non scomparve dal suo volto, facendolo tornare a essere quell’Alfred Ashford solo e dimenticato.
Ansimante, stette a guardare il suo riflesso, con quell’espressione truce, tradita, delusa, che non faceva che osservarlo insistentemente a sua volta.
I capelli biondissimi che rigavano la sua fronte si appesantirono per via dell’acqua, così scivolarono lentamente sul suo viso, contornandolo. Attraverso quei radi filamenti biondi, egli scrutava riluttante la sua effige, rinnegando quanto aveva osato compiere, disonorando se stesso, la sua casa, il suo rango…Alexia…
In quell’istante, portò entrambe le braccia in alto, facendo per toccare dietro la schiena e afferrare l’abito che aveva profanato.
Le sue dita bianche e fredde si aggrapparono sul tessuto, tirandolo via e scoprendo la sua schiena nuda.
Egli volle spogliarsi di “Alexia” ; di quel folle e insensato travestimento, che oramai non aveva più alcun potere su di lui; non era più capace di alleviare le sue pene, il suo bisogno di affetto, calore, fisicità…
Rimase quindi nelle umili spoglie dell’uomo che si celava dietro quel losco travestimento, restando poggiato sul marmo bianco e impolverato del lavandino.
Si scoprì di tutto, limitandosi ad essere semplicemente Alfred, un uomo devoto e impazzito.
Seppur il freddo congelasse la sua pelle denudata, egli rimase in quella posizione per molto tempo, mentre il suo cuore batteva incessantemente fino a quando non riuscì quasi più a sentirlo.
Il biondo incurvò più profondamente la schiena e le scapole quasi fuoriuscirono dal suo corpo.
Strinse gli occhi, come per scacciare via dalla sua mente quel senso di profanazione che non riusciva a buttare giù.
Il silenzio regnava in quel bagno vuoto e desolato.
Un silenzio solenne, devastante, spezzato solamente dalle urla interiori dell’animo crucciato del biondo Ashford, che dentro di sé aveva l’inferno.
La sua mente cominciò ad essere così affollata da pensieri che a un tratto sembrò come svuotarsi del tutto, trasportandolo in un universo isolato, lontano da ogni cosa.
Egli chiuse gli occhi e respirò intensamente, dando tempo al suo spirito di calmarsi e tornare padrone di sé. In quell’istante sentì qualcosa pungergli all’altezza delle spalle e solo dopo aver avvertito quel dolore si ricordò del colpo d’arma da fuoco col quale era stato sparato da Claire Redfield.
Osservò in quella direzione e scrutò la garza che aveva temporaneamente usato per tamponare la ferita. Questa era ormai zuppa di sangue, doveva intervenire immediatamente prima di incombere in un’emorragia.
Alfred strinse i denti e delicatamente tirò via il cerotto che teneva ferma la garza sulla sua pelle marmorea, scoprendo così il foro del proiettile che aveva perforato la sua epidermide.
Quel punto era livido e sporco di rosso, tuttavia non sembrava una ferita profonda. Molto probabilmente l’osso doveva aver fermato il proiettile, dunque era in grado di cacciarlo via.
Rovistò dunque fra gli utensili custoditi nei mobili che contornavano la specchiera ed estrasse una custodia argentata finemente decorata.
Sembrava una scatola abbastanza antica, probabilmente era un oggetto d’antiquariato, dentro la quale era riposto un coltellino di valore. Esso poggiava in un rivestimento di velluto rosso, che impreziosiva ancora di più la sua apparenza costosa.
Il coltello era infatti costituito da una lama appuntita e luccicante, perfettamente conservata, il cui manico era realizzato in osso e argento, su cui era inciso il crest della famiglia Ashford: un’aquila con le ali spiegate, la cui testa era rivolta verso sinistra, e reggeva fra le sue zampe un’accetta dorata.
Il giovane prese il prezioso oggetto fra le dita, analizzandolo accuratamente prima di avvicinarlo crudamente a sé e fare per incidere la sua spalla.
Puntò con decisione la parte appuntita verso la ferita, dopodiché s’infilzò con l’arnese, stringendo saldamente i denti, sperando di fare leva presto sul proiettile in modo da estirparlo dalla sua carne.
Il sangue presto allagò quel taglio, che prese a sgorgare macchiando la sua pelle bianca e fredda.
In preda al dolore, Alfred serrò più saldamente la bocca, consapevole di dover insistere nell’infierire su quel taglio per la sua sopravvivenza.
D’altra parte, però, quel dolore mitigava velatamente il suo enorme disprezzo verso se stesso e i suoi tormentati sentimenti circa l’avvenente ragazza dai capelli rossi che recentemente aveva infangato il suo spirito.
In una visione malata e folle, soffrire era la punizione che desiderava per lenire in qualche modo la sua enorme angoscia; dunque dover affondare quella lama nella sua spalla per estrarre il proiettile rappresentava in quel momento una duplice salvezza: quella del suo corpo e quella del suo spirito.
Quando finalmente la porzione del bossolo si elevò da quel taglio, il biondo poté tirare un sospiro di sollievo.
Diede un’ultima spinta, mentre il rosso sanguigno colava sul bianco del suo corpo, e infine finalmente fu libero da quella tortura.
Il proiettile giaceva adesso imbrattato sul lavandino e l’acqua del rubinetto gocciolava sopra di esso.
Alfred si poggiò sfinito a quel lavabo, ansimando fortemente, avendo seria necessità di recuperare le sue energie.
Si incurvò con la schiena, esibendo il suo fisico allenato eppure denutrito e pallido.
Rimase poggiato per minuti, forse ore, mentre quel pianto interiore lo aveva trafitto ancora una volta, condannando la sua esistenza ad un supplizio senza fine.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Palazzo Ashford – Atrio
 


