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Autore: _Princess_    07/05/2009    35 recensioni
“Tom Kaulitz,” si presentò lui alla fine, stringendole la mano. Fu allora che l’attenzione gli cadde sul cartellino che lei aveva al collo. “Vibeke V. Wolner?” lesse.
“Si legge ‘Wulner’,” lo corresse lei rigidamente. “Sono norvegese.”
“Ah,” fece lui, dimostrando scarso interesse. “Posso chiamarti Vi, per comodità?”
“No.” Ribatté lei secca.
“La v puntata per cosa sta?” le chiese allora Tom.
“Non sono fatti tuoi.”
Si occhieggiarono con un accenno di ostilità. Vibeke seppe immediatamente che tra loro due sarebbe stato impossibile instaurare un rapporto civile.
[Sequel di Lullaby For Emily]
Genere: Generale, Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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“Scherzi?”

“No!”

“Tu scherzi!”

“No, ti dico!”

“Bill, tu stai scherzando!”

“Ti giuro sulla mia borsa di Gucci che è vero!”

A BJ a quel punto non restò che credergli sulla parola ed assumere un’espressione di puro sconvolgimento.

“Herregud!” (“Oh mio dio!”)

Erano seduti ad un tavolino nell’atrio deserto dell’elegante ala VIP dell’ospedale, davanti a loro le grandi vetrate affacciate sul giardino della clinica e sulla parte sud di Amburgo, che dominavano dall’alto del settimo piano. Bill aveva portato cappuccino e un gigantesco sacchetto di morbidi e gustosi fiori rosa, importati direttamente dall’America, e da qualche minuto, dopo i convenevoli rituali, si erano messi a discutere della situazione tra i propri fratelli. Bill gli aveva già parlato il giorno prima di quello che era successo allo studio, ma le succose novità che erano poi seguite avevano appena iniziato a sviscerarle.

“Assurdo, lo so,” convenne Bill, prendendo un marshmallow. Se lo infilò in bocca, immediatamente imitato dall’amico, che attendeva avidamente che lui continuasse a raccontare. “E poi Tom si è messo a urlare a squarciagola ‘Vi è la mia ragazza! Vi è la mia ragazza!’,” Deglutì. “Anche se io non credo che agli aborigeni australiani interessasse più di tanto.”

BJ, avvolto in una morbida vestaglia blu notte firmata Emporio Armani, si concesse una risatina trattenuta. Bill vedeva la sua salute migliorare ogni giorno e questo lo rincuorava, anche se il grosso cerotto bianco che gli avevano messo in sostituzione alle bende aveva comunque un aspetto poco rassicurante. Ma BJ stava bene e, come Vibeke non perdeva occasione di ricordare, da lì a pochi giorni sarebbe stato finalmente dimesso.

“Meno male che ci sei tu. Mia sorella non si degna mai di raccontarmi le cose veramente interessanti.”

Bill gli sorrise.

“Forse ce l’abbiamo fatta, sai?” gli confidò, fiducioso. “Li vedo convinti di quello che stanno facendo.”

BJ prese un generoso sorso di cappuccino, e quando lo posò fissò riflessivamente il bicchiere.

“Sono senza parole, lo ammetto,” disse, dopo qualche istante. “Tom è l’ultima persona che mi sarei mai immaginato al fianco di Vibeke, eppure… Sono un’accoppiata assurda, ma vincente, si direbbe.”

“Kaulitz e Wolner…” bisbigliò Bill fra sé, soppesando il suono di quelle due parole associate l’una all’altra. “E io che credevo fosse una combinazione ingestibile.”

“Mai dire mai, nella vita.”

Bill si abbandonò contro la sedia, sospirando.

“Già.”

Tom e Vibeke, ripeté dentro di sé, stranito. Tom e Vibeke. Tom e Vibeke. Tom… E Vibeke.

Sì, suonava proprio bene.

Tom Kaulitz e Vibeke Wolner. E un giorno magari saranno Tom e Vibeke Kaulitz, e io avrò tanti piccoli nipotini Kaulitz…

Un’improvvisa, agghiacciante consapevolezza congelò le sue fantasticherie: se mai Tom e Vibeke avessero procreato, in un remoto ed improbabile futuro, il risultato sarebbero stati dei figli dotati di personalità miste tra loro due, e si trattava di una prospettiva abbastanza spaventosa. Una sintesi genetica tra Tom e Vibeke doveva essere una creatura fatta di fuoco e argento vivo, testarda, permalosa, orgogliosa, irascibile…

Bill represse un brivido. Non era sicuro di volere dei nipoti così.

“Mi sarebbe piaciuto venire a trovarvi allo studio,” disse BJ ad un tratto, affranto. “Ma purtroppo sono prigioniero qui dentro per almeno un’altra settimana.”

“Vorrà dire che ci verrai a trovare per qualche concerto.” Suggerì Bill, cercando di rallegrarlo, e la proposta, in effetti, sortì l’effetto sperato: il viso pallido di BJ si illuminò di speranzoso entusiasmo.

“Sul serio?”

“Hai conoscenze influenti, no?”

“Oh, sì!” Con un’espressione felina, BJ si sporse in avanti, portandosi una mano accanto alla bocca con fare cospiratorio. “Non dirlo a nessuno, ma ho degli agganci con i Tokio Hotel.”

Bill sgranò gli occhi con enfasi.

“No!”

“Sì!” fece BJ. “E a quanto pare mia sorella se la fa con il loro chitarrista.”

Scoppiarono entrambi a ridere. BJ aveva una bella risata, limpida e spontanea, e quando rideva gli si formavano delle piccole rughe ai lati degli occhi. Bill aveva notato che da quando era stato ricoverato, aveva smesso di tenere la barba regolarmente rasata, e infatti diversi ispidi peletti biondi iniziavano a spuntagli qua e là lungo la mandibola e il mento. Bill pensò che quel dettaglio gli donava parecchio, chiedendosi come sarebbe stato lui, con la barba, ma l’idea non lo allettava particolarmente. Anche volendo, in ogni caso, a lui non ne era mai nemmeno spuntato nemmeno un accenno.

“Speriamo che duri.”

BJ annuì.

“Sì, speriamo davvero.”

Bill trovava vagamente bizzarro starsene lì a chiacchierare degli affari di cuore del proprio fratello davanti a cappuccino e marshmallows alla fragola, ma BJ era un tipo in gamba e si preoccupava di Vibeke come lui si preoccupava di Tom, e sicuramente potevano aiutarsi l’un l’altro ad aiutare quei due imbranati che si ritrovavano per fratelli.

“Sai,” rifletté. “Tom è stato con diverse ragazze, e ne ha conosciute un’infinità, e con alcune ci stava bene, ma è la prima volta che lo vedo felice di essere con qualcuna.”

“A Vibeke non è mai importato niente di quelli con cui stava. Ha sempre avuto il terrore della solitudine e dell’abbandono.” Il penetrante sguardo grigioverde di BJ si posò su quello attento di Bill. “Due paure piuttosto contrastanti, capisci? È sempre stata una frana a gestire i sentimenti. Se per Tom ha trovato il coraggio di affrontare se stessa, la cosa deve essere seria.”

