Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    09/10/2016    2 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Shizuka era costretta a inventarsi una scusa, anche questa volta. La giustificazione “un dolore al petto mi fa venire questo pensiero” non funziona, anche se effettivamente è quello che sta provando. Quella voglia bianca sul suo petto ogni tanto le provocava delle strane fitte, non violente, non dolorose, ma non c’era nessun altro modo per chiamarle. Erano impulsi, le davano una strana scarica di adrenalina, una spinta verso qualcosa.
Che, questa volta, era verso il grosso istituto rosso alle sue spalle.
Guardò distrattamente sua zia attraverso i sottili occhiali da sole azzurro pallido e sviò quasi subito lo sguardo, voltandosi e osservando l’edificio. Era un istinto primordiale quello che la spingeva verso il pericolo, a cui però non poteva rinunciare, né tantomeno seguire al momento.
-Vuoi anche tu buttarti nella mischia, vero?-
Holly le passò una mano tra i capelli e Shizuka sbuffò sonoramente, cercando di scostarsi la donna di dosso. Con un balzo saltò giù dall’auto e si stiracchiò un po’ le braccia, aggiustandosi per bene la sciarpa verde e gialla al collo. Sfregandoci due dita su, Shizuka notò che si generava qualche scintilla. Perfetto.
Voleva agire, e voleva agire ora. Aveva dei brutti, brutti presentimenti sui suoi genitori, quello che stavano facendo, e le loro condizioni sulla battaglia: sentiva dentro di sé una sensazione orribile, un senso opprimente di grande disagio al petto. Era orribile, le ricordava ricordi passati che non voleva far riemergere. Come quando i suoi padri dovettero viaggiare fino alla Florida per sconfiggere quel prete, quattro anni prima. Come quando nonna Suzie non si svegliò più dalla sua vecchia poltrona. Tutti se ne andarono, gli infermieri, la donna delle pulizie e il nonno ancora sotto shock, e lei rimase immobile, seduta sul lercio e polveroso tappeto nella grossa sala dei nonni adottivi, al buio, abbandonata e inutile, i giocattoli nuovi e freddi stretti tra le sue mani ancora troppo piccole, i suoi pensieri ancora troppo acerbi scanditi solo dal pulsare del suo cuore nel petto.
Shizuka si risvegliò dai quei pensieri e scosse la testa, facendo un passo in avanti. Il suo polso venne stritolato con un’incredibile stretta e venne trascinata all’indietro. Si voltò di scatto e notò, arrotolato attorno al suo braccio, un grosso rovo ricoperto di fiori sbocciati e sgargianti. All’altro capo del ramo, Holly le sorrideva. Il ramo partiva dal suo polso, ed era stretto tra le sue dita tremanti ma salde.
-Che c’è, Shizu-chan, non credevi io potessi avere uno stand?- disse scherzosamente l’anziana donna, notando lo stupore dipinto sul viso pallido della nipote. –Il mio stand, Every Rose Has His Thorns, ha la capacità di far evocare queste liane su qualsiasi superficie, a mio comando! Non male per una vecchietta come me, mh?-
Shizuka rimase ad osservarla, parecchio sorpresa, afferrando il rovo con la mano libera e strattonandolo, cercando di liberarsi. Doveva evocare quello stand, come aveva fatto alla Fontana, la sua forma fisica avrebbe sicuramente rotto quel ramoscello. Strinse gli occhi e si sforzò, non ricevendo nulla in cambio. Non lo sentiva, non lo vedeva, e in effetti non c’era. Non l’aveva evocato, non ci era riuscita, era semplicemente diventata leggermente trasparente. Abbassò il braccio e si arrese, avvicinandosi di nuovo all’auto su cui era ancora seduta sua zia, appoggiandosi alla portella e osservandola con sguardo torvo da sopra gli occhiali da sole.
Holly la continuò a fissare negli occhi, incuriosita e quasi spaventata. C’era qualcosa nei suoi occhi che la faceva così tanto somigliare a loro, alla stirpe dei Joestar, e qualcosa che l’allontanava drasticamente. Una luce di forza, di vigore, di speranza che ha sempre accompagnato suo padre Joseph, suo figlio Jotaro, sua nipote Jolyne, suo fratello Josuke. E quelle flebili, scure linee concentriche nelle sue iridi gelide e grigie, qualcosa che non aveva mai avuto l’occasione di vedere. Era ambizione pura, era qualche strana, ancestrale spinta che sembrava tremendamente lontana a Holly.
-Allora?- esordì Shizuka, scalciando un po’ a terra. –Cosa vuoi da me?-
-Voglio farti una proposta.-
Gli occhi verdi e taglienti della zia si puntarono saldi su quelli scuri e gelidi della giovane, che annuì, senza pensarci due volte. Allungò la mano pallida verso di lei e Holly la strinse senza pensarci due volte.
-Non ti interessa saperla?-
-Mi interessa eccome, zia- sussurrò Shizuka, guardandola di sottecchi. –ma mi interessa a prescindere. Mi piacciono le sfide.-
Holly le sorrise, un sorriso sveglio e furbesco mentre si alzava in piedi, parandosi davanti a lei mentre si reggeva al leggero bastone di mogano.
 
-Se Rosanna mi scopre, giuro che t’ammazzo.-
Emporio sentì la voce tagliente della cugina nell’orecchio, e si irrigidì di colpo. Un brivido gli passò la colonna vertebrale, nel sentire il suo tono di disprezzo soffiargli gelido sul lobo dell’orecchio. Non si voltò, non fece nulla. Strinse i pugni e annuì titubante e terrorizzato da lei. Era più bassa di lui di una buona ventina di centimetri, ma i suoi modi sempre così superiori e il suo sguardo gelido e distaccato hanno sempre provocato in Emporio una sorta di paura. Reverenza oserebbe dire. Sfiducia in quella ragazza bassa ed esile, su cui aleggiava una specie di presenza anomala, innaturale. Non sapeva dire cosa fosse di preciso, se una semplice aura di autorità o qualcosa di più. Burning Down the House non si era ancora rivelato attorno a lei, dunque non era probabilmente qualcosa che c’entrasse con il suo stand, ma sembrava quasi qualcosa di sovrannaturale.
Emporio negò, non poté fare altro. Shizuka, a viso basso e passo svelto, si diresse verso un bar vicino all’istituto, seguita da Holly, che sventolò un po’ la tremolante mano guantata di bianco velluto. –Emporio, Rosanna! Accompagno Shizu al bar!- trillò, sorridendo ad entrambi. Rosanna, seduta sulla scalinata dell’entrata posteriore della scuola, si risvegliò dai suoi pensieri e fissò la suocera. Sorrise, confusa per il non aver ascoltato le sue parole, e salutò a sua volta. Le due scomparvero dietro l’angolo e la donna tornò nei suoi oscuri pensieri, i gomiti appoggiati alle ginocchia e lo sguardo davanti a sé.
-Mamma, c’è qualche problema?- sussurrò Emporio, sedendosi al suo fianco. Lei, senza distogliere lo sguardo, negò. Sospirò e abbassò la testa, guardando di sfuggita il ragazzo biondo. –Ho.. paura, Emporio.-
-Paura di cosa?-
Rosanna scosse la testa e si lisciò i lunghi capelli ramati su una spalla, incerta, parlandogli con un tono anche più basso del solito. –Non lo so, ho una brutta sensazione per la mia JoJo… cosa potrebbe mai capitarle, là dentro? Spero che Jotaro la protegga…-
Rosanna non era a conoscenza degli stand, e del motivo per cui erano lì. Emporio lo conosceva benissimo, ma non poteva rivelarle nulla. Sospirò rassegnato a sua volta e le appoggiò una mano sulle spalle. –Non succederà nulla…- tentò. Rosanna alzò gli occhi su di lui e annuì, non completamente convinta ma sicuramente più tranquilla, abbracciandolo a sua volta. –Grazie, piccolo…-
 
La mano di Shizuka si strinse forte intorno al guanto di Holly, che tentò di ricambiare con lo stesso furore giovanile la sua esile mano.