 
La giovane prigioniera di quel mondo dominato da fantasmi e follia solcava probabilmente per l’ultima volta la dimora del cavaliere ostinato che proteggeva la sua principessa addormentata.
Claire infilò la sua 9mm nella cintura, stringendo tra le mani la chiave reperita nella soffitta nascosta nella stanza di Alexia Ashford, decisa a compiere quell’importantissimo passo della sua esplorazione di quell’abitazione malsana e inquietante.
La chiave entrava perfettamente nel portone d’ingresso posto alla base delle scale che conducevano nei vari ambienti del palazzo Ashford, questo voleva dire che magari non aveva ancora trovato l’uscita, ma certamente avrebbe compiuto quel famoso ‘passo in avanti’ che pian piano l’avrebbe condotta verso l’agognata libertà.
Lei non si sarebbe mai accontentata di sopravvivere, quello che anelava era fuggire da quel posto, ricongiungersi a Steve e poi continuare le sue ricerche per trovare suo fratello Chris.
La rossa cercava sempre di tenere ben a mente i suoi scopi, questo proprio per non abbattersi e infervorare il suo animo a non mollare nonostante le tante avversità cui stava incombendo.
Ella strinse gli occhi, non potendo fare a meno di pensare al biondo castellano che stava perseguitando i suoi giorni.
Alla luce delle consapevolezze appena carpite, era stata coinvolta nella sua vita a tal punto da rimanerne in parte ingabbiata.
Sapeva che sarebbe successo.
Era consapevole fin dall’inizio che dietro un uomo così doveva per forza nascondersi un passato truce o dei turbamenti tremendi, così come del fatto che una persona dallo spirito sensibile come lei avrebbe finito per prendere a cuore i suoi affanni.
Eppure mai avrebbe pensato di sentirsi così.
Aver saputo di essere una causa diretta delle sue recenti pene aveva offuscato la sua mente per molti e lunghissimi minuti, rendendola incapace di concretizzare in modo obbiettivo le parole scritte su quel diario. Un diario che aveva aperto forse troppe porte circa i punti di comprensione di quel ragazzo fuorviato e devastato.
Lei agognava certo una chiave di lettura, ma non avrebbe mai immaginato di essere coinvolta emotivamente fino a quel punto.
Questo perché erano parole sue, Alfred le aveva scritte: lui aveva provato qualcosa per lei.
Era amore? Un semplice interesse?
Fatto stava che, in un’ottica traviata e corrotta come la sua, egli aveva rivisto in lei quella compagnia che gli era stata negata da quindici anni oramai.
Era solo un bambino quando si era approcciato umanamente a qualcuno e, in una visione contorta e fuori di testa, Claire aveva rappresentato quel contatto umano di cui lui aveva bisogno; di cui qualsiasi essere umano avrebbe bisogno.
Eppure, al contrario, ciò andava in contrapposizione con quello che lui considerava ‘rapporto umano’, e cioè distruggere, condannare, uccidere…
Alfred la combatteva e più volte era stato sul punto di riuscire a mettere fine all’esistenza della Redfield. Nonostante ciò, però, dentro di lui vigeva un curioso sentimento che lui aveva cercato di mascherare in ogni modo.
Aveva sperato di ingannare quel sentimento nato fuori da ogni logica, nato per il naturale istinto di contatto umano, con milioni e milioni di menzogne.
La menzogna di Alexia.
La menzogna delle torture.
La menzogna del piacere del male.
La menzogna dell’onore della sua stirpe.
La menzogna delle ricerche scientifiche dell’Umbrella.
La menzogna della pazzia.
La menzogna dell’inganno.
La menzogna di tutto quel crudele e folle mondo di cui si era circondato.
Tutto era stato creato in funzione di quel dolore che lui cercava di soppiantare da una vita: la solitudine.
Persino Claire aveva fatto parte, in fine, di quel circuito di raggiri, trasformata da lui in primis in Alexia, questo per far sentire ‘meno in colpa’ il biondo circa i suoi loschi sentimenti viscerali verso di lei, e poi in ‘donna traviatrice’, ‘L’Altra Donna’, che aveva corrotto il suo solenne rapporto con Alexia, l’Unica e Sola donna di Alfred Ashford.
Alfred era come se non avesse potuto sostenere il peso di amare profondamente sua sorella, e di provare un sentimento anche per altri esseri umani fuori da lei.
Per lui era fuori da ogni logica, era un comportamento deplorevole, che l’aveva portato a diventare particolarmente agguerrito contro di Claire, in modo da scacciare la sua minaccia e ripulire il suo spirito ‘infangato’ , come spesso lui diceva.
Claire portò una mano sulla fronte, angosciata da tali rocamboleschi problemi esistenziali.
L’affetto non è un sentimento esclusivo.
Si possono amare tante persone nella propria vita e in modi diversi.
Ogni essere umano ama i suoi genitori, i suoi fratelli e sorelle, i suoi amici, il suo fidanzato, fidanzata…
Sono tutti affetti forti ed autentici, non significa certo sminuire o banalizzare l’importanza che hanno le varie persone presenti nel proprio cuore.
L’uomo ha bisogno di essere sostenuto dai propri cari. Ha bisogno di……amare, di vivere con altre persone.
Sembrava però che questo non fosse comprensibile agli occhi di Alfred ed era qui il punto cruciale della sua pazzia: egli era incapace di vedere altro all’infuori di Alexia, terrorizzato dall’idea di allontanare la sua mente e il suo cuore da lei.
Se da una parte nei gemelli Ashford aveva visto finalmente un bagliore di luce, in cui due bambini si erano uniti in una tremenda solitudine e in una vita che li stava schiacciando, d’altra parte, quella stessa ancora di salvezza che l’uno aveva trovato nell’altro li aveva resi così morbosamente uniti da impedire loro di concepire la propria vita indipendentemente. 
Almeno così era stato per Alfred, il quale visibilmente si tormentava disumanamente quando ‘tradiva’ l’amore della sua Alexia.
Claire pensò intensamente a lui. Rievocò i momenti in cui si prendeva cura di lei quando era vestita da sua sorella; quando le si avvicinava nel sonno; quando la spiava e parlava con lei tramite gli altoparlanti nascosti in quel castello; quando le urlava in preda al dolore per essere stato ferito nel suo spirito; quando ‘giocava con lei’ facendola partecipare a teatrini, prove, nascondini…
Ripensò alla favola da lui raccontata, che rappresentava la sua vita tortuosa vissuta in funzione della sua ‘principessa’ Alexia. Gli affanni e gli ostacoli che, come un cavaliere, aveva e stava tutt’ora combattendo, rendendola partecipe della sua esistenza tormentata e solitaria.
Rievocò il momento in cui lui si travestì da Chris, suo fratello, nella speranza (o col dispetto) di farla sentire come lui…..
Eppure la ragazza fu in quel momento che fece caso al fatto che solo dopo il suo ‘rifiuto’ di comprenderlo egli decise di trasformarsi in Alexia.
Trovatasi fra le braccia di suo fratello, Claire si sentì profanata dal biondo Alfred nascosto dietro le sue spoglie, il quale manifestò ancora una volta il suo morboso interesse verso di lei.
Egli già in quell’occasione cercò di possederla, incitato probabilmente da quel caldo abbraccio cui inconsapevolmente Claire si concesse.
Tuttavia, angosciata dalla visione di suo fratello lussurioso verso di lei, ella scappò via rifiutando le attenzioni del già ferito Alfred, che sentì ancora una volta l’insostenibile peso dell’abbandono.
Così, dunque, si aggrappò a quell’unico grembo che aveva sempre rappresentato la sua ancora di salvezza, lasciando che fosse la sua Regina a vendicarlo e proteggerlo.
La sua versione come Alexia era stata infatti molto più crudele e sicura di sé, incitandolo a celebrare il suo dominio e la sua potenza.
Ed era stato così che alla fine aveva persino trovato il modo di ‘raggiungere’ quella felicità e quel tacito desiderio che si era sempre negato nella vita.
Questo perché, proprio perché trasformato nella Regina, Alfred aveva avuto la scusa per sentirsi forte e padrone…e manifestare il suo bisogno di amore a Claire Redfield.
La sua Alexia l’aveva ‘autorizzato’, facendolo sentire sicuro e protetto mentre si avvicinava alle sue labbra, sfogando la tormentata solitudine che da quando era un ragazzino di soli dieci anni lo stava distruggendo internamente.
Un appagamento emotivo così forte che alla fine l’aveva portato a tornare Alfred, sebbene ancora nelle spoglie di Alexia.
Eppure l’idillio durò ben poco, questo in quanto la sua Alexia lentamente sparì, lasciando solo quell’uomo ormai distrutto, incapace di sopportare una vita senza di lei.
Una volta tornato in sé, infatti, Alfred aveva respinto ancora una volta quel morboso desiderio di contatto umano che aveva gettato nella pazzia la sua vita, così era fuggito sentendosi nuovamente colpevole di tradimento…e odiando allo stesso tempo quel mondo che lo stava infangando, quel mondo che secondo lui distoglieva le sue attenzioni da Alexia.
Quel mondo…che era rappresentato in quel momento interamente da Claire, l’Altra Donna, che aveva aperto un sipario che lui agognava ma che allo stesso tempo rifuggiva.
Poggiando la fronte contro l’imponente e massiccio portone d’ingresso, Claire si chiese ardentemente se fosse ancora possibile aiutarlo, o se non altro instaurare un qualsiasi tipo di dialogo con lui.
Non se la sentiva di tirarsi indietro dopo quanto appreso sul suo conto, ma d’altra parte aveva anche paura…una grande e fortissima paura.
Paura di intrecciare il suo destino in una storia così complessa, in quell’universo contorto e malato dal quale doveva scappare ad ogni costo.
Cosa doveva fare? Cosa era più giusto?
Voltandosi indietro, ripensava sia ai suoi occhi impazziti e la sua mente perversa e malata, ma anche al suo volto corrucciato, triste e abbandonato.
Cosa aveva più importanza nel suo cuore adesso? Quale di queste immagini doveva prevaricare, indicandole come agire nei confronti di Alfred?
Claire strinse gli occhi, non accontentandosi che le cose finissero in quel modo.
Non riusciva in nessun modo a girarsi dall’altra parte e continuare come se nulla fosse, come se lei non avesse appreso nulla circa il perché dietro la pazzia di Alfred Ashford.
Semplicemente non poteva! Non faceva parte di lei comportasi così!
Seppur consapevole di quell’incoscienza, la rossa ripose la chiave del portone d’ingresso nella tasca dei suoi jeans, poi si voltò indietro alla ricerca del biondo Ashford.
La sua mente la martellava di domande, tutte inerenti a lui. Si chiedeva se fosse possibile aiutarlo, fare qualcosa per lui.
Al momento non sperava in delle risposte, quindi il suo unico interesse era capire fino a che punto il ragazzo avesse deciso di chiudersi in quella fortezza mentale.
Voleva risalire a quel punto crucciale, sebbene non avesse un piano ben preciso.
Probabilmente quando i due si sarebbero rivisti non avrebbe fatto nulla di che, in concreto, ma certamente adesso le cose erano cambiate e lei aveva deciso di voler “capire” quegli occhi irraggiungibili ed enigmatici, segnati dalla follia.
 