Bill sospirò.

Il problema è un po’ quello, si disse. Tanto più la cosa era seria, quanto peggiori sarebbero state le conseguenze del più piccolo errore.

“Ad essere sincero è proprio questo che mi spaventa un po’.”

“Dici che combineranno per forza qualche casino?”

“Be’, quando fai una cosa per la prima volta, è logico che il risultato sia un po’ scarso… Bisogna prenderci la mano.”

“E quei due non hanno nemmeno cominciato.”

“Esatto.”

“La situazione è delicatissima. Vanno tenuti d’occhio.”

“Ah, tranquillo,” lo rassicurò Bill, fiducioso. “Io e i ragazzi li monitoriamo da prima che si accorgessero di stare insieme.”

“Deve essere bello avere degli amici che si occupano di te e di tamponare le tue cazzate.”

Bill batté le ciglia con aria interrogativa, percependo delle note di rimpianto in quelle parole.

“Sai,” riprese BJ, affrettando una risatina leggera. “Predico tanto a Vibeke, ma alla fine nemmeno io sono granché incline ad affezionarmi veramente alle persone.”

A Bill non sembrò strano come avrebbe potuto apparire a qualcun altro: ogni volta che lo aveva visto, lo aveva sempre trovato circondato da interi capannelli di persone, ma avere folle intere al seguito non significava necessariamente non sentirsi mai soli. Anzi.

Quello che ancora non sapeva era il motivo per cui BJ e Vibeke avessero questa sorta di blocco nei confronti dell’affettività.

“E come mai?”

“Oh, è una lunga storia.”

“Raccontamela.”

BJ gli scoccò un sorrisino di rimprovero.

“Se te la senti, intendo.” Precisò Bill, mortificato. Non aveva avuto nessuna intenzione di sembrare sgarbato ed impositivo; il problema era che era troppo abituato a dare ordini per ricordarsi dell’educazione, in certi frangenti.

BJ, però, non sembrava essersela presa male. Prese un paio di marshmallows dal ricco sacchetto e li fece sparire in un sol boccone, poi bevve un po’ di cappuccino e tacque per qualche istante. Quando tornò a guardare Bill, c’era una insolita ombra solenne sul suo volto.

“Sono passati tanti anni ormai…”

Bill non seppe quanto a lungo BJ parlò. Lo ascoltò soltanto, senza fiatare, apprendendo via via informazioni che gli aprirono gli occhi su diverse questioni.

BJ gli raccontò della propria madre naturale, una donna fredda e severa, e di come, quando lui e Vibeke erano piccoli, lei avesse abbandonato la propria famiglia senza alcuno scrupolo per seguire il proprio giovane amante negli States. Sapeva che Vibeke aveva confidato a Tom di avere una matrigna, tempo prima, ma non aveva mai osato chiederle altro, per evitare il rischio di toccare tasti delicati. Vibeke aveva fatto la donna di casa per quattro anni, finché il padre si era risposato con l’attuale moglie, Sissel Lerø, e tutto aveva cominciato ad andare meglio. Ma a lui e Vibeke era rimasto l’amaro in bocca per tutti gli anni infelici vissuti in quella casa, e quando lui le aveva detto di essere determinato ad andare a cercare fortuna i Germania, lei non era stata capace di separarsi da lui. In cuor suo, Bill era cosciente che la fortuna l’avevano trovata davvero: BJ, grazie al proprio fascino e all’irresistibile carisma, accompagnati ad un notevole talento, era riuscito a diventare una celebrità affermata nel giro di un paio d’anni, finendo così per conoscere altre celebrità, tra cui proprio Benjamin, con cui aveva stretto amicizia molto in fretta. Per quel che riguardava Vibeke, Bill non aveva ancora capito se il destino avesse deciso di condurla fino a loro con un intento preciso o se avesse solo voluto giocare con il fuoco, ma una cosa era certa: erano tutti felici che fosse successo.

“Mi chiedo se Tom le sappia tutte, queste cose.”

“Probabilmente ne sa anche di più,” gli rispose BJ, sicuro di sé. “Mia sorella forse non lo ammetterà mai, ma si fida di lui, e io so che si è aperta molto di più di quello che vuole far credere.”

Bill avvertì una spiacevole sensazione rosicante allo stomaco. Vibeke gli era sempre piaciuta, anche quando, all’inizio, lo trattava con sufficienza, ma era dura prendere atto del fatto che ora c’era un’altra presenza importante nella vita di Tom.

“Cosa farebbero senza di noi?”

BJ gli rispose con un sorriso:

“Quello che faremmo noi senza di loro: niente di niente.”

Bill non ebbe nemmeno il tempo di sorridere di rimando. Capì che era arrivato qualcuno prima ancora di vedere o udire qualcosa: alle narici gli era improvvisamente arrivata una zaffata di profumo troppo forte che gli aveva fatto arricciare il naso; lui e BJ si erano voltati simultaneamente ed avevano trovato una giovane infermiera che stanziava sulla soglia della sala. A Bill non piacque: era magrissima, con un uniforme rosa pallido e i capelli biondi e crespi raccolti in una coda di cavallo. Era carina, ma il modo compiaciuto in cui li guardava – come se desse per scontato che loro dovessero ammirarla – gli diede sui nervi.

“Oh, scusate,” esclamò, portandosi affettatamente una mano al petto. Aveva una voce acuta e squillante, e rivolse a Bill uno sguardo fulmineo tutt’altro che amichevole. “Non volevo disturbare.”

Raccontalo a qualcun altro, commentò lui fra sé, mentre lei non osava muoversi da dov’era, seppur chiaramente tentata.

“Ciao, Linda,” la salutò BJ, cordiale come suo solito. “Avevi bisogno di qualcosa?”

La ragazza sfoggiò uno sfolgorante ed impeccabile sorriso a trentadue denti.

“Volevo solo ricordarti che tra mezzora hai i controlli di routine.”

“Va bene, grazie.”

“Bene. Riferirò al dottor Leven.” Fece lei, ma non accennò ad andarsene.

“Bene.”

“Perfetto.”

Nonostante gli impliciti ma ovvi inviti ad andarsene che BJ le stava comunicando, Linda pareva troppo occupata a mangiarselo con gli occhi per badarvi.

“Linda, ho compagnia, come vedi,” le fece presente BJ, con garbo. “Ti spiacerebbe…?”

Una nuova occhiatina feroce piovve su Bill da parte della giovane infermiera, ma venne quasi immediatamente eclissata da un pronto ripristino del sorriso ammaliante.

“Oh, sì, scusate,” Il suo tono dispiaciuto non era minimamente convincente. “Lei e la sua amica avrete molto di cui parlare.”

Bill aggrottò la fronte, irritato.

Possibile che anche senza trucco mi debbano scambiare per una ragazza, e in patria, per giunta? E questa in che mondo vive? Sono Bill Kaulitz, non il primo che passa per strada!

“Veramente io non –”

“Grazie di essere passata,” lo interruppe BJ, rivolgendosi a Linda senza fare una piega. “Ci vediamo.”

“Sì,” La delusione dipinta sul volto della ragazza fece quasi scappare da ridere a Bill. “Ci vediamo.”