-Seguimi e basta, ok? Muoversi mentre si è invisibili è difficile.-
Holly annuì e le strinse la mano con entrambe le sue, cercando di mantenere la presa la più salda possibile per una donna di oltre settant’anni. Shizuka non la degnò di uno sguardo e attivò Achtung Baby, che fece sparire entrambe. Holly rimase ad osservare i contorni quasi indistinguibili della nipote, di fronte a lei. –Di qua.- le disse, usando la telepatia degli stand. Holly rispose con un trillante –Sì!- e con entusiasmo seguì i movimenti di Shizuka attraverso il campetto ormai vuoto della scuola. Era un giardino alberato immenso, che conduceva a diversi campi sportivi e a un’enorme edificio quadrangolare, la cui effige recitava “palestra”. Shizuka tenne lo sguardo puntato sulla palestra, una strana sensazione che la spingeva verso di essa.
-La senti anche tu?- le chiese Holly, accostandosi a lei. Shizuka annuì, tenendo lo sguardo fisso sulla palestra. –Sento i miei genitori, sono lì dentro. Sento la loro aura… stanno usando lo stand..?-
-Sento Jotaro e Jolyne. Stanno probabilmente combattendo…- finì Holly, con un tono strano. Si fermò tutto ad un tratto, puntando i piedi nell’erba verde, talmente brillante e colorata da cozzare col cielo grigio solcato da venature di luce bianca sopra di loro.
La presa sulla sua mano aumentò, e Shizuka la strattonò in avanti senza alcuna delicatezza. –Che cazzo fai!?- sibilò.
La sua voce suonava esattamente come quella di suo padre Josuke, notò Holly. Quella nota di paura sotto quegli strati di aggressività, egoismo e fretta. Gli assomigliava molto, benchè la ragazza non volesse ammetterlo. –Shizuka, non possiamo…- tentò Holly, ma Shizuka non cedette. Erano a pochi metri dalla porta della palestra ormai, e se Holly non avesse voluto seguirla l’avrebbe fatto da sola. Si scrollò la sua mano di dosso e, con uno scatto, corse verso la palestra.
Tutto ad un tratto, Shizuka si sentì la terra mancarle sotto ai piedi. L’erba non era scivolosa né bagnata, la terra era levigata, ma Shizuka rovinò a terra, sbattendo le ginocchia sull’erbetta del cortile. Holly vide solo i fili d’erba spostarsi sotto al suo peso, e pesanti parole in inglese scappare dalle sue labbra.
Shizuka era convinta che qualcosa l’avesse tirata indietro. –Hai usato il tuo stand, vero?!- gridò Shizuka, rialzandosi a fatica.
-Non ho evocato nessuno stand!- si difese sua zia. –Non sono così veloce, ormai ho una certa età…-
Shizuka si era sentita toccare la caviglia, ne era certa. Una morsa letale, impossibile da divincolarvisi. Non poteva essere stata la sua anziana benchè arzilla zia, ne era sicura, anche se avesse mentito non avrebbe potuto comunque essere lei. Shizuka si guardò intorno, in cerca di qualcun altro, qualche stand nemico, qualche maleficio che le si era scagliato contro. Ma c’era solo il nulla, se non erba, cielo grigio e palestra scura davanti a loro. Dovevano solo entrare per la porta anteriore, nulla di difficile. Si avviarono entrambe, mano nella mano per volere di Holly, con estrema lentezza, finchè uno strano bagliore dorato non colpì gli occhi di Shizuka. La ragazza si voltò verso quel lampo e notò qualcosa nell’erba leggermente più alta, sul lato della palestra.
-Zia… andiamo là.- disse lei, con un soffio di voce. Holly la guardò stranita, ma non le si mise contro, e, assieme a lei, camminò velocemente verso quell’oggetto luminoso, incuriosita e stranamente impaziente. Poteva aspettare, in una situazione normale, ma non in quel caso. Era un bagliore famigliare, qualcosa che le bruciava nel petto, sopra quella strana voglia bianca sotto le clavicole. Si piegò e tastò il freddo metallo. Era una spilla a forma di triangolo, dorata e cava all’interno. Shizuka rimase ad osservarla, piegata sull’erba alta e umidiccia, quasi ipnotizzata. Era sua. Non le apparteneva davvero, non aveva mai avuto una spilla del genere, ma per qualche strana ragione sapeva che le apparteneva. Holly le appoggiò una mano sulla spalla, curiosa, e Shizuka nascose la spilla, come se fosse qualcosa di sconvolgente. Non lo era, era semplicemente una spilla. Eppure il solo toccarla la elettrizzava, per qualche strano, recondito motivo che ora non le importava sapere.
Tutto ad un tratto, dietro di loro, comparvero delle voci.
Entrambe, ancora invisibili, si voltarono e osservarono.
Otto ragazzi, quattro femmine e quattro maschi, sporchi di fango e sangue, lividi e malconci. Una ragazza era in mezzo allo sparuto branco, mentre si aggiustava gli occhialoni gialli mezzi rotti.
Era Zarathustra, quella che aveva attaccato Shizuka alla Città della Moda, ed era nello stesso, esatto punto in cui si trovavano prima zia e nipote. Se fossero rimaste lì, sarebbero state scoperte, e uccise.
Shizuka tastò la spilla ormai invisibile a sua volta tra le dita, stranita. L’aveva salvata. Non poteva essere un caso, non doveva.
Persa nei suoi pensieri, trasalì alla gomitata della zia. –Ascolta- la esortò lei. Ed entrambe, accucciate nell’erba alta, ascoltarono.
 
-Come faremo a liberarci dei cadaveri, boss?- disse Davide, parandosi di fronte a lei. Il suo atteggiamento sempre composto e marziale allietava Zarathustra. Lei alzò lo sguardo sul ragazzo dai capelli neri e platino e indicò Eriol e Regina, ancora pronte all’azione, benchè piene di lividi e graffi. –Col buon vecchio metodo dell’acido. Facile, no?-
Davide annuì poco convinto, voltandosi verso la palestra alle loro spalle. –Se diventeranno cadaveri.-
-Metti in dubbio i piani di mia sorella!?- gridò Alex, alle spalle di Zarathustra. Lei alzò un braccio e lui abbassò la testa e si strinse alle sue spalle, zittendosi. –Alex, Davide ha ragione.- si voltò anche lei verso la palestra, il suo occhio rosso luminoso sotto gli occhialoni rotti. –Dopo aver visto di cosa è capace quell’uomo, potrebbero perfino salvarsi. E crearci altre grane.-
Tutti gli altri sette ragazzi si zittirono. Noemi, fino a pochi istanti prima gioiosa di aver finalmente eliminato gli intrusi, abbassò le braccia e le lasciò ricadere sui fianchi, incredula. –Boss, dobbiamo ancora combattere..?- chiese lei, tristemente. Zarathustra non rispose. Non c’era bisogno di rispondere. Si infilò le mani nelle tasche del giubbino e voltò le spalle a tutti, anche alla palestra. Non voleva più vedere cosa succedeva all’interno.
-Tenetevi pronti. Se entro quindici minuti non sono ancora usciti da lì, possiamo procede con lo smistamento dei cadaveri.-
 
Tutto ad un tratto, fu il panico.