Intanto, da lontano, un uomo osservava i movimenti della donna, rintanato nell’oscurità.
 
Egli comprimeva le sue labbra contro le nocche delle dita, non avendo alcuna intenzione di rivelare la sua presenza.
Al contrario, aveva deciso di rimanere nascosto e di non cadere mai più in quel supplizio vergognoso in cui la meravigliosa Redfield l’aveva fatto precipitare.
Alfred strinse la sua candida camicia all’altezza delle braccia, strizzando il tessuto nei pugni, dopodiché abbassò il viso e spense il monitor dal quale la stava osservando, interrompendo così definitivamente le comunicazioni con Claire.
 
Non gli importava più nulla, voleva soltanto che lei sparisse dalla sua vita.
 
 
 
 
“L'uomo è quasi sempre tanto malvagio quanto gli bisogna. Se si conduce dirittamente, si può giudicare che la malvagità non gli è necessaria. Ho visto persone di costumi dolcissimi, innocentissimi, commettere azioni delle più atroci, per fuggire qualche danno grave, non evitabile in altra guisa.”
(Giacomo Leopardi)
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
“Dov’è finito?”
 
Sussurrò Claire interdetta, mentre la stanchezza cominciava a far vacillare la sua determinazione.
Erano ore che girava per quel castello, ma di Alfred neppure l’ombra.
Era…inconcepibile!
Prima, nonostante gli inconvenienti spesso accaduti, il biondo non faceva che tormentarla con le sue apparizioni improvvise o con quel rimbombante e fastidioso altoparlante, col quale non faceva che importunarla commentando i suoi progressi sull’esplorazione del luogo in cui era prigioniera.
Adesso che le serviva vederlo, o sentirlo, cosa accadeva? Ovviamente lui spariva!
La cosa l’indispose non poco, facendola sentire ridicola a cercarlo in lungo e in largo, non riuscendo a stabilire un qualsiasi contatto con lui.
Disposta a tutto pur di farlo uscire allo scoperto, ella puntò i piedi a terra e cominciò ad alzare la voce. Rivolgendosi verso una parte imprecisa del soffitto variopinto.
 
“Ashford! Dove ti sei nascosto? Sono ore che ti cerco, so che mi stai guardando!”
 
Le sue iridi azzurre esprimevano tutta la sua risoluzione, tuttavia a poco sarebbero valsi i suoi sforzi. Questo perché, nonostante le sue migliori intenzioni, il biondo non sarebbe mai venuto da lei…almeno non nelle circostanze attuali.
Claire comunque continuò a chiamarlo, imboccando i molti corridoi che si intrecciavano per la residenza, camminando a passò felpato, decisa a non rinunciare.
Il suo cuore prese a battere forte, non capacitandosi di dover accettare di ignorare le informazioni appena ricevute sul suo conto.
Se Alfred credeva che sarebbe bastato ignorarla per dimenticare il tutto, si sbagliava di grosso.
Lei non avrebbe demorso e avrebbe setacciato ogni angolo se necessario.
La determinazione della rossa, a lungo andare, non passò inosservata.
La sua voce acuta che chiamava il giovane arrivò finalmente ai timpani del ragazzo dai capelli color platino, il quale, celato dietro il sipario ombroso della sua messinscena appena interrotta, sussultò udendola.
Ancora assorto nel suo misterioso mondo personale, egli raddrizzò la schiena dalla sua poltrona e si diresse verso uno dei corridoi della sua abitazione.
Sobbalzò quando vide da lontano Claire, che pronunciava ossessivamente il suo nome.
Stette diversi secondi a contemplare la ragazza girata di schiena, che girovagava muovendosi nervosamente. Si chiese cosa volesse da lui, eppure non aveva alcuna intenzione di conoscere la risposta di quella domanda.
Abbassò i suoi occhi vitrei, tenendosi ben lontano da lei e da tutto.
Distrattamente il suo sguardo risaliva verso la fanciulla ed in cuor suo, pur non conoscendo le sue intenzioni, qualcosa di positivo si smosse nel suo animo quando realizzò che lei lo stesse cercando.
Tuttavia, per quanto una velata contentezza si delineasse dentro di lui, il resto del suo spirito lo costrinse a considerare quella donna una minaccia.
Così si eclissò nel buio, sparendo definitivamente, mentre tuttavia la voce della Redfield continuava a tartassarlo.
Strinse gli occhi, cercando di scacciare dalla sua mente ogni lontana tentazione di avvicinarsi a lei, così scappò via ancora una volta, cominciando a realizzare che probabilmente non avrebbe mai messo a tacere quella ragazza se non in un solo modo…
Claire, dal suo canto, abbandonò il suo peso sul muro, distendendo la schiena su di esso.
Era esausta.
Non sarebbe mai riuscita a comunicare col biondo in quel modo. Era evidente che lui la stesse evitando.
Doveva trovare un altro modo per riuscirci.
Incrociò le braccia e cominciò a riflettere.
Elaborò nella sua mente che quasi con ogni certezza lui non sapeva che avesse rinvenuto la chiave del portone principale.
Chissà utilizzandola cosa avrebbe trovato dall’altra parte, magari qualcosa che Alfred voleva tenerle nascosto recludendola in quel palazzo.
Forse in questo modo avrebbe attirato la sua attenzione, cominciando a frugare ancora una volta nella sua fortezza, oppure chissà…gli avrebbe dato fastidio che la sua “formichina” sarebbe scappata dalla gabbia.
Allo stesso tempo, egoisticamente parlando, la Redfield rifletté che valesse la pena approfittare del declino psicologico del ragazzo per esplorare con calma e attenzione la nuova location nella quale si sarebbe imbattuta oltre quella porta.
Non sapeva a cosa sarebbe andata incontro, non sapeva in quali inghippi sarebbe potuta incombere.
Ogni qual volta si era ritrovata in un’area nuova del palazzo, le era accaduto l’impossibile. Di conseguenza era un enorme vantaggio poter perlustrare con una relativa quiete i luoghi che avrebbe trovato oltre il portone d’ingresso.
Deglutì, ripensando al diario di Alfred circa il fatto di trovarsi in Antartide, presso i laboratori dell’Umbrella.
Tuttavia non aveva più tempo per indugiare e quello sembrava l’unico piano a sua disposizione per attirare il biondo e continuare la sua fuga disperata da quel luogo funesto.
 