Quando i suoi passi che si allontanavano nel corridoio furono abbastanza lontani, Bill si voltò per studiare il proprio riflesso nella finestra: era pallido, ma un po’ di colore gli tingeva le guance, e gli occhi privi di trucco gli sembravano ancora gonfi come quando si era appena alzato, ma gli sembrava impossibile che qualcuno potesse prenderlo per una ragazza. Ma forse era perché lui sapeva chi era.

“Che smacco, povera Linda.”

Bill tornò in sé, ma non comprese l’osservazione di BJ.

“Come, scusa?”

“È da quando sono stato ricoverato che lei e le sue colleghe mi ronzano intorno speranzose. Avranno una crisi isterica quando andrà a raccontare che ero qui, immerso in una conversazione intima con una bellissima spilungona sexy.”

Bill si sentì arrossire. Non si era ancora abituato del tutto alla completa incuranza di BJ nell’esternare i propri pareri: diceva sempre quel che pensava e non usava mai mezzi termini o giri di parole.

“Non sapevo che le infermiere adesso le pagassero anche per molestare sessualmente i pazienti.”

BJ rise sommessamente.

“Bill!”

“Ma è vero!” protestò Bill con veemenza. “E ti ha dato anche del tu!”

“Mi fa impressione farmi dare del lei.” Rispose BJ, scrollando le spalle.

Bill trovava il suo accento davvero curioso. Non era nemmeno un accento vero e proprio, in realtà, ma quella sua r così insolitamente liquida e dolce suonava bene alle sue orecchie, abituate alla dura pronuncia tedesca.

“Lo so,” gli disse, concorde. Farsi dare del lei a vent’anni era davvero poco simpatico. “Anche a me.”

BJ lo scrutava pensoso, un marshmallow accostato alle labbra chiuse, gli occhi leggermente socchiusi in un sorriso.

“Mi piace il tuo modo di pronunciare le s, sai?” osservò ad un tratto, mordicchiandosi distrattamente il dolcetto tra i denti. “Era un complimento, Bill.” Aggiunse, divertito, vedendolo esitare.

“Oh,” Bill si schermì con una risatina imbarazzata. “Be’, grazie.”

“Quanto vorrei che tu venissi tutti i giorni,” sospirò BJ, accarezzando con devozione la plastica della confezione di marshmallows. “Qui dentro tutti mi trattano come se fossi la regina d’Inghilterra.”

“La tizia di prima non ti guardava esattamente come guarderebbe la regina d’Inghilterra.”

“Un regina d’Inghilterra maschio, giovane e attraente, allora.”

“Dimentichi ‘in veste da camera’.”

“Giusto,” annuì BJ, serioso. “Hey,” aggiunse poi, abbassando lo sguardo sul tavolo. “Ci siamo divorati quasi tutti i fiori rosa.”

In risposta alla sua espressione delusa, Bill allungò un braccio verso la sedia accanto a sé, per afferrare la propria borsa.

“Ne ho un sacchetto più piccolo, qui,” lo tranquillizzò, facendo comparire una nuova confezione. “L’avevo preso per me, ma sinceramente credo di averne mangiati un po’ troppi.” Lo porse a BJ, i cui occhi brillarono di entusiasmo. “Prendilo tu,” gli intimò, in tono solenne. “Ne hai più bisogno di me.”

BJ non fece complimenti: accettò il lucido sacchetto di buon grado, imitando la solennità di Bill, e se lo strinse tra le braccia. Bill non si sarebbe mai capacitato di quanto gli occhi suoi e di Vibeke potessero essere così identici nell’aspetto e così diversi nell’espressività. Anche lui e Tom erano così, o almeno questo era quello che diceva loro la gente, ma lui non aveva mai notato la differenza.

“Grazie, Bill,” gli disse BJ, più serio. “A te e agli altri. Per questo e per tutto il resto.”

“Allora,” fece Bill, con forzata noncuranza. Non era molto bravo a recitare. “Com’è?”

“Che cosa?”

Il sorriso furbo che finora Bill era riuscito a trattenere emerse senza più costrizioni.

“Avere degli amici che si occupano di te.”

BJ non rispose. Restituì semplicemente il sorriso, nascosto dietro al bicchiere formato take-away del cappuccino.

“Mi sdebiterò, promesso,” disse dopo un po’, riabbassando il bicchiere. “Un giorno o l’altro vi invito tutti a cena.”

“Cucini tu?” scherzò Bill, ripesando ai commenti di Vibeke sulle abilità culinarie del fratello.

“Sai che in effetti è una cosa a cui sto pensando da un po’?”

“Cucinare?”

“Sì. Proprio l’altro giorno stavo dicendo a Vibeke che mi piacerebbe iscrivermi a un corso di cucina, appena esco di qui.”

“Un corso di cucina?” gli fece eco Bill, perplesso.

“Sì!” confermò BJ, entusiasta. “Dopo essere quasi morto, mi è venuta voglia di aprire un po’ gli orizzonti, sai…”

A Bill piaceva l’idea di avere per amico un mago della cucina, perciò fu decisamente favorevole all’ispirazione di BJ.

“Se avessi bisogno di qualcosa, qualunque cosa, facci uno squillo, ok?”

“Di questo passo ce ne vorranno mille, di cene, per sdebitarmi con voi…” sospirò BJ, ma con briosa ironia.

“Mi toccherà proprio accettare tutte e mille le volte, o rischierei di offenderti, giusto?”

“Giustissimo. E poi voglio assolutamente assistere a una litigata di Vibeke e Tom dal vivo!”

Bill, che adorava prendersi cura delle persone a cui era affezionato tanto quanto adorava che loro si prendessero cura di lui, si ritenne soddisfatto della giornata. Sperava che ci fossero tanti altri giorni, a venire, in cui lui e BJ potessero spettegolare alle spalle dei propri fratelli.

Sempre ammesso che quei due incapaci non si ammazzino prima…

 

***

 

Vibeke chiuse la Golf e si aggiustò la borsa sulla spalla, incamminandosi verso l’ingresso del Bleichenhof, il miglior centro commerciale di tutta Amburgo. Doveva comprare un po’ di cose di prima necessità per i ragazzi e cercare un nuovo paio di jeans per sé. Sperava solo che all’alba delle quattro di un sabato pomeriggio così bello e caldo non ci fosse molta gente disposta a rinchiudersi là dentro.

A una decina di giorni di distanza dalla sua fatidica visita allo studio, non riusciva ancora a capire molto bene cosa stesse succedendo. Un giorno lei e Tom erano mezzi sconosciuti che si davano addosso come bambini infuriati, il giorno dopo erano sdraiati l’uno nelle braccia dell’altra a parlare di coccole. Non aveva alcun senso, eppure era così che era andata e continuava ad andare, come se la loro fosse una storia formato Dottor Jekyll e Mister Hyde. Una coppia normale si sarebbe frantumata dopo pochi giorni di variazioni così repentine, ma per loro sembrava essere un punto di forza.

Vibeke varcò le porte del supermercato con il sorriso sulle labbra.