Yukako corse da Koichi, prendendolo per un braccio. La sua mano era bollente, la sua pelle bruciava. –Stai bene?- gridò lei, disperata, premendogli una mano sulla bocca. Koichi non riuscì a dire nulla, venne solo sollevato di peso dalla moglie mentre si fiondava verso una finestra, allungando Love Deluxe. Formò un grosso martello di capelli solidificati e andò a sbattere sul tremendo ghiaccio di Kings&Queens, che non venne nemmeno incrinato dall’impatto. Vennero entrambi sbalzati indietro e ricaddero sul pavimento della piscina, alzando polvere bianca. Jotaro afferrò Jolyne, che urlava dal dolore. La sua pelle, fradicia e gelata a causa del tempo prolungato che rimase nella piscina, si stava surriscaldando in una maniera incredibile, dolorosa e fin troppo veloce. Sembrava di essere bruciati vivi dalla propria pelle e dai propri vestiti, e Jolyne lo sentiva anche più di Jotaro. Disperato, suo padre non sapeva cosa fare. Provò ad asciugarla con il proprio cappotto, prima di accorgersi che era fradicio a sua volta. Era tutto inutile. Jotaro si guardò intorno, ad osservare la situazione. C’era una sola persona che poteva aiutarli, in questo momento.
-Josuke!- gridò Jotaro, cercando di attirare la sua attenzione. Josuke a malapena si voltò verso di lui, mentre tentava di consolare Okuyasu. Tremava tra le sue braccia, si aggrappava alla sua maglietta e gridava, fuori di sé. Sentiva la propria pelle andare a fuoco, sentiva ancora quell’odore acre di pelle bruciata, lo sentiva ancora, lo provava ancora.
-Non voglio morire bruciato vivo, non voglio! Non voglio anche io, non voglio!- ripeteva contro il suo petto, con tutta la lucidità di poco prima completamente svanita. Era il terrore puro quello che provava, quello di dover fare la stessa fine del suo unico fratello. Josuke, disperato, tentava di tenerlo fermo e sollevato, mentre continuava ad agitarsi tra le sue braccia.
Josuke alzò lo sguardo e fissò i componenti della sua squadra, uno a uno. Si sentiva dolorare tutto il corpo, ma non poteva farsi prendere dal panico. Era un dottore, lui. Un medico rinomato, con sei anni di studio alla Harvard Medical School e nove anni di lavoro presso l’ospedale della pazza Morioh. Ha visto altri casi di bruciature chimiche, ben peggiori di queste.
-Fermatevi tutti!- gridò, con tutta la poca aria che gli rimaneva nei polmoni. Tutti alzarono lo sguardo su di lui. Li osservò uno a uno, con gli occhi arrossati e il fiatone, deciso ad attirare la loro attenzione. Si guardò intorno con aria mesta e gelida, celando ogni espressione. Erano in una situazione fatale, ma anche quando si è senza speranze, un medico non deve dimostrarlo al paziente. Deve rimanere freddo e deciso, deve avere la situazione in pugno. O, almeno, far finta di averla. Gonfiò il petto e riprese a parlare, con un tono tanto calmo e lento da far scendere brividi alla spina dorsale di Jotaro, che si chiedesse come poteva mantenere una calma del genere in una situazione in cui anche lui stesso stava scoppiando.
-Tutte le uscite sono bloccate, dunque?- chiese, con tono neutro. Tutti annuirono. Okuyasu sbirciò in alto, notando che anche il vetro rotto sopra di loro era chiuso da una morsa di ghiaccio. Era un buon piano.
La stretta sulle spalle di Okuyasu aumentò, schiacciandolo all’ampio petto del marito. Aveva smesso di piangere e di singhiozzare, ma Josuke continuava a stritolarlo tra le proprie braccia, ora più di prima. Non lo faceva per Okuyasu, lo faceva per sé stesso. Okuyasu rimase a guardarlo in viso, a osservarlo per bene. Gli angoli delle labbra erano tirati verso il basso, gli occhi sgranati e le vene blu sulla sua pelle pallida ancora più evidenziate. Era nel panico, e non lo dimostrava. Josuke era bravo a trattenere la paura, e probabilmente era bravo a trattenere solo quella. Okuyasu si lasciò stritolare come una pallina antistress mentre Josuke parlava a tutti, con quel tono alto e impercettibilmente scosso da fremiti.
-Quelle porte non sono chiuse.-
-Porteranno agli spogliatoi, credo…- mugolò Koichi, rialzato a fatica da Yukako e stretto a sua volta tra le sue braccia e i suoi capelli.  –Ma avranno sicuramente chiuso anche le finestre degli spogliatoi, per cui…-
Josuke gli mise un dito davanti al viso per zittirlo e gli voltò le spalle, camminando lentamente verso le porte scorrevoli. Erano delle docce, quelle dentro. –Non c’è bisogno di finestre.- sentenziò, facendo cenno di seguirlo.
Il gruppo fece per mettersi in movimento, ma Okuyasu non si mosse, perso in chissà quali pensieri. Yukako, da brava chioccia, afferrò un braccio di Okuyasu e lo strattonò verso la porta. –Tutto bene?- gli chiese, con un filo di voce. Lui scosse la testa e abbassò lo sguardo sui suoi occhi indaco, pieni di preoccupazione. Le sorrise e la seguì, cercando di non farsi strattonare dalla donna, più per non farla preoccupare che altro. Ma ormai Yukako aveva visto qualcosa in lui che non andava, non l’avrebbe lasciato in pace così facilmente.
A fatica, tutti si incamminarono verso quella porta scorrevole. Non era bloccata.
Josuke con velocità la aprì e aspettò che tutti gli altri entrassero, a passo svelto e zoppo, gli occhi annebbiati dalla polvere nei loro occhi, che sembrava accecarli. Quando anche Josuke si chiuse la porta alle spalle e furono tutti dentro, tirò un forte sospiro di sollievo. Nel respirare, l’aria sembrava più leggera, ma bruciava sulla pelle.
Prendendo bruscamente Okuyasu per un braccio, lo sbatté contro il muro della prima doccia che trovò. Ancora confuso, non riuscì a fare in tempo a rifiutarsi o a chiedere spiegazioni che un getto d’acqua colpì la sua testa. Era gelida, e Okuyasu urlò.
-Sta’ fermo!- gridò Josuke, allargandogli la scollatura della maglietta. Okuyasu entrò nel panico e gli afferrò il polso, voltandosi verso il gruppetto che li osservava inquieti. –Lo sai che mi piace sotto la doccia ma… ma non davanti a loro, Jojo!- mugolò, tutto rosso in viso e non solo per le scottature della soda.
Josuke rimase impassibile e lo guardò con sdegno. –Okuyasu. È una procedura medica per rimuovere le ustioni chimiche.-
Okuyasu alzò lo sguardo sul marito e poi di nuovo sugli altri, avvampando ancora di più. –Oh.- disse, e riuscì a dire solo quello, sprofondando la testa nelle spalle e lasciando fare a Josuke, rosso in viso a sua volta. In sottofondo, lo sghignazzare di Jolyne rompeva il silenzio dei presenti, allibiti. Josuke aggrottò le sopracciglia e continuò a fare il suo lavoro, con uno sguardo strano in viso. Okuyasu ridacchiò mentre si scioglieva i capelli, passandosi le dita tra le lunghe ciocche argentate, accompagnando le risatine dei presenti. Perfino Yukako si lasciò scappare un sorrisino, nascondendosi le labbra con una mano. Josuke non rise. Non rise per tutto il tempo. Passò la doccetta dell’acqua sul suo petto e sulla schiena, sulle gambe e la allontanò, facendo cenno ad un altro di avvicinarsi. Koichi e Jotaro non si mossero.