 
***
 
 
Attraversare la soglia dell’imponente portone d’ingresso, collocato nel mezzo dell’enorme atrio del palazzo Ashford, sembrò surreale.
Il sonoro meccanismo che fece scattare la serratura echeggiò nell’aria, trasportando la giovane prigioniera in una dimensione sospesa; perché da quel momento in poi non sapeva cosa sarebbe accaduto.
Tutto ciò che aveva esplorato sarebbe stato lasciato alle sue spalle, oppure no?
Non poteva saperlo.
Il dubbio era quello che teneva in allarme il suo istinto. La paura della non conoscenza, dell’inaspettato. Tuttavia lei era pronta, non ci pensò nemmeno quando si inoltrò oltre quella soglia buia e polverosa che puzzava di chiuso.
Piuttosto, Claire si sorprese di quanto i suoi scopi fossero cambiati. Fu inquietante per lei costatare di star sì inseguendo la libertà, eppure la reale motivazione non era più quella in quel preciso momento.
Parte della sua mente era concentrata sul biondo altolocato comandante della U.T.F. di Rockfort Island e confidava che quel suo modo di gironzolare per la sua abitazione lo facesse adirare e quindi venire allo scoperto.
Non bisognava fraintendere, Claire desiderava ardentemente fuggire via. Era la sua priorità, era questo che muoveva le sue azioni. L’istinto di sopravvivenza.
Tuttavia, che cercasse di negarlo o meno, parte della sua coscienza sapeva delle illogiche motivazioni che la spingevano a proseguire.
Concepire un capovolgimento di ruoli simile la lasciò interdetta; era strano pensare che stavolta fosse lei a cercarlo ma non solo: che questa fosse una sua priorità.
La ragazza col codino non poteva fare a meno di ripensare a quanto letto nel diario di Alfred.
Aveva bisogno di vederlo.
Non voleva ottenere proprio niente, agognava solo interagire con lui e vederlo sotto un’aura diversa.
Quel mentecatto e meschino uomo dalla chioma platinata era la controversa fusione fra follia e bellezza, fra persecutore e vittima.
Non sapeva più da quale punto di vista osservarlo e proprio per questo era vitale per lei, in quel momento, attirare la sua attenzione. Sapeva che solo rivedendolo un’ultima volta avrebbe potuto capire chi era davvero per lei.
Claire aveva deciso di mettere a tacere la paura, quella prudenza che l’invigoriva a scappare da lui.
Questo per dare spazio finalmente al lato tenero e risoluto della donna che era in lei: una donna tenace e molto materna, che desiderava curare e guarire le ferite delle persone, allo stesso modo in cui lei si era cresciuta da sola ed era sopravvissuta alla morte innumerevoli volte.
La ragazza sapeva che non avrebbe potuto lottare per sempre contro quella preponderante parte di sé che la rendeva, oltre che un maschiaccio, soprattutto una fanciulla sensibile e altruista.
Avrebbe compiuto delle imprudenze, questo lo sapeva, ma avrebbe comunque fatto tutto ciò che era possibile per confrontarsi ancora con il problematico signor Ashford.
Perciò quando superò il portone d’ingresso e avanzò nel lungo cunicolo che trovò davanti a sé, era consapevole di quel dualismo emotivo che divideva il suo cuore, e aveva tutta la determinazione per affrontare quell’ambigua situazione e lottare.
Puntò dunque lo sguardo verso il tetro buio di quel passaggio, cercando di distinguere la strada in modo da non perdersi.
Si sforzò di tornare lucida e di concentrarsi. Quel che vedeva era il nero assoluto, non sapeva nemmeno dove mettere i piedi esattamente.
Inorridì quando improvvisamente si ritrovò sulla sua faccia una ragnatela piuttosto spessa. La scostò velocemente dagli occhi, rabbrividendo alla sola idea che il suo abitante potesse esserle finito addosso.
Questo perché Claire detestava i ragni, con tutta se stessa. Le facevano ribrezzo, non poteva nemmeno sopportarne la vista. Ne aveva affrontate di cotte e di crude negli ultimi anni, eppure ciò non aveva sconfitto quella sua fobia.
Vide per fortuna una torcia poco più avanti, la quale si distingueva grazie alla luce dell’atrio alle sue spalle. Essendo di legno, vi diede fuoco con l’accendino e potette quindi illuminare il sentiero.
Le venne la pelle d’oca quando poté scrutare il cunicolo in pietra polveroso dove stava avanzando, così denso di sporco che i suoi colori erano ormai indistinguibili.
La polvere si accumulava negli angoli e lungo tutta la pavimentazione rendendola ruvida. In più, voluminose tende di ragnatele pendevano ovunque dal soffitto, rendendo quello scenario come il sipario spettrale di un palco dell’orrore.
Seppur con qualche indugio, Claire dovette stringere i denti e addentrarsi, sperando in cuor suo che quella strettoia terminasse al più presto. Per la sua sanità mentale, decise di non guardarsi troppo attorno, ma di procedere con passo lento tuttavia costante in modo da evitare il terrore di incrociare qualche losco insetto da scantinato.
Fu lieta quando finalmente, fra quello sporco immondo, distinse una porta in lontananza.
Sporca di grigio sul viso e con il prurito a fior di pelle, spalancò gli occhi quando una tenue brezza, seppur sintetica, l’accarezzo una volta raggiunto quell’uscio.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
Residenza Ashford – fine
 
 
 
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Base Antartide dell’Umbrella Corporation – Giardino artificiale
 
 
 