Il famoso episodio della Tokio Hotel TV che milioni di fans avevano atteso tanto a lungo era uscito quella stessa mattina, e lei aveva provato un piacere perverso nel vedersi filmata assieme ai ragazzi, soprattutto nella parte in cui Tom la stringeva a sé per presentarla al pubblico. Era stata censurata, ma chiunque la conoscesse avrebbe potuto facilmente riconoscerla. Del resto era una che di segni particolari ne aveva da vendere.

Passò di fronte alle vetrine delle marche più prestigiose senza nemmeno fermarsi a guardarle. Era tutta roba troppo costosa per le sue tasche, e comunque, anche volendo, non sarebbe mai riuscita ad entrare in quelle taglie impossibili. Il suo negozio preferito era lo Scary Miss Mary, miniera d’oro per i cultori dell’alternativo, ma anch’esso un po’ caro. Ci avrebbe fatto un salto dopo, se le fosse avanzato un po’ di tempo. Aveva appena preso un cestino dalle alte pile all’ingresso del supermarket, quando la melodia di Labyrinth dei Cure la avvertì che qualcuno le stava telefonando.

‘So say it’s the same house
And nothing in the house has changed
Say it’s the same room
And nothing in the room is strange…’

Recuperò il cellulare dalla borsa e controllò il display: il numero era privato.

“Hei?” (“Pronto?”)

“Hei, det er jeg! Hvor er du?” (“Ciao, sono io! Dove sei?”)

A Vibeke occorse un attimo per capire perché quelle parole le suonassero tanto strane: era la voce di Tom. Nello specifico, la voce di Tom che le parlava in norvegese, anziché nel solito tedesco. Non ci aveva fatto subito caso, per lei l’una e l’altra lingua erano naturali, ma era buffo sentire Tom che parlava un’altra lingua.

“Kaulitz?”

“Che ne dici del mio norvegese?” si pavoneggiò lui. A Vibeke parve quasi di vederlo sorridere.

“Fa progressi,” fu costretta ad ammettere. Non si sarebbe mai immaginata che Tom avesse assorbito qualche nozione di norvegese, in quei mesi. “Sono colpita.”

“Allora, dove sei?”

“Appena arrivata al supermercato per fare la spesa a quattro disgraziati non autosufficienti.”

Tom ignorò la provocazione e la carezzò con un tono suadente:

“Cosa ne diresti di tornare a casa dal tuo Kaulitz preferito?”

Vibeke roteò pazientemente gli occhi, passeggiando tra gli scaffali.

“Oh, scusami, Bill, ti avevo scambiato per Tom!”

Se la rise sotto i baffi nel mezzo secondo di indignata esitazione che giunse dall’altra parte.

“Vi, vaffanculo!”

Lei non seppe risparmiarsi una risata.

“Autoironia, Kaulitz: ne hai mai sentito parlare?”

“Vieni a casa o no? Gli altri sono fuori fino all’ora di cena, abbiamo l’appartamento tutto per noi.”

Lei controllò l’orologio. Se avesse rinunciato allo shopping personale, avrebbe potuto cavarsela relativamente in fretta

“Penso di essere lì tra un’oretta, salvo traffico imprevisto.” Gli concesse.

“Mi farò trovare pronto.” Le rispose lui con malizia.

“Speriamo che Tom non ci scopra.” Lo punzecchiò lei.

“Fidati,” replicò lui, sornione. “Scoprirti sarà la prima cosa che Tom farà appena ti metterà le mani addosso.”

Vibeke scosse la testa, rassegnata. Si era lasciata conquistare da un ragazzino esaltato e sopportare le sue cavolate era il prezzo da pagare per quell’imperdonabile distrazione. Distrazione che peraltro la aveva resa felice come mai si sarebbe abbassata ad ammettere, ma quello non era che un effetto collaterale imprevisto.

“Staremo a vedere,” ribatté, sostenuta, poi lo salutò: “Vi sees, idiot.” (“A dopo, idiota.”)

“Vi sees, stronza.”

Chiusa la chiamata, Vibeke mise via il cellulare e si guardò intorno, calcolando che forse, tutto sommato, poteva anche farcela in meno di un’ora.

 

***

 

Quando Gustav era sceso dalla sua BMW, aveva intuito, a istinto, che qualcosa non andava. Era stato un brivido inspiegabile, una sensazione sgradevole, ma lo aveva distintamente avvertito, e quando, avvicinandosi al punto del parco in cui si era dato appuntamento con Fiona, la vide seduta sul bordo della fontana, immobile, con una faccia scura che non era da lei, ebbe la conferma di tutto.

Se il problema era quello che pensava lui, poteva scordarsi la rilassante ora di jogging per cui era andato lì.

Quando lo vide arrivare, Fiona si alzò in piedi, vestita di tutto punto, con jeans attillati e camicetta nera, ed era chiaro che non era andata lì con l’intenzione di fare jogging. Parecchi ragazzi, passando, le lanciavano occhiatine di apprezzamento, ma lei non guardava che lui, ostile e minacciosa, rigida ed impettita.

Pur prevedendo cosa sarebbe successo, Gustav decise di salutarla con naturalezza.

“Ciao…”

‘Nulla di rilevante’, vero?!” esclamò lei, senza nemmeno lasciargli il tempo di chiudere la bocca. La rabbia più feroce le contorceva il viso in una smorfia furente. “Nulla di rilevante, eh, Gustav? Nulla di serio, nulla che valga la pena di essere considerato, nulla che significhi qualcosa di più di una scopata!”

Lo sapevo, si disse lui, afflitto, lasciandosi vessare impotente dal suo inveire. Lo sapevo che sarebbe finita così.

In un certo senso, era la prova finale che gli serviva per avere conferma dei proprio dubbi. Per quanto Fiona gli piacesse, per quanto fosse in sintonia con lei, non era quella giusta per lui, e quella sfuriata lo dimostrava.

“Che cosa sono, Gustav, la tua bambolina usa e getta?” continuò a strillare Fiona, attirando l’attenzione dei passanti. “Credevo di significare qualcosa di più di ‘nulla di rilevante’, per te! Credevo che ci fosse qualcosa tra noi due!”

Un sorriso amareggiato sfiorò le labbra di Gustav. Anche lui si era quasi illuso che tra loro due ci fosse qualcosa, ma quella di Fiona era collera, non dispiacere, né dolore. Era umiliazione per non aver ricevuto un pubblico riconoscimento che si era invece aspettata.

Non era quello che lui cercava. Non era una storia da poter svendere al pubblico e ai media ad ogni occasione, e non voleva una ragazza che stesse con lui perché era il batterista dei Tokio Hotel. Probabilmente era troppo sperare di incontrare una ragazza che riuscisse ad apprezzarlo per quello che era a prescindere da tutto il resto, che sapesse riconoscere la persona che stava dietro al personaggio, come Vibeke aveva fatto con Tom, ma nel profondo, nonostante i vari tentativi falliti dimostrassero l’esatto opposto, lui ancora ci voleva credere. Una cosa però era certa: la ragazza che cercava lui non era Fiona.

“Mi dispiace,” mormorò, sincero. “Credevo fosse chiaro che non amo sbandierare ai quattro venti le mie faccende private.”

Fiona ebbe un istante di smarrimento e Gustav seppe di aver toccato il tasto giusto.