-Che aspettate?- gridò, iniziando a grattarsi con forza un braccio completamente rosso dalle ustioni. –Sbrigatevi, è grave!-
Yukako gli si avvicinò, gli appoggiò una mano sul braccio coperto da bendaggi ormai fradici, quasi trasparenti, non riuscendo a nascondere i grossi tagli del giorno prima alla Città della Moda. Josuke aveva sempre, perennemente la stessa espressione pensierosa, seria e quasi dolorante. Yukako, nel guardarlo negli occhi, era sicura non si trattasse solo del dolore dell’acido sulla sua pelle delicata. Sperò che quei sospetti che aleggiavano sul gruppo fossero solo una sua paranoia, e accennò un sorriso all’amico. Che non ricambiò. Se ne andò un po’ sconsolata e si avvicinò a Okuyasu, che si passava rozzamente le dita tra i capelli, strattonandoseli.
-Faccio io, Oku.- gli sussurrò. Allontanò a forza le sue mani e si mise dietro di lui, iniziando ad accarezzargli i capelli mentre lui rimaneva fermo, con un sorrisone speranzoso in viso. –Grazie Yu…- mugolò lui. Yukako sorrise.
Nel frattempo, Jolyne si mise sotto al getto e iniziò a spazzolarsi i capelli pregni di acqua contaminata e polvere bianca, mentre Josuke ricominciava la prassi, aiutandola a pulirsi dalla soda attaccata ai suoi vestiti.
-Ti fidi?- sussurrò Jotaro, piegandosi su Koichi. Il biondo alzò lo sguardo su Jotaro e si mordicchiò un labbro, indeciso, fissando la schiena di Josuke.
–Credo…-
-E se… facesse qualcosa? Insomma, avrebbe anche la scusa per toccarci così.-
-Io mi fido di Jojo… non mi ha mai fatto nulla, no?-
-Magari non ne ha mai avuto la possibilità. Che ne sai cosa pensa uno così.-
Koichi era tremendamente indeciso, e impaurito. Aveva sempre quella recondita paura che Josuke potesse fargli qualcosa, magari di nascosto, magari stordendolo o sopraffacendolo con la sua enorme stazza. Era il suo migliore amico, lo conosceva da quasi vent’anni, ma il dubbio non è mai scomparso.
-Il prossimo?- disse Josuke, fissandoli male. Forse li aveva sentiti? Impossibile, erano lontani e parlavano a voce bassa. Si staccarono e rimasero immobili, indecisi, cercando di sembrare il più normali possibili.
-È il turno di Koichi.- sentenziò Yukako, prendendolo per il braccio. Koichi sgranò gli occhi e alzò lo sguardo sulla moglie, strattonandola un po’. Lei lo fissò con uno sguardo strano e lo spinse verso Josuke. E l’uomo biondo si accorse che, durante quel discorso “da uomini” con Jotaro, Yukako era rimasta al suo fianco tutto il tempo. Non poté fare altro che acconsentire, e mettersi sotto il getto d’acqua. Josuke ci andò molto, molto più piano. A malapena gli toccò i vestiti, scuotendoli appena e risciacquandoli, tenendo perennemente lo sguardo basso. Oh no. –Josuke, io…- tentò Koichi, con un sorrisetto tirato. Josuke non rispose, non alzò lo sguardo. –Il prossimo?- disse ancora, voltando la testa.
Yukako rimase ad osservare il suo Koichi, così riluttante nel farsi toccare così innocuamente dall’amico.
-Lo conosci da quasi vent’anni- lo spronò lei, usando la telepatia tra stand.
-Ma è.. lo sai cos’è Jojo, Yu!-
-Gay?-
-Beh…-
-Non vuoi farti toccare solo per questo? Per questo motivo idiota? E tu ti consideri un suo amico, Koi?-
Koichi abbassò la testa, cominciando a sentirsi in colpa per quel comportamento infantile retaggio degli anni dell’adolescenza, quando ancora non conosceva il suo migliore amico Josuke. Josuke incombeva enorme sopra di lui, con almeno 30 centimetri in più d’altezza e quasi il doppio del peso. Era piegato su di lui, sfregando con più forza la sua grossa mano ormai arrossata ed escoriata sui suoi vestiti bollenti, che ormai stavano diventando sempre più freschi e vivibili.
Koichi tentò di superare quel senso di disagio, che però continuava a incombere sui suoi vestiti, attraverso quelle mani fin troppo grosse, che ora gli stavano facendo bene, ma sapeva che avrebbero potuto benissimo fare anche tanto male.
Appena Josuke levò le mani Koichi scattò a molla verso Yukako, lontano da Josuke. Lei rimase immobile dietro l’ampia schiena di Okuyasu, le dita tra i suoi lunghi capelli argentati, cercando di tirare via ogni granello bianco. Non accolse il marito tra le braccia, e Koichi sentiva di meritarselo. Sentiva l’acido corrodergli la bocca dello stomaco, ma era più che sicuro che non fosse la soda caustica a ferirlo tanto.
A bocca asciutta, si voltò verso la doccia, ad osservare Jotaro alle prese con quello che lui aveva appena passato.  Non amava essere toccato, soprattutto se si trattava di Josuke. Rimase rigido, immobile, e appena ebbe l’occasione schizzò via, col viso congestionato dall’imbarazzo, dalla rabbia e dal nervosismo. Si avvicinò alla figlia e si piazzò al suo fianco, dando un forte colpo di tosse per attirare l’attenzione di tutti i presenti.
Koichi era rimasto vicino a Josuke, che aveva preso a pulire sé stesso. Si mise sotto al getto e iniziò a sfregare con vigore le mani sulla propria maglietta, aprendo la cerniera che partica dalla scollatura fino al suo fianco, passandosi le mani sul petto irsuto e sulla pelle rossa ed evidentemente ustionata per il troppo contatto col tessuto della maglietta viola imbrattata di soda.
-Jojo… grazie.- sussurrò Koichi, parecchio imbarazzato. Josuke rimase ad osservarlo, con uno sguardo meno teso e gli occhi stranamente lucidi e arrossati. Alzò le spalle e finse disinteresse, tornando a sciacquarsi mentre gli borbottava un timido “niente di ché”.
Koichi riusciva a sentirsi decisamente meno in colpa dopo averlo ringraziato, ma il nodo allo stomaco rimaneva. Forse non aveva fatto abbastanza? Tentò di non pensarci, e si voltò verso Jotaro, in attesa che parlasse.
 
 
-Dobbiamo uscire da qui- sentenziò Jotaro. Josuke, dopo aver chiuso la doccia, si avvicinò al gruppetto, ascoltando attento le parole del parente.
Echoes Act 1 andò a posarsi sulla spalla di Koichi, sconfortato. –Tutte le uscite sono chiuse. Il ghiaccio ricopre ogni porta, ogni finestra, ogni condotto dell’aria…-
-Vuol dire che presto finiremo l’aria!?- gridò Jolyne. Con tutta la velocità che aveva srotolò un dito e cercò di infilare il sottile filo di cui era composto il suo corpo nella feritoia del condotto dell’aria, inutilmente. Il ghiaccio era sottile, ma impenetrabile.
-Potremmo provare a sciogliere il ghiaccio con con Crazy D…- mugugnò Okuyasu, accostandosi a Josuke. Lui annuì poco convinto ed evocò a malapena il pugno del proprio stand sopra al suo, un’ombra rosa e azzurra, fin troppo eterea.