 
Il cielo notturno e l’aria rarefatta e sintetica conferivano a quel paesaggio un che di diabolico e sinistro, proprio perché era impossibile non accorgersi della sua artificiosità.
In un ambiente interno, era più difficile percepire di trovarsi dentro un immenso colosso nascosto dentro una montagna dell’Antartide e che quindi persino le condizioni climatiche fossero alterate proprio per permettere la vivibilità in quel posto.
Tuttavia, contemplare dall’esterno quel complesso artificiale, rendeva più che evidente il tutto.
Claire si trovava in un giardino ombrato dal buio della notte, che altro non era che un enorme schermo che riproduceva quel tipo di atmosfera.
Ella alzò gli occhi verso l’alto, provando quasi angoscia nell’osservare quella trappola che faceva apparentemente credere al comune visitatore di trovarsi all’esterno. Era atroce, opprimente.
Il luogo in cui si trovava in quel momento, infatti, era tutt’altro che un piccolo giardino interno. Quel posto era una prigione, esattamente come tutti gli altri ambienti di quei laboratori.
La ragazza spostò lo sguardo dal cielo finto, ai vari elementi che caratterizzavano quell’ambiente.
Un sentiero di pietra occupava la maggior parte della pavimentazione, spezzata di tanto in tanto da piccoli spiazzali erbosi posti all’estremità, i quali erano perfettamente tagliati e curati, sebbene anch’essi sembravano finti.
Luccicante e placida, una fontana occupava il centro di quel giardino, la quale sembrava addirittura una piscina date le dimensioni. Dentro, si ergeva la statua di un vaso dall’apparenza molto antica.
Al di là di essa, Claire intravedeva una giostra che volteggiava su se stessa nonostante non ci fosse nessuno a cavalcarla. Essa era mossa probabilmente da un qualche meccanismo.
Questa era costituita da una piattaforma metallica, sulla quale erano adagiati soltanto due cavallini predisposti a essere cavalcati.
Claire si sentì strana quando pensò che Alfred e Alexia erano cresciuti in quel posto e quindi chissà quante volte dovevano aver giocato con quella giostra.
Fu un’immagine che si figurò spontaneamente nella sua mente, ora che vedeva quei bambini per quel che erano: due ragazzini sfruttati da un mondo che aveva cercato di usarli, che non avevano avuto la possibilità di vivere la loro infanzia coma due persone normali, circondati invece da gente che aveva fatto di loro due macchine meschine e inumane.
Era angosciante pensare che qualcuno davvero potesse arrivare a pretendere da una ragazzina di soli dieci anni certi successi, la quale in altro modo dovrebbe concepire la sua infanzia.
Claire vedeva quella giostra con i cavalli infinitamente vuota, come se la sua giocondità fosse stata usurpata da una vita invece costretta a vergere verso altro; verso un’ambizione che mai sarebbe dovuta appartenere a dei fanciulli.
Il suo sguardo si posò infine sulle colonne che costeggiavano il viottolo di pietra che costituiva il sentiero di quel giardino, le quali formavano una sorta di porticato dall’apparenza vagamente familiare.
I suoi occhi in quel momento si spalancarono, ricordando all’improvviso di quel posto.
Lei………..…in quel giardino…………….…c’era già stata!!! (*)
A un primo sguardo non se n’era accorta, fu solo dopo aver osservato attentamente quegli scorci che la sua mente fu capace di fare tale associazione.
La Redfield fu sorpresa di non essersene accorta prima.
Questo perché mai prima di allora i suoi ricordi come “La Falsa Alexia” erano stati nitidi.
Drogata e tenuta sempre sotto controllo, Claire riusciva a rimembrare pochissime cose di quel periodo, ove tutto era molto confuso e quasi non riusciva più a distinguere sogno da realtà.
Tuttavia in quell’istante rivide metaforicamente il tavolino bianco fatto sistemare appositamente sotto quell’arcata, ove aveva faticosamente sorseggiato del tè assieme a colui che in quel momento credeva suo fratello: Alfred Ashford.
Portò una mano sulla fronte, mentre la mente era ormai andata a ricollocare ogni tassello di quei ricordi frammentati, facendole rivivere stavolta con coscienza di causa quel che accadde quel giorno.
Ricordò quella sensazione di trovarsi all’esterno, quell’enorme spossatezza in corpo che aveva crucciato quei lunghissimi giorni; le sue mani tremanti e il biondo che le sorresse la tazzina; il suo modo di guardarla, discreto e attento a non farsi scoprire, probabilmente perché il mascheramento non era poi così ben riuscito e lui non faceva che rivedere il viso di Claire dietro quella bambola camuffata.
Fu scioccante per lei rivivere quell’episodio e costatare che non fosse poi passato molto tempo da allora.
Quella storia così assurda adesso aveva un senso logico, seppur nella sua pazzia. Claire non potette fare a meno di sentirsi fortemente turbata e coinvolta.
Prima di proseguire oltre l’arcata e lasciare il giardino, osservò alle sue spalle l’enorme palazzo Ashford, nel quale erano ormai custoditi ricordi che avevano toccato profondamente il suo spirito.
Imponente e maestoso, esso era la rappresentazione simbolica perfetta di una fortezza in cui sono custoditi e celati ricordi inaccessibili. O almeno non per chiunque.
In apparenza regale e immenso, dentro vigeva il caos più assoluto, ove i fantasmi e la follia avevano eretto i suoi muri.
Un luogo nefasto, eppure esclusivo e affascinante, al quale non poteva non rivolgere uno sguardo nostalgico e inquietato, ormai perduto nel buio dei suoi misteri.
Pronta a lasciare quel posto, fu spiazzata quando si accorse che un secondo palazzo giaceva di fianco a quello da lei appena abbandonato.
Un palazzo dall’aspetto pressoché uguale e che attirò ovviamente la sua attenzione.
Vi si avvicinò, paragonando insistentemente i due ingressi al fine di evidenziarne le differenze.
I suoi decori antichi e la sua aria imponente le ricordò assurdamente il portone da lei superato poc’anzi, nell’atrio della residenza Ashford.
Come immaginava, era chiuso ovviamente, ma ciò non la fermò nel tentare di dare almeno una sbirciata tramite la fessura della serratura.
Non c’era la chiave dall’altra parte, così poté guardare al suo interno per quel po’ che si poteva.
Sobbalzò quando si rese conto che oltre quel portone sembrava esserci….la villa appena lasciata!!
Ma…non era possibile!
Osservò alla sua sinistra e rivide la porta dalla quale era uscita attraverso il corridoio polveroso.
Non se l’era sognato, era dove l’aveva lasciata! Allora cosa significava quella ‘seconda villa’?
In effetti, alzando lo sguardo, gli edifici posti in concomitanza con quelle porte erano due, ed erano entrambi prestigiosi e grandissimi. Quindi era possibile che le due porte conducessero a due residenze diverse.
Si riaffacciò nel buco e scrutò meglio quel po’ che riusciva a vedere di quella seconda villa.
Le colonne che costeggiavano l’ingresso, le scale poste al centro….
Quell’atrio era la copia esatta della villa ove era stata imprigionata fino a quel momento.
Per qualche motivo quindi esistevano due palazzi Ashford identici. O quasi…
Purtroppo Claire non aveva in suo possesso la chiave, così da scoprire cosa effettivamente distinguesse quelle due abitazioni così apparentemente simili, dovette quindi allontanarsi e proseguire per la sua strada.
Non poteva fare assolutamente nulla al momento.
 
Una volta attraversata l’arcata del giardino, l’atmosfera cambiò drasticamente.
Si ritrovò in un corridoio metallico, il quale la pose di fronte a un bivio. Vi erano, infatti, una porta sulla sinistra e un ascensore sulla destra.
Pronta a scoprire se fosse davvero nei laboratori Artici dell’Umbrella Corporation, Claire provò per prima cosa a interagire con la tastiera dell’ascensore, tuttavia la mancanza della corrente le impedì di proseguire. Non le rimaneva quindi che la porta a sinistra.
La maniglia si abbassò e Claire potette inoltrarsi nel primo corridoio dei laboratori, costatando di persona dove si trovasse veramente.
 