“Tu mi piaci, Fiona, e anche parecchio,” le disse. “Sei carina, sei intelligente, hai degli ottimi gusti… Ma non sei il tipo di ragazza di cui ho bisogno io.”

Se ne rese conto solo mentre lo pronunciava: aveva detto ‘di cui ho bisogno’, non ‘che vorrei’.

Era davvero arrivato a quel punto? La sua vita era davvero così insulsa da fargli sentire il bisogno di avere qualcuno che le desse un significato? Aveva tutto, tutto quello che un ragazzo della sua età potesse sognare: fama, ricchezza, ammirazione, dei genitori che lo supportavano, degli amici fidati ed insostituibili… Eppure non era abbastanza. Il vuoto che sentiva dentro, anziché andarsene, cresceva di giorno in giorno, e lui non sapeva più cosa fare per non farsene sopraffare.

“Mi hai usata!” sibilò Fiona in un tremito iroso. “Ti sei servito di me finché ti ha fatto comodo, e ora –”

“Fiona, per favore,” Gustav sollevò una mano e sorrise con indulgenza. “Risparmiamoci le ipocrisie. Siamo stati bene, ma era una cosa che non poteva durare.”

Lei la pensava allo stesso modo, glielo lesse negli occhi, ma non sembrava intenzionata ad ammetterlo, e lui non aveva voglia di tirare inutilmente le cose per le lunghe, ai erano detti tutto ciò che avevano da dirsi. Non restava più niente di tutto quello che c’era stato.

Niente.

Non restò ad aspettare che lei aggiungesse qualcosa, né lo fece lui. Chinò il capo e si nascose le mani nelle tasche della felpa nera; le gettò un ultimo sguardo privo di rimpianti, che lei sostenne con orgogliosa ostinazione, dopodiché Gustav le voltò le spalle e se ne andò, senza voltarsi più indietro.

Finiva così, ancora una volta.

Finiva sempre così.

Sarebbe sempre finita così.

Chissà…

Decise che sarebbe andato alla villa fuori città per restare un po’ da solo. Avrebbe avvisato più tardi che non sarebbe tornato a casa per cena.

 

***

 

Tom non aveva smesso un secondo di sorridere come un idiota da quando aveva chiuso la telefonata con Vibeke, e non solo ne era perfettamente consapevole: gliene importava anche ben poco.

Per mesi aveva sfottuto Georg per la cosiddetta ‘faccia da rimbambito lobotomizzato’ che gli veniva quando si parlava della sua Nicole, senza mai comprendere come il semplice sentirla nominare potesse farlo sorridere in quel modo beato ed in pace con il mondo. Aveva sempre pensato che non avrebbe mai avuto modo di capire veramente, che non si sarebbe mai innamorato, perché di ragazze ne aveva incontrate tante, più di qualunque suo coetaneo, ma nessuna gli aveva fatto l’effetto che Nicole faceva a Georg. La cosa, però, non gli aveva dato grandi pensieri: innamorarsi non era mai rientrato nella lista delle sue priorità.

Ma poi, una notte di gennaio, quando meno se l’aspettava, si era ritrovato – nemmeno lui ricordava esattamente come – a discutere animatamente con una dark impicciona in mezzo ad una strada, ed era stato nel preciso istante in cui aveva incrociato per a prima volta quei sui strani – insolenti, irritanti, penetranti – occhi bicolori che tutto aveva cominciato a cambiare.

Erano partiti con il piede sbagliato, quello era certo, ma forse era solo con un inizio sbagliato che due persone apparentemente così sbagliate l’una per l’altra potevano finire per combaciare in modo così sorprendentemente giusto.

A pelle, Tom aveva sentito subito che c’era della sintonia che vibrava tra loro due, ma ad entrambi erano serviti tempo e fatica per imparare a trovare un punto d’incontro tra le loro lunghezze d’onda, e anche ora che lo avevano trovato, spesso e volentieri non erano in grado di mantenerlo in equilibrio per più di qualche istante.

Fin dall’inizio, le loro litigate avevano avuto dei singolari interludi di confidenza semipacifica, e volta per volta Tom si era reso conto che entrambi si stavano scoprendo e lasciando scoprire.

Era sicuro che non sarebbe mai riuscito a risalire al momento esatto in cui qualcosa di indefinito era scattato e aveva sconvolto tutto, però di una cosa non dubitava: nessun’altra, a parte Vibeke, avrebbe potuto trascinarlo fino al punto in cui si trovava ora.

Nel silenzio incontaminato dell’appartamento deserto, Tom si specchiò nel vetro della finestra del salotto e sorrise al proprio riflesso.

“Sei un bravo Kaulitz”, gli diceva Vibeke ogni tanto, nelle sue rare parentesi di buona, e forse stava cominciando a crederci anche lui.

Pensò che essere innamorati era strano, come se qualcuno gli avesse somministrato una dose massiccia di ecstasy direttamente in endovena e gli effetti non accennassero a svanire. Era una sensazione che non riusciva a paragonare con nulla che avesse mai provato, e ancora, dentro di sé, non sapeva spiegarsi come fosse potuto succedere, eppure lui era lì, a contare i secondi che mancavano a quando la avrebbe rivista, con un sorriso ebete stampato in faccia e un formicolio solleticante allo stomaco, e si sentiva irreprensibilmente felice.

Che cosa diavolo mi hai fatto, Vi?

Mentre l’ultimo raggio di sole calava oltre l’orizzonte, Tom decise che, per ingannare l’attesa, una doccia era quel che gli ci voleva, e se Vibeke fosse tornata mentre lui era ancora sotto l’acqua, poco male: avrebbero unito l’utile al dilettevole.

Ormai sarebbe dovuta rincasare a minuti.

Si sfilò felpa e maglietta e le lasciò cadere sul pavimento, poi iniziò a slacciarsi i pantaloni. Aveva appena abbassato la lampo, quando il campanello suonò, facendolo saltare sull’attenti.

Eccola qui, pensò, compiaciuto, correndo al citofono, e mai una volta che si ricordi le chiavi.

Premette il pulsante del portone senza nemmeno disturbarsi a chiedere chi fosse ed attese che il campanello suonasse di nuovo, quindi aprì la porta, atteggiandosi in una posa seducente:

“Finalmente! Stavo per cominciare da so–”

La voce gli si smorzò in gola mentre lo stomaco gli si contorceva.

Non se n’era accorto immediatamente, ma un secondo era bastato: i vestiti troppo colorati e trendy, le gambe troppo magre, il seno troppo piccolo, e poi quegli occhi, così verdi e arroganti, così sbagliati

“Lara!” Un’esclamazione strozzata fu tutto ciò che gli uscì dalle labbra. Era surreale. Era assurdo. Era impossibile. “Come hai –?”

La ragazza gli stava di fronte a braccia incrociate, alta, snella e bellissima, ed altrettanto minacciosa. Improvvisamente Tom non vedeva più alcuna somiglianza con Vibeke.

“Le Cadillac sono vistose, Tom,” affermò Lara, un’increspatura astiosa che le solcava la fronte. “Avresti dovuto sceglierti un’auto più discreta se non volevi essere individuato così facilmente.”