-Mi è rimasta poca energia ormai, ma dovrebbe essere sufficiente per creare una piccola breccia…-
-E io potrei infilarmici dentro, uscire dalla palestra e sconfiggere la ragazza col potere del ghiaccio! Così saremmo tutti liberi!-
Sul gruppo iniziò ad aleggiare una speranza bocciata come un fiore tra i ghiacci. Jotaro però non era della stessa idea. Si mise le mani in tasca e si allontanò da loro, scuro in viso, tastando il ghiaccio che circondava la finestra. Era gelido, duro come la roccia, asciutto e tanto solido da non sembrare nemmeno ghiaccio. Non era come quello che l’aveva ricoperto, poco prima, alla piscina.
-Il ghiaccio è diverso. È molto più solido, ora. Quel Kings&Queens deve avere un raggio di una cinquantina di metri. E più è vicino al ghiaccio, più questo è letale.-
Picchiettò le nocche escoriate sul ghiaccio, continuando a parlare con voce tetra, senza voltarsi mai, il cappello calato sugli occhi.
-La palestra a malapena rientrerà nel suo raggio d’azione, eppure è tutto ricoperto di ghiaccio. Probabilmente il ghiaccio che blocca le uscite dall’altra parte della palestra sono di semplice ghiaccio, senza l’aggiunta dello stand dentro di esso.-
-Allora basta semplicemente correre dall’altra parte della palestra, no?- esultò Koichi, prendendo per mano Yukako, che già era pronta a fuggire assieme a lui attraverso i corridoi della palestra. Ma Jotaro negò.
-Se il ghiaccio qui è così duro, vuol dire che loro sono vicini. Loro sanno dove siamo, loro sanno che siamo ancora vivi. Se dovessimo correre dall’altra parte, bloccherebbero l’ingresso verso cui ci staremmo dirigendo. Se dovessimo separarci, ci attaccherebbero divisi, e ci ucciderebbero con facilità.-
Jotaro, questa volta, si voltò verso il suo gruppo, le loro espressioni più pietrificate del ghiaccio che stava tastando. –Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo rimanere uniti.-
Il gelo regnò sul gruppetto. La temperatura si stava abbassando, probabilmente a causa dello stand nemico. Jotaro si avvicinò a loro e si mise contro al muro opposto a quello della finestra, invitando tutti con un cenno di capo a seguirlo.
I sei si riunirono in cerchio, scossi ma determinati a uscire da lì. Jotaro, con uno sguardo carico di una specie di emozione primordiale, sembrava avere la vittoria in pugno.
-Ci serve un piano- sussurrò, col tono più basso che aveva. Si voltò verso Okuyasu, alla sua destra, passandogli un braccio dietro la schiena e sbattendo la mano sulla sua spalla, con una specie di sorrisetto in viso. –e avremo un grande bisogno del tuo aiuto, Okuyasu. Ce la farai?-
Okuyasu rimase ad osservarlo con un sorrisone emozionato e annuì, felice come non mai. –Certo.-
 
I quindici minuti erano passati da un pezzo, ma nessuno della banda si era ancora mosso. Nothing But the Beat, un grosso scatolotto d’acciaio con zampe robotiche, era appoggiato alla parete della palestra, davanti agli spogliatoi. Alex, a pochi metri dal proprio stand, ascoltava con attenzione le cuffie metalliche al suo collo, l’altra parte del proprio stand. Zarathustra era al suo fianco, 42 attivato sotto agli occhialoni rotti.
-Sono vivi- sentenziò Alex al resto della banda, in attesa dietro di loro.
-E si sono accorti di noi.- aggiunse la sorella maggiore, le mani in tasca e un atteggiamento fin troppo calmo.
-Volevano attaccare frontalmente, sfondando il ghiaccio, ma stanno cambiando piano. Ne stanno pensando uno per attaccarci e prenderci, al momento.-
Tutti gli altri si misero sulla difensiva, tranne Alex e Zarathustra. Quasi tutti.
Lei si voltò e osservò Ludovico mentre si sistemava la cravatta, calmo come al solito. –Che cazzo fai, Ludo?- gli gridò contro Piero, alzandosi la visiera dell’elmo di Seven Nation Army. Lui lo guardò di striscio mentre il Boss riprendeva a parlare. –Perché non spieghi a tutti cosa fai, Ludovico?- disse, con tono neutro ma evidentemente scherzoso. Lui alzò le spalle e alzò lo sguardo sul gruppo di amici. –Loro sanno dove siamo noi, ma noi sappiamo benissimo dove sono loro.- suggerì il ragazzo moro. Tutti si zittirono e rimasero ad ascoltarlo. –Non attaccheranno direttamente, cercheranno probabilmente un’altra soluzione per scappare. Dunque dov’è il problema? Anche se si spostassero, ci sposteremmo anche noi, e non riuscirebbero a uscire. L’aria finirà, prima o poi, mentre cercheranno di uscire probabilmente.-
Regina rimase concentrata sul controllare il ghiaccio, mentre il resto della Banda rimase a osservarlo. Aveva ragione, ormai non corrono più pericoli.
-E la- gli altri?- sussurrò Eriol, guardandosi intorno un po’ spaventata. Si sentiva il fiato sul collo, e non sapeva di chi.
Zarathustra non la guardò, e Regina la fulminò con lo sguardo.
-“Altri”? Ce ne sono degli altri?- gridò Davide, allarmato. –Non c’è nessun altro. Ora state zitti, Alex non sente.-
Alex sentiva benissimo anche col brusio di sottofondo dei suoi compagni, ma conosceva bene la sorella. Se non voleva parlarne, era perché non bisognava parlarne.
Dei rumori, tutto ad un tratto, provennero dall’interno dell’edificio. Rumori bassi, pesanti, di pugni.
Il ghiaccio incrostato nell’imposta della finestra iniziò a sgretolarsi, e assieme ad esso il muro e il vetro della finestra. All’altra finestra, ad almeno dieci metri di distanza, successe la stessa cosa. E ancora a un’altra finestra, e altri colpi alla finestra ricoperta di ghiaccio. Stavano tentando un attacco combinato.
Regina lanciò un grido e, senza troppi problemi, rafforzò il ghiaccio crepato. Tutto cessò.
Zarathustra prese Alex per il braccio e lo tirò indietro, dietro di sé, mettendosi davanti a lui e controllando con fin troppo nervosismo la parete ora immobile e muta. –Ritira lo stand.- disse lei. Lui tentò di schierarsi contro di lei, ma fece come gli fu detto. Lo stand scomparve in una nube argentata mentre lui si aggrappava alle sue spalle, benché lei fosse parecchio più bassa rispetto al giovane Alex.
Veloci come mai, tutti si compattarono, schiena contro schiena fissando la parete. –Che succede?- trillò Noemi, saltellando spaventata.
Troppo tardi Zarathustra notò i sottilissimi fili uscire dal ghiaccio. Non fece in tempo ad avvertire tutti gli altri che i fili si inspessirono, il ghiaccio si crepò attorno ad essi e una cascata di capelli neri sfondò la finestra, il muro, e le loro difese. Erano troppi, troppi capelli attorno a loro, che iniziarono a roteare attorno al gruppetto. Zarathustra lanciò un fischio acuto e tutti sfoderarono i propri stand, rimanendo stretti tra di loro, in mezzo a Love Deluxe, che ormai li aveva circondati. La massa di capelli si fiondò su di loro ma Imagine Dragon, lo stand di Noemi, spalancò le braccia e creò un campo di rallentamento tutt’attorno a loro. I capelli sembravano quasi immobili ora.
Love Deluxe aveva sfondato il muro, e i Joestar camminarono lentamente fuori dalla palestra. Yukako fu la prima ad uscire, con gli occhi infiammati e concentrati per mantenere la posizione del suo stand.
-Ottimo lavoro, Okuyasu.- sussurrò Jotaro, dando una gomitata amichevole a Okuyasu, sotto lo sguardo avvilito di Josuke.