La zona che ritrovò oltre quella porta metallica era fredda e sinistra, simile ad un moderno ospedale; nonostante sembrasse una struttura all’avanguardia, moderna e ancora in buone condizioni, era tuttavia disabitata.
Non che ne se sorprendesse più di tanto, in fin dei conti dopo il disastro di Raccoon City e quel che accadde sui monti Arklay, i laboratori dell’Umbrella erano stati tutti abbandonati per via del contagio.
Quel posto non doveva aver fatto una fine molto dissimile, dunque stette in guardia avvicinando la 9mm a sé, aspettandosi di imbattersi in delle b.o.w. in qualsiasi momento.
L’aria era impregnata in qualche modo dall’aura ostile con la quale lei aveva già familiarizzato ai tempi della distruzione di Raccoon.
Pungete e angusta, l’atmosfera lugubre degli uffici in cui l’Umbrella aveva regnato sovrana sapeva trasmettere anche a distanza di mesi la sua crudeltà e inumanità.
A fior di pelle, poteva sentire quel che era probabilmente successo fra quelle mura apparentemente tranquille.
Percorse il corridoio cercando di non lasciarsi sfuggire il ben che minimo indizio, tuttavia a differenza dell’abitazione Ashford appena lasciata, quel posto era decisamente spoglio.
Gli unici elementi che l’arredavano erano le luci di emergenza spente, le lampade al led che rivestivano il soffitto e due porte di acciaio, una posta lungo il tragitto, un’altra che chiudeva il corridoio.
Suo malgrado, sembrava che Alfred avesse messo in sicurezza quel posto. Infatti anche stavolta il percorso fu obbligato, essendo accessibile soltanto la porta posta in fondo.
Camminò con passo deciso, mentre nella sua mente quegli scorci richiamavano ampiamente i tipici luoghi di un laboratorio, confermando così quanto letto sul diario del biondo.
Tuttavia fu quel che trovò dall’altra parte della porta che diede conferma a quei sospetti.
Oltre la porta, una lunga passerella simile a una balconata delimitata da una ringhiera di ferro arrugginita percorreva un intero pianerottolo.
Il vuoto riempiva lo spazio restante, creando uno spazio aereo sorprendente, permettendo al visitatore di ammirare dall’alto l’intera panoramica dell’ambiente sottostante.
Affacciandosi, Claire non poté che confermare di trovarsi davvero nei lugubri e terrificanti laboratori dell’Umbrella Corporation.
Nella zona sottostante, i suoi occhi tremarono alla vista dell’enorme marchingegno posto al centro, utilizzato per fabbricare chissà quale arma batteriologica, oppure adibita al trasporto di esse.
Il macchinario occupava gran parte della stanza. Era spaventoso.
Tubi di acciaio si intrecciavano fra loro collegando quel congegno a varie aree della struttura.
Nonostante il buio non permettesse un’analisi più precisa, nelle vicinanze intravedeva delle porte tra le quali ne distinse chiaramente una con su scritto B.O.W. .
A quel punto non vi fu più alcun dubbio su dove si trovasse.
Fu raccapricciante passare da un ambiente domestico, sebbene eccentrico, a uno così arido come un laboratorio.
Davvero i gemelli Ashford avevano vissuto in quel contesto?
Dei gemiti sofferti si propagarono per l’ambiente, trasmettendo la desolazione che meglio si addiceva a quel luogo sinistro.
Essi provenivano dal basso e fu così che Claire si accorse della presenza di chi, oltre lei, solcava ancora quelle mura.
Questi, vestiti per la maggior parte con caschi protettivi e tute da lavoro, altro non dovevano essere che dei semplici operai, probabilmente rimasti vittima di quel mondo infausto allo stesso modo di come era accaduto a Raccoon.
La rossa stette a osservarli da lontano, con il cuore che batteva incessantemente, sentendosi intrappolata quasi esattamente come loro. Vittime di gente corrotta e crudele che non aveva valutato le conseguenze delle loro terribili azioni, condannando tuttavia anche gente innocente.
Non sapeva che ruolo potessero avere quegli operai all’interno dell’Umbrella, tuttavia vedere quei corpi debilitati e morti che vagavano nell’oscurità, capaci soltanto di sussurrare versi di dolore e di fame, non potette che lacerare il suo animo già provato.
Scostò le mani dalla ringhiera, dovendo a malincuore familiarizzare col nuovo ambiente.
Si guardò attorno, dunque, cercando di capire come proseguire. Sussultò quando tuttavia si accorse che la strada era bloccata.
La balconata, infatti, era crollata in un punto e la distanza che verteva fra una sponda e l’altra era troppa perché qualcuno potesse saltarvi. Presa dal panico, sbirciò dall’altra parte della voragine, dove proseguiva la balconata; lì vide ben tre porte. Una di queste era anche piuttosto vicina, a distanza d’aria, tuttavia non sarebbe mai stata in grado di raggiungerla per colpa della passerella rotta.
Cosa diavolo poteva fare?
L’unica cosa che poteva raggiungere dalla sua postazione era una cabina di comando che con tutte le probabilità serviva a muovere una gru posta sul soffitto, tuttavia a cosa le poteva servire in quella situazione?
Purtroppo a nulla…e anche volendo, la cabina di comando poteva essere azionata solo grazie a una chiave, la quale non era ovviamente in suo possesso.
Spaventata, ripercorse frettolosamente la strada già percorsa alla ricerca di un qualsiasi passaggio sfuggito alla sua attenzione.
Purtroppo le porte cui si era già imbattuta erano chiuse, nessun errore; stessa cosa riguardo eventuali dettagli sfuggiti a una prima occhiata.
Panoramica a parte del piano inferiore attraverso la balconata, Claire non poteva fare assolutamente nulla. Era bloccata!
Il panico la assalì, così prese a muoversi convulsivamente cercando ora più che mai di interagire con Alfred il prima possibile.
Intanto il freddo proveniente dalle distese innevate artiche che circondavano l’edificio cominciò a farsi sentire, costringendo la rossa ad abbracciare il suo corpo. Seppur il laboratorio fosse abbastanza climatizzato, la temperatura ostile e polare non poteva non raffreddare quell’ambiente abbandonato.
Doveva trovare una via d’uscita, un qualsiasi passaggio, ma ogni strada era irrimediabilmente chiusa!
Cosa doveva fare?!
 
 
 
***
 
 
Luogo sconosciuto – Palazzo Ashford
Zona residenziale
 
 
L’acqua scendeva copiosa.
L’uomo dai capelli biondi, assorto nei suoi silenti pensieri, lasciò che lo scroscio della doccia portasse via ogni suo dubbio, ogni sua paura; persino i ricordi che aveva vissuto quando il suo io si era sostituito a quello della sua prestigiosa sorella, Alexia Ashford.
Ritornato padrone di se stesso, necessitava di cancellare le tracce di quella controversa parentesi che aveva segnato in modo inesorabile il suo conflitto con la Redfield, smascherando una parte di sé che lui non amava ricordare, ne ammettere di possedere.
Desiderava dunque rilassare la sua mente e lasciare che l’acqua che scorreva sul suo corpo mitigasse il suo spirito disturbato, rimasto ferito dopo quella battaglia.
Il getto tiepido picchiava sulla sua fronte e in quell’attimo sembrava finalmente riuscire a non pensare più a nulla. Un’emozione di benessere lo pervase, inducendolo a dimenticare quanto fosse accaduto e quanto straziava il suo cuore.
Seppur precipitato nuovamente nel baratro degli incubi con i quali lottava oramai quotidianamente, lì per lì essere trasportato lontano da tutto lo beò a tal punto da desiderare che quel momento non finisse mai.
Aprì gli occhi e le sue iridi color cielo sembrarono diverse.
Non più crucciato come quando era con la sua prigioniera Claire Redfield, nel suo sguardo stavolta era dipinto qualcosa di diverso, qualcosa a lui più consono.
Lentamente, quelle lunghe ore passate da solo avevano permesso di trasformare quell’uomo frustrato in uomo adirato, pronto a compiere la sua vendetta e difendere il suo onore.
Era questo il suo compito, era questo il suo desiderio.
Uscì dalla doccia e avvolse il suo corpo in un lungo accappatoio color cremisi. Allacciò la cintura, dopodiché stette a guardare quel bagno lussuoso tramite il riflesso dello specchio appannato dal calore.
Sollevò una mano e con il palmo rimosse quell’ombreggiatura opaca che offuscava la visuale.
Stette in silenzio a contemplare la sua effige bagnata, osservando il suo sguardo adesso meno sofferto rispetto l’ultima volta in cui si era specchiato, sforzandosi di assumere una postura autorevole e impetuosa.
L’onore degli Ashford era ancora una volta nelle sue mani, e nonostante quel greve momento di difficoltà che egli stava affrontando, non esisteva che lui non avrebbe lottato a testa alta, com’era consono a quelli della sua famiglia.
Per lui non esisteva l’essere soprafatto da sentimenti esterni a quelli della sua famiglia, esterni dai suoi interessi e da Alexia, la sua amata sorella.
Dunque era suo dovere dare dignità a se stesso e tornare a vestire i panni del comandate quale lui era.
Si diresse dunque nelle sue stanze, dove si concesse un attimo di riposo prima di rialzarsi e tornare a combattere la sua dura battaglia.
Scese la sua vestaglia dalle spalle e infilò i pantaloni bianchi e la camicia di seta, annodandovi sopra una cravatta abbinata, che legò ad ascot. Si diresse verso l’armadio, dal quale tirò fuori la giacca della sua divisa militare, che montò sulle spalle curandone ogni minimo dettaglio.
Fece combaciare i bottoni dorati, sistemando bene il colletto ripiegato. Allacciò la cintura di cuoio nera in vita e subito dopo si avvicinò ad un porta gioielli sistemato su una cassettiera massiccia.
Da questa, prese i suoi preziosi decori militari, che fissò in modo schematico sul lato sinistro della sua uniforme seguendo un ordine ben preciso.
Fece tutto con estrema calma, volendo partire dal suo prestigio e decoro prima di tutto.
Sistemò i polsi e quando finalmente la sua effige fu ordinata, egli si collocò nuovamente davanti allo specchio, prendendo un pettine sottile e facendolo scorrere fra la sua chioma bionda, perfettamente tagliata. Tirò l’acconciatura indietro, com’era solito fare un lord, prendendosi tutto il tempo di cui necessitava.
Non voleva avere alcuna fretta, doveva essere perfetto.
Stette a scrutarsi a lungo, aggiustando ogni angolo che lui trovava imperfetto, sebbene chiunque, guardandolo, avrebbe faticato a comprendere cosa egli stesse tecnicamente sistemando essendo un uomo particolarmente curato, che teneva sempre in perfetto ordine la sua immagine.
Alfred aveva imparato a non trascurare mai il minimo dettaglio di sé. Ambizioso e insicuro, egli riversava nella sua immagine tutta la potenza e la sicurezza che doveva trasmettere, che soltanto ripristinata in modo impeccabile avrebbe rinvigorito anche in lui la sua autorevolezza.
Una volta finito, osservò la sua opera completata.
Era lì, di fronte a sé, che lo studiava dall’altra parte dello specchio.
Era la sua maschera più ardua da portare: se stesso.
Una devastante pesantezza pervase la stanza, nella consapevolezza che presto il sipario sarebbe stato alzato nuovamente. Il solenne silenzio di chi non può sbagliare e sente sulle sue spalle la responsabilità del successo e del fallimento.
La tensione di quel momento in cui nulla è ancora accaduto, dove ci sono solo attore e personaggio dietro al palco.
Alfred corrucciò il viso e impostò un’espressione dura, minacciosa.
Infine imbracciò il fucile da caccia adagiato sul muro, alzandosi poi dalla sedia posta di fronte la specchiera e facendo per abbandonare la stanza.
Aveva più di una situazione da sistemare e, ora che era tornato a presiedere la sua fortezza al posto di Alexia, aveva tutte le intenzioni di spazzare via ciò che di losco minacciava la sua esistenza e quella di sua sorella.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – laboratori
 