Tom non riusciva a reagire. Lo aveva colto troppo alla sprovvista, muoversi sembrava impossibile.

“Che cosa vuoi?” le chiese, balbettando. Temeva di conoscerla, la risposta.

“Ti ho visto con quella sottospecie di bambola dark, l’altro giorno, mentre uscivi dallo studio.”

“Da quanto tempo mi segui?” indagò Tom, iniziando a sentire la rabbia che gli ribolliva dentro. Lo aveva seguito, lo aveva spiato, e chissà cos’altro aveva fatto.

Lara gli rivolse uno sguardo colmo di disprezzo.

“E tu da quanto tempo te la sbatti?”

Tom si impose si rimanere calmo.

Non osare insultarla, puttana!

“Non sono faccende che ti riguardano.”

Affatto impressionata, Lara avanzò di un passo, ed automaticamente lui arretrò. Il cuore aveva preso a battergli a mille e una pelle d’oca da brutto presentimento di toccò le braccia e la schiena.

“Allora, com’è la storia?” fece Lara con falsa incuranza, avanzando ancora verso di lui, e lui ancora arretrò. “Sei un feticista dei capelli lunghi e neri? O sei semplicemente fissato con un certo tipo di ragazze per qualche trauma infantile?”

Non hai capito niente, stronza. Non hai capito proprio un cazzo.

Passo dopo passo, si ritrovarono al centro della stanza.

“Lara, non dovresti essere qui,” la rimproverò Tom, che non desiderava altro che lei sparisse una volta per tutte, e al più presto. “E men che meno a fare certe scenate. Sai che tipo sono, e lo sapevi anche quando hai attaccato bottone, quindi non venire a dirmi che ti aspettavi che ci sposassimo e vivessimo per sempre felici e contenti.”

L’occhiata gelida che lei gli scagliò contro gli fece venire i brividi.

“No, Tom, ma perlomeno avresti potuto trovare un modo un po’ più elegante di darmi il benservito, anziché sparire nel nulla.”

Ha ragione, e tu lo sai bene, gli disse la sua coscienza. Te la sei cercata, Tom.

Era tardi per i pentimenti, ormai, ed erano poche le cose pericolose come una donna umiliata.

“Ok, mi dispiace, sono stato maleducato,” le concesse, sbrigativo e ansioso. “Ora vattene e non farti più vedere, per favore.”

“Oh, ora hai imparato a dire ‘per favore’?” lo canzonò lei.

“Ho detto vattene.”

“No, non me ne vado! Voglio sapere chi ti credi di essere per usare così le persone! Lo sai, stando con te, per un momento ho pensato ‘Forse non è l’idiota che sembra. Forse c’è qualcosa di più’… Invece sei ancora peggio di quello che sembri! L’ho visto come ti strusciavi su quella puttana, su YouTube! Tutto il mondo l’ha visto!”

Merda!, imprecò Tom, incassando duramente il colpo. Lui e Vibeke non avevano fatto niente di compromettente, né nel filmato, né fuori dallo studio, ma Lara aveva visto tutto con gli occhi della gelosia, e tutto doveva esserle sembrato più esplicito di quel che era stato.

“Lara, per favore…”

“Andatevene a fanculo, tu e i tuoi ‘per favore’!” gli sbraitò contro lei, con un brusco spintone. “Quanto la farai durare, per curiosità?” Un altro spintone, e lui subiva senza difendersi, retrocedendo ogni volta di qualche centimetro. Non voleva toccarla, nemmeno con un’unghia. “O forse ti sei già stancato? E lei lo sa che presto la mollerai per un’altra sgualdrina?”

Al quarto spintone, Tom si trovò intrappolato tra lei e il divano, e al quinto, giunto a tradimento, si sentì cadere all’indietro. Atterrò sui morbidi cuscini del divano con un tonfo sordo e fu costretto suo malgrado ad afferrare i polsi di Lara per impedirle di colpirlo.

Rimasero immobili così per diversi secondi, respirando affannosamente poco distanti l’uno dall’altra. Tom avrebbe voluto torcerle le braccia e buttarla fuori con tutta la violenza di cui era capace. Era stato scorretto con lei, lo ammetteva, ma tutte quelle scenate erano inutili, le cose non sarebbero cambiate, e lui di certo non la avrebbe rivalutata.

Voleva solo che se ne andasse. Doveva assolutamente andarsene, prima che succedesse l’irreparabile.

Prima che…

‘So say it’s the same house
And nothing in the house has changed…’

Il sangue si congelò nelle vene di Tom nell’udire quella melodia. La conosceva, e fin troppo bene. Era  la suoneria di un cellulare, il cellulare dell’ultima persona che avrebbe voluto fosse presente in quel momento.

Le mani ancora saldamente strette attorno ai polsi sottili di Lara, si voltò verso la porta d’ingresso sudando freddo, e lei era là, sulla soglia, e nel vedere la sua espressione Tom si sentì morire.

 

***

 

Sessantotto, sessantanove, e settanta.

Vibeke rise di se stessa. Non era da lei contare i gradini, ma non aveva potuto farne a meno. Era una recidiva: anche con le tre grosse buste della spesa in mano, aveva preferito le scale all’ascensore. Era salita in fretta, quasi di corsa, chiedendosi se avesse fatto bene a non passare a casa a cambiarsi. Tom si aspettava sicuramente qualcosa di più provocante di una jeans e felpa, ma lei non se l’era sentita di mettersi in ghingheri. Da quando loro due avevano iniziato a vedersi, aveva anche quasi smesso di truccarsi, anche se il perché non lo sapeva nemmeno lei.

Attraversò il pianerottolo in tre falcate e si ritrovò così di fronte alla porta aperta dell’appartamento. Si avvicinò, chiedendosi se Tom non le stesse preparando qualche tiro mancino.

“Kaulitz?” chiamò, entrando circospetta. Non accadde nulla. “Dai, cretino, cosa diavolo stai –?”

Restò inchiodata sul posto, le buste della spesa ancora strette tra le mani, e non riuscì ad impedire alle proprie labbra di schiudersi dallo shock.

No…

Si rifiutava di crederci. Non voleva credere a quello che stava vedendo davanti ai suoi stessi occhi. Non voleva credere alla verità.

Voleva solo trovare una valida spiegazione razionale, qualcosa – qualunque cosa – che giustificasse la scena che aveva di fronte senza torturarle il cuore in quel modo straziante.

‘Say it’s the same room
And nothing in the room is strange…’

Il suo cellulare aveva cominciato a suonare, ma Vibeke lo sentiva solo come un’eco lontana, e restò paralizzata dov’era, i muscoli come atrofizzati, incapaci di muoversi, la bocca così stupidamente spalancata, l’espressione così genuinamente sconvolta.

Poteva rifiutarsi di crederci, ma quello che vedeva era reale.

‘Oh, tell me it's the same boy burning in the same bed…’

Tom sul divano, mezzo nudo, i jeans sbottonati, con quella ragazza davanti, e lei lì impalata a guardare come una sciocca, il sangue che le pulsava alle tempie tanto intensamente da farle male.