-Siamo in una situazione di stallo- sentenziò Zarathustra. Finchè rimanevano nel campo protettivo di Imagine Dragon, erano al sicuro, e gli avversari non potevano attaccarli. Ma loro non se ne sarebbero andati finchè non avessero preso i componenti della banda. Appena qualche ciocca, con una lentezza inaudita, osava superare la barriera e avventarsi su di loro, le veloci lame alle dita di 42 le tranciava come se fossero di burro, e venivano intrappolate nel fango di Memory of Evermore. –Eriol.- esordì il Boss. La ragazza annuì, lisciandosi la lunga coda di cavallo.
Sotto ai piedi del gruppo dei Joestar, il terreno iniziò a cedere. Il fango imprigionò i loro piedi, e furono bloccati, ancora.
Jolyne lanciò un forte grido e il suo piede iniziò a scomporsi in fili sottili, che rimasero a loro volta impastati nella mota, che li risucchiava pian piano.
-Sono sabbie mobili!- gridò Koichi. –Non muovetevi!-
Il peso di Love Deluxe stava solo aumentando la velocità con cui Yukako stava profondando nelle sabbie mobili, ormai quasi al ginocchio, ma i suoi capelli continuavano a rimanere attorcigliati attorno alla sfera difensiva della Banda. Fu costretta a ritirarli, stremata e sudata per lo sforzo, tentando di reggersi alla spalla di Koichi.
-Koichi, usa Echoes e inverti la gravità!- gridò Jotaro. Koichi negò, prendendo Yukako per un braccio, nel tentativo di sollevarla, inutilmente. –Funziona solo se ho un qualcosa su cui posizionare la gravità, ma sopra di noi non c’è nulla…-
-Jojo, fa’ qualcosa, non puoi cambiare..?- tentò Okuyasu, bloccato dietro al marito, dandogli qualche lieve colpo sulla schiena. Con una forte manata Josuke lo fermò, voltandosi a fatica a gridargli contro, stanco e paonazzo dalle ustioni. –Se riuscissi a evocare ancora Crazy D, non credi che l’avrei già fatto, genio?!-
Okuyasu non seppe cosa rispondergli, a quel tono così cattivo nei suoi confronti. La sua stima tornò sotto ai piedi, tentò di balbettare qualcosa ma si bloccò tutto ad un tratto. Fissò davanti a sé, oltre alle guance quasi violacee dell’iracondo Josuke, esattamente di fronte a sé.
Imagine Dragon era stato ritirato, e Memory of Evermore aveva costruito un grosso muro tra il capo della Banda e i sei Joestar.
42 era dietro di lei, minaccioso e con grosse spine irte sulla sua schiena.
Sul viso di Zarathustra c’era una strana espressione. Non disse nulla.
42 si piegò su di lei, arrotolandosi a riccio, le spine lunghe, molteplici e ormai cariche di scosse elettriche.
Okuyasu andò nel panico e smise di pensare. Evocò a malapena un braccio di The Hand e colpì l’interno del ginocchio di Josuke, che cadde a terra con un tonfo, la faccia premuta contro il fango.
Gridò contro il fango dal dolore, sentendosi estremamente ferito da quel comportamento così violento verso di lui. Era immobilizzato, a malapena riusciva a respirare con le sabbie mobili che gli imprigionavano metà viso, le mani ormai completamente dentro la poltiglia appiccicosa, che sembrava più colla che sabbia.
Quando sentì il fango asciugarsi, alzò immediatamente la testa. Era diventato semplice terriccio, quasi asciutto sotto le sue mani.
Si voltò per dire qualcosa a Okuyasu, ma non vide nessuno in piedi. Erano tutti crollati a terra, riversi sul suolo fangoso.
42 si era chiuso a riccio e aveva sparato i propri aghi, miriadi di grossi aghi acuminati ed elettrificati tutto attorno a sé, colpendo chiunque fosse in traiettoria. E il suo obiettivo era colpire i Joestar.
Josuke rimase immobile, terrorizzato. Si girò ad osservare la banda, ma loro ormai erano lontani. Girati di schiena, mentre camminavano oziosamente verso la campagna, senza prestare loro attenzione.
Josuke rimase immobile, inginocchiato a terra, incredulo. C’era un solo motivo se loro se ne stavano andando con tanta calma, e lui non voleva crederci.
Tastò sul terreno e afferrò la mano di Okuyasu, fredda ed escoriata. Non poteva essere. Strisciò sul terriccio e si piegò su di lui, guardandolo in viso. Aveva gli occhi chiusi, era riverso a terra e non sentiva nemmeno il suo respiro. Appoggiò la testa al suo petto e strinse gli occhi per non scoppiare a piangere, sentendosi tremare come una foglia. Sentiva solo il proprio battito nelle orecchie, il sangue che fluiva veloce, l’adrenalina che pian piano svaniva, le braccia pesanti e un groppo alla gola. Gli aveva appena urlato contro, lui l’aveva salvato. Si sentiva impotente, incredulo che quei ragazzini avessero fatto del male a lui, proprio a lui.
Da una marea di pensieri, ammassati tutti assieme nella sua mente come i corpi dei suoi compagni riversi a terra, non ce ne fu più nessuno.
Josuke smise di pensare.
Si alzò in piedi, i vestiti sporchi di fango e i capelli arruffati, si piegò sul terreno e afferrò un grosso sasso.
Il suo sguardo era del tutto stravolto dalla rabbia, e con un grido iniziò a correre dietro gli otto ragazzi, che si voltarono sconcertati.
La Banda non fece in tempo ad accorgersi di cosa stesse accadendo che Josuke evocò il proprio Crazy Diamond, rosso quasi quanto il suo viso, e scagliò la pietra che aveva in mano con tutta la forza che gli rimaneva in corpo.
Zarathustra si voltò ad osservare quello che aveva resistito al suo micidiale colpo finale, ma tutto ciò che vide fu un grosso sasso venirle incontro. Per la prima volta, si trovò senza un piano, e venne semplicemente colpita.
Cadde a terra come un sacco di patate, gli occhialoni frantumati e l’occhio che aveva definitivamente smesso di brillare sotto di essi.
E cadde il panico sulla Banda.
Eriol e Ludovico si piegarono sul loro capo, gridando disperati, mentre Piero evocava di nuovo il proprio Seven Nation Army, buttandosi sopra l’aggressore. Crazy Diamond lo afferrò per l’elmo e lo strinse tanto da spezzarlo, mentre Piero tentava in ogni modo di buttarlo a terra, cercando di tirare forti calci sulla testa dell’enorme stand azzurro e rosa. Piero constatò che, benchè ormai il viso dell’uomo fosse escoriato e sanguinolento per i continui calci, la sua espressione non era minimamente cambiata. Buttò a terra Seven Nation Army e iniziò a pestarlo, cercando di rompere l’armatura che lo ricopriva, ormai incrinata e piena di crepe. Non si sarebbe fermato, nemmeno una volta che l’avesse ucciso.
-Noemi! Regina! Veloci, attaccatelo! Salvate Piero, cazzo, lo ucciderà!- gridò Ludovico, il vicecapo della Banda delle Onde Concentriche, quasi in lacrime. Noemi con un grido evocò il proprio Imagine Dragon, che iniziò a frustarlo con la sua grossa coda ossuta mentre cercava di tirare via da sotto la suola delle sue scarpe ormai rotte e sfilacciate il povero Piero, quasi incosciente. Ci volle poco perché Crazy Diamond non fermasse le artigliate di Imagine Dragon, prendendolo per la coda e facendolo volare via di qualche metro assieme alla portatrice. Si incamminò lentamente verso di lei, mentre tentava di rialzarsi, terrorizzata. Si sgranchì le nocche e alzò un braccio, pronto a colpirla.