 
 
 
 
 
“Ehi! C’è qualcuno?”
 
Urlò Claire, sperando in una risposta, qualsiasi risposta, mentre il suo fiato condensava nell’aria.
 
“Per favore, qualcuno risponda! Non puoi lasciarmi qui dentro, Alfred!!”
 
Nessuno replicò alle urla della giovane, nessuna reazione si scaturì in seguito ai suoi disperati tentativi di uscire da quel vicolo cieco.
Ella era sola in quel freddo e tetro laboratorio senza vie d’uscita.
A Claire non rimaneva dunque che una scelta: lottare, fare il tutto per tutto per sbloccare quella situazione.
Decise di fare baccano, di scatenare un putiferio tale che nessuno non si sarebbe potuto accorgere di lei. Sbatté dunque rumorosamente quelle poche porte attraversate, cercò qualsiasi arnese o piccoli oggetti da gettare a terra in modo da creare frastuono, infine osservò il laboratorio sottostante alla balconata.
Il macchinario che occupava praticamente tutta la sala sembrava essere certamente costoso, chissà se Alfred finalmente sarebbe uscito allo scoperto se qualcuno l’avesse scheggiato o distrutto?
Impugnò saldamente la pistola e prese la mira, dopodiché una raffica di proiettili partì dalla canna, tutti diretti verso quel macchinario, i quali emisero disturbanti suoni metallici che confermarono l’andare a segno di quei colpi.
Sparò senza contegno, disposta persino ad esaurire le sue poche cartucce, questo pur di alterare il biondo e farlo uscire allo scoperto.
D’improvviso poi, un suono attirò la sua attenzione.
Claire distinse a stento quell’eco per via del suono assordante dei proiettili, accorgendosi solo in un secondo momento che era……..una voce?!
Disorientata, si affacciò dalla balconata e, da lì, una folta chioma castana ramata si fece velocemente distinguibile ai suoi occhi.
La corporatura slanciata, i pantaloni militari, la giacca a maniche corte blu notte, quell’atteggiamento sfrontato eppure in qualche modo tenero…
La rossa non potette crederci davvero, nonostante fosse proprio davanti a lei.
Era lui…era per davvero lui. Era vivo!
 
“Steve..?”
 
Lo chiamò tremante, ancora dubbiosa circa la visione appena avuta.
Dal suo canto, il ragazzo si mise al riparo fra i macchinari presenti nella sala sottostante, probabilmente perché non ancora accortosi di lei.
Quella scena fece sorridere Claire, la quale ricordò del loro primo incontro avvenuto grossomodo nello stesso modo; soltanto che a sparare era lui.
Si appoggiò alla ringhiera, sporgendosi appena, aspettando che il moro la riconoscesse finalmente.
 
“Non sparare!”
 
Gridò il ragazzo, facendo intanto per ricaricare le sue armi e affrontare il nemico insinuatosi inaspettatamente davanti al suo cammino. L’ultima cosa che si sarebbe aspettato, in quel momento, sarebbe stato udire una voce femminile a lui molto familiare.
 
“Steve!! Sono io, Claire! Sei vivo!”
 
Steve sgranò gli occhi, reagendo in modo molto analogo alla Redfield.
Egli stentò a credere di sentire davvero la voce della ragazza dai capelli rossi e dovette affacciarsi più volte prima di focalizzare la sua figura dall’alto della balconata e concretizzare il tutto.
Un sorriso si disegnò sulle sue labbra e sbandò quando a sua volta vide colei che quasi non sperava quasi più di rivedere.
Dopo che il jet privato degli Ashford era stato abbattuto, egli ricordava poche cose. Sapeva solo di aver ripreso i sensi e di essersi ritrovato in quel posto dimenticato da Dio, disperso nei meandri di qualche zona dell’Antartico, a quanto aveva avuto modo di capire dalle poche documentazioni reperite in giro.
Tuttavia, ciò che lo aveva preoccupato maggiormente, non era stato tanto il non sapere dove trovarsi. In fin dei conti a Rockfort aveva familiarizzato con la paura e la morte, dunque quei loschi laboratori non erano poi tanto differenti per lui. Raccapriccianti e macchiati di sangue lo erano entrambi e lui aveva toccato così da vicino la violenza che adesso nulla avrebbe potuto intimorirlo.
Quel che dunque l’aveva terrorizzato era stato l’essere di nuovo solo.
Claire era sparita e non sapeva dove diavolo fosse finita, se fosse fra le grinfie di quel pazzo Ashford, oppure se fosse accaduto il peggio…
Steve aveva perlustrato quei laboratori con la paura negli occhi. La paura di ritrovare davanti a sé la carcassa ormai morta della donna che aveva saputo rinvigorire in lui quello spirito di sopravvivenza che credeva ormai perduto. Lei aveva saputo riportarlo in vita, e molto di più…
Seppur non sapesse niente di lei, i sentimenti maturati per quella ragazza l’avevano legato a lei molto più di quanto gli fosse mai accaduto con alcuno.
Uscì quindi fuori dalla porzione di muro dietro la quale si era nascosto e alzò entrambe le mani, agitando con esse le machine gun che aveva fra esse.
La speranza si riaccese nei suoi occhi nel vedere la dolce Claire sana e salva.
 
“Claire!! Ti ho cercata dappertutto! Dove diavolo eri finita? Stai bene?”
 
La rossa sorrise, rivedendo lo Steve vivace di sempre.
 
“Sto bene. Sai per caso come uscire da questo posto?”
 
“Non ne ho idea, purtroppo. Sembra che anche questo posto sia legato all’Umbrella, ma è meglio parlarne più tardi. Rimani dove sei, conosco la strada per accedere alla balconata, dammi qualche minuto!”
 