 ‘Tell me it's the same blood breaking in the same head…’

Aveva rinunciato al suo shopping personale per risparmiare tempo, per tornare prima da lui, e la ricompensa era quella simpatica sorpresa. Se glielo avessero raccontato, avrebbe pensato ad una bugia, ad uno scherzo, ma era tutto lì, davanti a lei, chiaro e semplice. Non era quella la bugia, ma tutto il resto. Tutto quanto. Nient’altro che un gioco.

Tutto quello che Tom le aveva detto, quello che aveva fatto, i suoi sorrisi, le sue belle parole… Si era bevuta tutto. Ci aveva creduto. Ci aveva creduto davvero.

Si era fidata.

E non era stato niente.

Lei non era stata niente. Nient’altro che un’insignificante goccia nell’oceano.

Avrebbe dovuto immaginarlo.

 ‘Say it's the same taste taking down the same kiss…’

Che stupida…

 ‘Say it's the same you…’

“Vi!”

‘Say it's the same you and it's always been like this…’

Si era accorto di lei, e si era bloccato, rispecchiando perfettamente l’espressione che lei stessa aveva.

 Say it's the same you…’

Lasciò andare la ragazza e si tirò su, il collo arrossato, e la guardò atterrito.

 Say it's the same you and it always and forever is…’

Vibeke avrebbe voluto gridare, urlargli in faccia tutto il male che le stava sgorgando dentro, ma non ce la faceva. La voce le era rimasta imprigionata nella gola, che le doleva dallo sforzo di trattenere le lacrime di rabbia. Rabbia verso se stessa e verso un’ingenuità che non aveva mai avuto prima di allora.

 Say it's the same you…’

Com’era successo? Da quando Vibeke V. Wolner dimenticava il contatto con la realtà per abbandonarsi a degli stupidissimi sogni ad occhi aperti?

 Say it's the same you…’

Era sembrato tutto così vero, così bello, così sincero… Non riusciva a credere che proprio lei, fra tutte, ci fosse cascata così miseramente. Con uno come lui, per giunta.

Si sentiva dilaniata da una cocente umiliazione.

‘And it's not the same you…’

Voleva che quell’immagine svanisse, che lui scomparisse dalla sua memoria in quell’esatto istante, per sempre.

 It's not the same you…’

Cancellare ogni cosa con un taglio netto.

 No, it never was like this.’

Scagliò le borse a terra con uno scatto rabbioso, metà di lei – stranamente, quella irrazionale – che pregava che quelle maledette lacrime se ne restassero nascoste almeno fino a che lui non avesse più potuto vederla, l’altra metà che cadeva in pezzi, sbriciolandosi in un soffio di polvere.

Lui non si mosse; la guardò come se fosse stato il proprio giorno del Giudizio e fosse appena stato sentenziato colpevole, ma non fece nulla quando lei, in preda a sentimenti ancora ignoti, ma orribilmente devastanti, gli voltò le spalle con un turbinio di capelli corvini striati di bianco e scomparve dalla sua vista.

E pensare che era stata proprio lei a fargli quel bel discorso metaforico sulle rose e le loro spine.

“Le rose sono così belle che ci si dimentica che hanno le spine.”

Da quando aveva iniziato ad affezionarsi a lui, se n’era completamente scordata, di quello come di molte altre cose. Uno sull’altro, i giorni si erano avvolti come una corolla di petali rossi, e lei aveva assistito alla nascita e alla crescita di tutta quell’insospettabile bellezza senza più pensare al resto, alle spine.

Ed eccole lì, adesso, le spine di quella inverosimile ma splendida favola che Tom le aveva regalato. Un’illusione agrodolce, plausibile, così lontana dall’essere perfetta da farle credere che potesse essere reale.

Tom era stato convincente, timido e titubante al punto giusto dolce quanto bastava per conquistarla, ma non tanto da disgustarla. Calibrato e naturale, in sguardi, gesti e parole.

Ed era stato tutto una farsa.

Le aveva fatto dono di una nuova capacità di fidarsi delle persone, e, dopo tante incertezze, Vibeke aveva stretto quel dono tra le proprie dita e lo aveva sentito suo – meravigliosamente suo – con tanta patetica ingenuità, tremando per il timore di rovinare qualcosa, ma ammirandone al tempo stesso, senza fiato, l’impensabile fascino, inebriata da quel buon profumo di felicità che sembrava avere quel fiore ancora non del tutto sbocciato.

Ma le spine c’erano, e lei lo aveva sempre saputo. Se n’era solo dimenticata, troppo presa dal lato più bello di tutto il resto per ricordarsi di proteggersi come aveva sempre fatto.

E così si era punta, e ora sanguinava, fissando una pioggia di petali distrutti che giaceva inanimata sul pavimento, ormai priva di qualunque significato.

E le sembrava di non essersi mai fatta male, prima, come se fosse la prima volta che qualcosa la feriva.

‘Chi se ne frega di Vibeke’: il momento era arrivato.

Dove aveva sbagliato? Quando era stato che aveva cominciato a perdere la propria obiettività? Perché il suo infallibile istinto ad un certo punto aveva cessato di urlarle dentro ‘Sarai una del mucchio, un giorno’?

Stupida. Si sentiva così stupida, tutt’un tratto.

Le veniva da ridere, perché, sì, dopotutto era buffa come situazione: lo aveva saputo fin dall’inizio che sarebbe finita così – finita, non andata – non era nulla di nuovo o inatteso, nulla di sconvolgente, in fondo. Quello era semplicemente Tom che era di nuovo se stesso, il solito di sempre, e non c’era alcunché di cui meravigliarsi.

Avrebbe voluto chiedergli perché. Perché avesse voluto sprecarsi in quella sceneggiata lunga settimane intere, se il suo intento era sempre e solo stato divertirsi con lei e basta. Non gli aveva mai chiesto niente, non aveva mai preteso di essere l’unica, di essere amata e coccolata, non gli aveva mai nemmeno chiesto di essere gentile con lei. Tutto ciò che aveva voluto era rispetto, e credeva di averlo ottenuto. Lo aveva creduto davvero.

Tom aveva fatto tutto da solo, aveva cambiato atteggiamento spontaneamente, senza una ragione precisa, e allora perché non avrebbe dovuto credergli? Perché non avrebbe dovuto fidarsi?

Perché?

Le bruciava la gola, le bruciavano gli occhi, le bruciava anche l’aria nei polmoni. Era come se niente avesse più un senso.

Perché, Kaulitz?

Guardava Tom e quella ragazza, ed era esattamente come lei si era sempre immaginata: lei bellissima e sottile, una modella che sembrava uscita dal servizio fotografico di una rivista di moda, e lui che si lasciava spogliare dalle sue mani perfettamente curate ed esperte. Era proprio come se l’era sempre figurata, un’istantanea di un mondo di cui lei non faceva parte, con cui non c’entrava niente.

Per tutto quel tempo si era solo lasciata cullare dal tiepido abbraccio di un’illusione. E non riusciva a capire perché lui avesse voluto infierire così, perché avesse voluto a tutti i costi dirle quelle cose, allo studio, e convincerla di provare qualcosa per lei. Tom sapeva che lei non si era mai aspettata niente da lui, che non lo avrebbe lasciato in ogni caso, ma aveva insistito perché lei si persuadesse dei suoi sentimenti.