Alex corse contro Josuke e tentò di assestargli un pugno, terrorizzato, nel tentativo di vendicare la sorella e fermarlo da quel massacro, ma fu inutile. Josuke si voltò e rimase ad osservarlo, senza davvero vederlo. La sua espressione era qualcosa di innaturale, che non aveva mai visto nemmeno nei vampiri. Sentì le ginocchia cedere e tremare, e gridò disperato mentre tentava di arretrare, cadendo a terra e strisciando sul selciato irregolare.
Strinse gli occhi e si portò le mani davanti al viso mentre credeva che la sua vita fosse davvero finita, questa volta definitivamente.
Una vampata d’acqua calda, tutto ad un tratto, scorse sopra i suoi capelli. Alzò la testa e vide un torrente di acqua rossa e fumante colpire l’uomo davanti a sé e farlo stramazzare a terra, le mani sul viso.
Regina era dietro Alex. Passò una mano tra i suoi capelli e lo aiutò a rialzarsi, stringendogli affettuosamente una mano. –Ale, vai da tua sorella. Qua ci penso io.-
Alex annuì infantilmente e le sorrise, stringendole con forza la mano e correndo verso il punto in cui Eriol, Ludovico e Davide cercavano di curare i feriti.
Regina rimase di fronte a Josuke, che si rialzò in piedi con fin troppa velocità.
Nessuno dei due, al momento, stava ragionando.
Kings&Queen aleggiava dietro di lei, stravolta e di un rosso acceso. Il suo ampio abito liquido sembrava più decorato, la corona sulla sua testa più appuntita, e il suo sguardo stravolto dall’odio.
Con un grido si avventò su Crazy Diamond, che fece lo stesso. Pugno contro pugno, le nocche di Josuke si spellarono e si disossarono per il calore dell’acqua, e la mano dello stand d’acqua ribollente rimase poco più che un moncherino sotto al potere dello stand più grosso.
Josuke abbassò una mano su regina e le afferrò la mandibola, stringendo con tanta forza da farla urlare dal dolore mentre premeva le dita sulla sua trachea, lasciando rossissimi segni sulla sua pelle. Regina gridò dal dolore e affondò la bacchetta acuminata nel suo braccio, più in profondità che poteva, cercando di farlo desistere. La presa sulla bacchetta diventava sempre meno forte a causa dell’ingente quantità di sangue che colava dal taglio, e la sua presa sempre meno forte sul suo collo.  
Kings&Queens si gettò sul viso di Josuke e lo ustionarono un’ultima volta, lasciando la presa sulla ragazza, che stramazzò a terra. Josuke premette il ginocchio sul suo addome e iniziò a colpirla in viso a suon di pugni mentre lei tentava di difendersi, colpendolo con le bacchette e perforandogli le spalle e il braccio, senza riuscire a disarcionarlo da sé. Non riusciva a respirare e a usare le onde concentriche, i polmoni le bruciavano e il viso le doleva e i suoi colpi le rimbombavano nel cervello, finchè, dietro di lui, non apparve un’enorme figura dal lungo cappotto indaco.
-Josuke, ora basta.-
La mano del grosso stand lilla davanti all’uomo dall’occhio solcato da una grossa cicatrice e il cappello calato sul viso si calò sulla nuca di Josuke, che crollò a terra. Prima che si potesse rialzare ancora Jotaro si piegò su di lui e lo schiaffeggiò con forza, cercando di fargli riprendere il senno.
-Jojo!!- gridò Okuyasu, indolenzito e un po’ zoppicante, inginocchiandosi al suo fianco. Josuke lo guardò ancora non lucido e Okuyasu sospirò, accarezzandogli lentamente una guancia ustionata. –Sto bene.-
Il suo sguardo era vitreo e preoccupato, i suoi occhi rossi sgranati mentre afferrava i polsi del marito. –Oku? Tu non..? Voi…!-
-Ci avevano solo stordito- trillò Koichi comparendo da dietro l’imponente schiena di Jotaro. –Non siamo morti!-
Josuke piano piano riprese coscienza, e si mise a gridare per il dolore al viso, piegandosi su sé stesso e strappando l’erba da sotto i propri piedi a forza di calci.
-Crazy Diamond sta già facendo effetto- disse Jotaro monotono, alzandogli una mano e osservando la zona di pelle rossa intorno ai suoi occhi diventare lentamente sempre più ristretta. –Meno male che, anche se non ti cura, ti dona la capacità di guarire a una grande velocità… sennò saresti probabilmente cieco, ora.-
Josuke stava per rispondere con un “come te”, ma riuscì a trattenersi, tentando di rialzarsi in piedi. Ma Jotaro negò con forza.
-Curala.- disse, indicando la ragazza a terra con un cenno della testa.
Ben poco convinto, Josuke evocò Crazy D e allungò un braccio verso Regina, che tentò di tirarsi indietro. Koichi si mise al suo fianco e si inginocchiò vicino a lei, osservandola.
-Hey, non vogliamo farvi del male!-
-Lui mi ha quasi ucciso!- gridò Regina.
-Lui è un dottore. Un po’ pazzo, ma… te lo giuro, non siamo qui per uccidervi.-
Regina rimase ad osservarlo, non del tutto convinta, rimanendo comunque ferma. Non aveva nient’altro da perdere, tuttavia.
Josuke appoggiò la mano del proprio stand alla sua testa, e in pochi secondi il dolore sparì. Si passò i guanti blu sul naso e non gocciolava più sangue.
-Mi hai guarita davvero?!- gridò lei, scattando in piedi. Josuke si sfilò la maglietta e se la avvolse attorno al braccio grondante di sangue, più volte colpito dal suo stand e dalle sue bacchette, annuendo con veemenza senza guardarla in viso.
-Ora ti fidi?- disse Koichi, spuntando alle sue spalle. La ragazza castana sospirò e annuì, lasciandosi scappare un sorriso stanco. –Mi fido.-
 
Zarathustra riaprì gli occhi, e si accorse che il cielo non era più il giallo dei suoi occhialoni. Istintivamente chiuse l’occhio destro e si mise a sedere, scrutando i componenti della banda al suo fianco col suo occhio nero come la pece. Alex piangeva al suo fianco, Regina tremava, e Ludovico si asciugava il sudore dalla fronte. –Allora erano davvero sinceri.- sussurrò lui, alzando lo sguardo. Zara fece lo stesso, incontrando lo sguardo duro di Jotaro.
Non disse nulla, rimase a guardare gli estranei attorno a sé, con il suo sguardo freddo tanto quando i suoi soliti occhiali. Aspettava una spiegazione, e subito.
-Noi siamo qui solo per parlarvi- sentenziò Jotaro, rimanendo ad osservarla. Zarathustra prese i suoi occhiali e osservò il grosso buco nella visiera con insistenza, finchè non le vennero strappati di mano dalla mano ustionata di Josuke. Li prese tra le dita e li aggiustò, sbattendoglieli di nuovo tra le mani. Lei se li infilò e si alzò in piedi, spolverandosi la giacca rossa.
-Volete parlarmi, vero?-
Jotaro annuì, a braccia incrociate al petto di fronte a lei.
-Siamo qui per i vampiri.- disse Jotaro, mentre tutti i componenti della Banda, ora sani e guariti, tornavano a disporsi in un gruppetto compatto contro di loro. Questa volta erano in attesa, in ascolto, osservandoli attentamente uno a uno.