“La balconata è crollata, non credo di poter passare. Dobbiamo trovare un’altra strada, purtroppo. Steve, ci sono molte cose che devi sapere, è una storia lunga e…..ATTENTO!”
 
Urlò all’improvviso la Redfield puntando l’indice in direzione del giovane, il quale si voltò tempestivo a quel richiamo e riuscì appena in tempo a crivellare di colpi il cranio di uno zombie avvicinatosi a lui.
Steve allargò entrambe le braccia puntando le sue machine gun in direzioni diverse, mentre il resto di quei dannati non morti si approssimavano, pronti a divorarlo.
 
“Steve, è pieno di zombie li dentro. Esci fuori! Troveremo un altro modo per ricongiungerci!”
 
“Accidenti…! Non ti lascio da sola! Aspettami Claire!”
 
La ragazza corrucciò il viso comprendendo i sentimenti del bruno, tuttavia consapevole che non c’erano altrimenti. Al momento dovevano separarsi per forza.
Strinse dunque gli occhi, comunicandogli quella sofferta decisione.
 
“Steve, me la caverò. Ti prego, non essere imprudente. Dobbiamo andarcene entrambi via da qui…vivi!! Io ti copro, ma tu esci fuori da questo laboratorio, è pericoloso. Ci sono troppi zombie! Non puoi affrontarli da solo! Stammi a sentire! Ti prego!”
 
A quell’ultima supplica della Redfield, Steve si ritrovò costretto a darle ascolto. Sebbene il cuore gli diceva di fare di tutto per continuare a starle affianco, era consapevole anche che al momento non sapeva come raggiungere l’altra parte della balconata del piano di sopra, dove invece lei si trovata. Doveva quindi stringere i denti e sopravvivere, ancora una volta. Era la sua priorità, perché da morto non avrebbe mai più potuto proteggere Claire.
Vedendolo fare per raggiungere l’uscita della stanza, Claire prese la mira e aiutò il ragazzo a sfuggire ai non-morti che strisciavano incontrollati verso di lui.
Partì il primo colpo, che fece cadere uno di loro, il quale rimase a terra dolorante. Terminarlo non era importante al momento, le bastava che non fosse nelle condizioni di attaccare Steve. Così prese di nuovo la mira e continuò a colpire il resto delle b.o.w. assieme al ragazzo che suo malgrado fu costretto a muoversi fra loro.
 
“Siamo nei laboratori Antartici dell’Umbrella e anche Alfred Ashford è qui. Dobbiamo trovare un modo per andarcene, al più presto! Devi trovare un mezzo o qualsiasi cosa.”
 
“D’accordo!”
 
Mentre la ragazza cercava di fare mente locale e mettere al corrente anche Steve delle poche informazioni apprese, improvvisamente l’intero edificio cadde nel buio più completo. Fu come un blackout improvviso che gettò nelle tenebre ogni cosa.
Sia Steve che Claire alzarono gli occhi, alla ricerca di una spiegazione, destreggiandosi a stento in quel nero soffocante.
 
“Cosa sta succedendo?”
 
Domandò lui, stranito.
 
“Steve! Gli zombie!”
 
Gli ricordò la rossa in apprensione, Steve così puntò di nuovo le armi dinanzi a sé, faticando a distinguere nel buio le figure zoppicanti delle b.o.w. affamate da mesi.
 
“Che cazzo è successo alla corrente?!”
 
Disse lui cominciando a sparare a raffica, non potendo individuare la perfetta ubicazione dei mostri, questo mentre la ragazza non poteva fare altro che guardare quella scena da lontano, cercando di aiutarlo come poteva. Tuttavia, da quella distanza, sparare al buio era troppo difficoltoso, avrebbe rischiato di colpire anche Steve!
Decise quindi che l’unica cosa che poteva fare era cercare di ripristinare la corrente in qualche modo.
Non poteva stare con le mani in mano e ora che si era finalmente ricongiunta con il ragazzo dai capelli ramati, non esisteva la possibilità di morire proprio adesso.
 
“Steve, cerco di vedere se riesco a ripristinare la luce. Qualsiasi cosa accada, stai attento! In qualche modo riuscirò a venire giù. Tu non preoccuparti, me la caverò!”
 
“Claire aspett..!!”
 
La fermò il ragazzo, preso al contempo dalla lotta contro gli zombie che affollavano la stanza dove si trovata, tuttavia la Redfield sparì dalla balconata prima che lui potesse finire la frase.
Egli strinse i denti, pronto a liberarsi la strada e fare di tutto per ricongiungersi a lei.
Ora che si erano ritrovati e sapeva che era viva, nulla avrebbe potuto fermarlo! Era carico come non mai!
 
“Levatevi di mezzo!!”
 
Urlò infervorato, questo mentre Claire ripercorse il corridoio, pronta a smantellare le serrature delle porte chiuse che erano intercorse sulla sua strada se necessario, pur di trovare un modo per aiutarlo.
L’oscurità era tremenda, non riusciva quasi a vedere niente!
Per fortuna aveva ripercorso quella strada così tante volte da averla ampiamente memorizzata anche al buio.
Mentre afferrò la maniglia di una delle porte chiuse, sbattendovi ripetutamente contro sperando di forzarla, una misteriosa presenza posta sul fondo del corridoio attirò la sua attenzione.
Fu una sensazione arcana, incomprensibile.
Un’aura indiscreta e maligna in breve tempo abbracciò nel suo malevole grembo ogni cosa, celando al contempo la sua evanescente presenza nell’oscurità appena piombata.
Eppure fu così forte da farsi notare, così prepotente da dirigere ogni attenzione su di sé, bloccando ogni pensiero, preoccupazione, paure, movimenti…tutto.
Una sopraffazione e un’invadenza capace di gelare il sangue e impregnare quelle mura da un istante all’altro. Una prepotenza in realtà a lei estremamente familiare.
Claire strinse gli occhi cercando di focalizzare quella figura, ben conscia di chi avrebbe rivisto. Quando questa si fece finalmente più nitida, essa si rivelò essere il tanto atteso burattinaio impazzito di quel palco della follia che lei stava cercando.
Dunque era stato lui a far scattare la corrente?
Egli, nella sua divisa scarlatta, con il fucile serrato fra le mani, la osservava silente dal fondo del corridoio, rimanendo immobile.
Claire, dall’altra parte, puntò lo sguardo contro la sua figura, sorpresa di rivederlo, finalmente.
 
“Alfred…”
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
*(Vedi capitolo.1)
 
 
 
NdA:
 
Ed ecco quindi svelata la reale location della Residenza Ashford nella mia fan fiction.
In pratica, ho elaborato una seconda villa molto simile a quella presente nei laboratori dell’Umbrella dell’Antartide; questa però è ubicata di fianco a quella conosciuta dal giocatore in code veronica, ed è stata costruita dal biondo gemello di Alexia per avere un luogo dove vivere con lei. Un luogo di “giochi” in cui avrebbero recuperato il tempo perduto in quei lunghi quindici anni in cui lei è stata ibernata.
Infatti, se pensiamo alla villa in Antartide presente nel gioco, ha poco a che vedere con una casa. Di “abitazione” ha in effetti soltanto l’atrio e le camere da letto dei due gemelli.
Quindi è abbastanza lampante che questo palazzo non sia che una copertura per nascondere i laboratori sottostanti in questa stessa zona.
Mi è venuto dunque spontaneo immaginare che Alfred avesse fatto costruire, nel tempo della criostasi di Alexia, questa zona vivibile tutta per loro. “Vivibile” ovviamente in gergo loro, secondo il loro gusto perverso e crudele.
Niente, volevo fare questa specificazione nel caso nella narrazione non fossi stata abbastanza chiara!^^
Grazie per aver letto!
Ci sentiamo al prossimo capitolo!!

  
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