E perché? A che scopo?

Non aveva senso. Non aveva nessun senso. Non aveva nessun fottutissimo senso.

Perché?, si chiese, mentre una voragine nera le si spalancava dentro. Spiegami il perché di tutto questo, Kaulitz.

Era sempre stata convinta che non esistesse niente di peggio che essere abbandonati.

Non si era mai sentita tradita, prima di allora.

 

***

 

Non era possibile.

Non poteva stare capitando, proprio a lui, proprio adesso, proprio così.

Era tutto dannatamente sbagliato.

A Tom bastò incontrare gli occhi sbarrati di Vibeke, il suo sguardo incredulo e ferito, per sentirsi prendere dal panico. Ebbe un improvviso e sgradevolissimo senso di soffocamento.

Ti prego, supplicò, guardandola atterrito, ti prego, ti prego, ti prego, non pensare quello che so che stai pensando. Non farlo, ti prego. Non è così, non è come sembra. Ti prego, Vi, non puoi credere che io possa farti una cosa simile!

Ci aveva messo così tanto a farle capire quanto ci tenesse a lei, a convincerla che non desiderava altro che stare con lei. Si era sforzato tanto per meritarsi la sua fiducia…

No!, urlò internamente, già disperando nel vedere Vibeke scuotere impercettibilmente il capo con le labbra contratte in una piega angosciata. No, no, maledizione!

Scaraventò Lara da parte e cercò di alzarsi, ma la testa aveva preso a girargli vorticosamente e non riuscì a tenersi in piedi.

“Vi!” esclamò, sentendosi mancare. Senza curarsene, Vibeke gli volse le spalle e mosse un passo verso le scale. Qualunque cosa potesse dirle, Tom sapeva che non aveva più importanza. Si precipitò verso la porta, inciampando nei suoi stessi vestiti abbandonati a terra.

“Vi, aspetta!”

Ansimava, parlando, o forse non riusciva nemmeno a respirare, non lo sapeva nemmeno lui.

Le afferrò bruscamente un polso e la obbligò a fermarsi al secondo gradino, stringendola così forte da bloccarle il sangue. Tremava, aveva le dita ghiacchiate e prive di sensibilità, ma non poteva lasciarla andare via così.

Lei doveva sapere che era tutto un malinteso. Lei doveva lasciarlo spiegare, doveva capire

Vibeke si strappò a lui con un gesto secco e deciso, ma non affrettato, poi si voltò. E vedendo la rabbia e l’odio repressi nei suoi occhi vitrei, per un attimo Tom temette che lo avrebbe schiaffeggiato.

Quanto lo avrebbe voluto, uno schiaffo…

Quanto avrebbe preferito che lei gli si avventasse contro, picchiandolo, graffiandolo, distruggendolo.

Vibeke lo distrusse, sì, lo annientò, ma non a colpi tangibili. Le bastò la violenza del suo sguardo ferito, tradito, del modo glaciale ed impotente in cui chinò la testa e se ne andò in silenzio, lentamente, senza più guardarsi indietro, lasciandolo impietrito a fissarla.

Tom non fu più in grado di muoversi, né di parlare. Poteva solo pensare. Pensare a due parole assordanti ed insopportabili che gli stavano facendo scoppiare la testa.

È finita.

 

***

 

Gustav richiuse il proprio cellulare la fronte corrugata dalla perplessità, guardando la strada ormai buia avanti a sé. Non era mai successo che Vibeke non rispondesse ad una sua chiamata.

In un giorno qualunque avrebbe liquidato la cosa attribuendola al fatto che probabilmente era stata distratta da Tom, ma non quella volta.

Qualcosa, istintivamente, gli diceva che avrebbe dovuto preoccuparsi.

Senza pensarci due volte, approfittando del fatto che la carreggiata fosse sgombra, fece una repentina inversione a u e premette l’acceleratore, sfrecciando nella direzione opposta.

Aveva un pessimo presentimento.

 

***

 

Bill seppe che qualcosa non tornava prima ancora che lui e Georg mettessero piede in casa.

Era solo una sensazione, ma raramente le sue sensazioni sbagliavano.

L’assenza assoluta di suoni e rumori di alcun tipo era surreale e gli fece presumere che non ci fosse nessuno. Entrò e lasciò che fosse Georg a richiudere la porta. Fecero entrambi per togliersi le giacche, quando fecero caso a tre borse della spesa abbandonate a terra poco lontano da loro, il contenuto quasi del tutto rovesciato e sparso a terra.

Bill occhieggiò confusamente Georg, poi si voltò verso il resto della sala, e allora notò che qualcuno c’era, dopotutto.

Tom era seduto sul divano, piegato su se stesso con la testa tra le mani, immobile e muto come una statua di sale.

“Tomi?” Preoccupato, Bill gli si fece vicino con titubanza, la sensazione di poco prima che diventava sempre più forte e più brutta. “Tomi, che cosa –?”

Quando Tom sollevò la testa – lentamente, come se gli facesse un male insostenibile – Bill trattenne il respiro: non aveva mai visto il proprio fratello con un’espressione così impotente e frustrata, e così disperata.

Qualunque cosa fosse accaduto, doveva essere parecchio grave.

 

***

 

In ospedale, reduce da una visita a sorpresa di Bill e Georg particolarmente piacevole, BJ stava beatamente consumando la propria lauta cena a base di linguine al pomodoro, insalata mista e budino al cioccolato, quando la porta della stanza si spalancò all’improvviso, facendolo trasalire. C’era un’unica persona che sarebbe potuta entrare in quel modo, ma l’orario delle visite private era passato già da mezz’ora, quindi non poteva essere. Eppure, quando si voltò, BJ vide esattamente chi si era aspettato di vedere.

“Sorella!” esclamò, stupefatto, e stava per domandarle che cosa ci facesse lì a quell’ora, ma poi notò i suoi occhi arrossati e lucidi, il viso cereo, e il suo cuore sprofondò in un abisso ghiacciato. “Ma cosa –?”

Vibeke non gli rispose. Gli si gettò tra le braccia, avvinghiandosi a lui così forte da fargli male, le unghie che affondavano nella carne al di sotto del tessuto sottile del pigiama, ma lui non se ne curò. Era destabilizzante sentirla tremare in quel modo.

“Non chiedermi niente, per favore,” La voce di sua sorella era poco più di un flebile anelito soffocato che lo raggelò fino alle ossa. “Sto ancora cercando la forza di dirmi ‘Te l’avevo detto’.”

 

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Note: no, non ci credo nemmeno io che questo capitolo sia stato postato. XD Mi dilungherei in chiacchiere, ma la pausa pranzo sta per finire e il lavoro mi chiama. Stasera aggiungerò le risposte a tutti i vostri meravigliosi commenti per lo scorso capitolo, e spero di trovane di nuovi, data la bellissima (?) sorpresa che vi ho fatto con questo. ^^

Perdonate eventuali errori di battitura e sviste, ho riletto, ma controllerò ancora, per essere sicura, ma se non posto subito c’è una nutrita lista di personcine che esigerà la mia testa. ^^

A stasera con l’aggiunta della rubrica dedicata al pubblico. ;)

   
 
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