-Noi abbiamo informazioni sui vampiri. E sappiamo che ne avete anche voi.- continuò Jotaro. Zarathustra continuò a guardarlo intensamente col suo occhio rosso indagatore. –Perché ci sono tutti questi vampiri, ci state chiedendo?-
-Voi lo sapete?-
-Sappiamo certamente più di voi.- borbottò Zarathustra in risposta. –Ci stai proponendo di collaborare con le vostre investigazioni sul territorio?-
Jotaro annuì, mettendosi le mani in tasca. Alle sue spalle, tutti lo guardavano incuriositi. In realtà, nessuno di loro sapeva quali fossero i suoi piani.
-Aiutarci a vicenda. Indagare assieme.- concluse Jotaro. Zarathustra annuì.
-Mi piace come idea, Joestar.-
Alzò una mano e tutti rizzarono la schiena. –Andatevene- disse in tono marziale. –Solo Regina rimanga qui.-
Ludovico annuì poco convinto e guidò i sei restanti verso la parte nord dell’Istituto. –Torniamo alle macchine, noi- disse al boss, che annuì con un cenno del capo, Regina ritta dietro di lei, come una specie di guardia del corpo.
-Ma io voglio una cosa in cambio. Ovviamente è solo per il bene dell’umanità. Siamo sempre alla ricerca di buoni guerrieri delle onde concentriche e… la ragazzina mora sembra portata. Vorrei si unisse alla mia Banda, venisse ad abitare temporaneamente al nostro casale, per allenarsi e…-
-Non se ne parla!- sbottò Josuke, scansando Jotaro con una manata e puntando un dito verso a Zarathustra. –Non dirlo nemmeno, nana! Io ti ammazzo!-
Regina fece un passo in avanti e puntò una bacchetta al braccio offeso nel combattimento precedente, e Josuke si tirò istintivamente indietro. Quella Regina iniziava a spaventarlo. Era spietata, efficiente e ai completi ordini di Zarathustra. –Io non… non voglio che la mia Shizuka stia assieme a voi.-
-Josuke, se provassi a lasciarla andare, potrebbe essere utile! Imparerebbe meglio le Onde Concentriche, e potrebbe aiutare a…-
Koichi tentò di parlargli ma Josuke lo prese per il bavero della camicia, strattonandolo e gridandogli contro. –Lei è la mia unica figlia, è solo una bambina! Finchè io sarò suo padre, lei non farà nulla di pericoloso! È chiaro!?-
Yukako e Okuyasu intervennero per separare Josuke, su tutte le furie.
Nella furia di Josuke, però, questa volta non c’era la rabbia.
Lo sapeva Koichi, lo sapeva Yukako, e lo sapeva soprattutto Okuyasu. Prese le mani di Josuke tra le sue e le strinse un po’, nel tentativo di calmarlo.
Josuke abbassò la testa e annuì alla muta rassicurazione di Okuyasu, zittendosi.
-Ci penseremo.- disse semplicemente Jotaro.
Zarathustra rimase ad osservarli e voltò loro le spalle, lo sguardo celeste di Regina puntato su tutti loro.
-Potete trovarci a Ronco, una piccola frazione nella periferia di La Bassa. Via Zucca 91.-
Zarathustra fece per incamminarsi verso il luogo dove i suoi compagni erano spariti, minuti fa.
Jotaro le si avvicinò e le appoggiò una mano sulla spalla. –Aspetta, Zeppeli. Ho un’ultima cosa da chiederti.-
Il Boss lentamente si voltò verso di lui, rivolgendogli un mezzo sorriso.
 
Shizuka aveva sentito fin troppo. Ancora mano nella mano nella zia, la strattonò con forza e la trascinò fino al parcheggio, le lacrime agli occhi. Non poteva fare nulla, era in trappola. Le era stata data una possibilità di splendere come una stella, come tutte le stelle nella sua famiglia, ma le fu strappata via, ancora.
Tornò visibile a pochi metri dal parcheggio e si sentì le lacrime agli occhi, correndo sul suv noleggiato dai genitori il più velocemente possibile, chiudendosi dentro di esso e rannicchiandosi sui sedili posteriori, singhiozzando silenziosamente.
Credeva di esserci arrivata, di poter finalmente vivere la propria esperienza, come avevano fatto i suoi genitori, suo zio, sua cugina, suo nonno e altri parenti che mai ha conosciuto, ma le loro avventure si sono ripercosse su tutta la famiglia come un terremoto.
Shizuka voleva la gloria, e l’avrebbe ottenuta a ogni costo.
Holly rincuorò Rosanna e Emporio, mentre con lentezza il consistente gruppo tornava al parcheggio. Zoppicavano, erano lenti, ma grazie a Crazy Diamond non era rimasto che qualche livido su gomiti e nocche.
-Cosa ti è successo?- trillò Rosanna. Il basso borbottio del padre fu l’unica risposta che Shizuka riuscì a sentire da dentro il suv.
La portella si aprì e il viso tumefatto di Josuke si presentò davanti agli occhi arrossati di Shizuka.
-Hai pianto.- mugolò lui, sedendosi al suo fianco. Lei si fece piccola piccola e si voltò dall’altra parte. –Ti hanno massacrato di botte.- rispose lei, avvelenata. Lui la avvolse con un braccio e la stritolò al proprio petto, stringendola peggio di come avrebbe fatto la cintura di sicurezza dell’auto. Ma lei non voleva essere stretta a lui, non voleva nemmeno vederlo in faccia. Le aveva tarpato le ali, l’aveva chiusa in gabbia.
Okuyasu si sedette sul sedile anteriore del passeggero, al fianco di Yukako. Koichi si sedette vicino a Shizuka, a osservarla mentre rimaneva rigida contro la spalla ustionata del padre, le braccia incrociate al petto e la mascella contratta dalla rabbia.
Josuke non alzò lo sguardo su Koichi, mentre lui tentava invano di parlargli.
Dopo un breve pranzo in un bar-ristorante non lontano dall’Istituto, ripartirono a riposarsi.
Il viaggio durò poco, almeno così credette Shizuka. Quasi venti minuti d’auto, da La Bassa a Roccarolo, il paese che ospitava l’albergo prenotato da tutti loro. Il Po sfavillava di grigio e bianco, le onde e i mulinelli che pigramente scorrevano verso destra, rispecchiando un cielo altrettanto neutro.
L’albergo distava pochi chilometri da La Bassa, appena sopra il Po. Un grosso palazzone arancione, con tante finestre, tante piccole balconate e un grosso giardino anteriore, contornato da un complesso cancello di bronzo.
“Colori del Tramonto”, si chiamava l’hotel. Entrarono lentamente dal parcheggio posteriore, e rimasero tutto poco giorno che ormai era rimasto a mettersi a posto nella loro camera. Shizuka, Okuyasu e Josuke ne prenotarono una sola. Shizuka dormì nel letto singolo, di fianco al letto matrimoniale dei genitori. Dopo una veloce doccia affondò subito tra le coperte, non volendo più saperne niente di nulla e nessuno. Aveva il sangue che le ribolliva nelle vene e le lacrime agli occhi al solo ripensare l’occasione che aveva perso.
Josuke era messo talmente male che a malapena riuscì a pulirsi dal dolore. Sul suo corpo, ormai, erano rimaste ben poche delle escoriazioni originali della mattinata. Il suo stand non poteva direttamente guarirlo, ma gli dava un potere di guarigione spaventoso. In due o tre giorni sarebbe sparito tutto, e sarebbe tornato a splendere come un sole.
Si addormentò prima di tutti, il viso contro il muro e la coperta fin sopra al naso. Non aveva ancora detto una parola, da quando era tornato. Il periodo a La Bassa era fin troppo difficile per lui.
Okuyasu, dopo aver sistemato il contenuto di qualche valigia nell’armadio, abbandonò il lavoro e si mise a letto a sua volta. Baciò la fronte della figlia e le sorrise dolcemente, i suoi lunghi capelli che ricadevano sul viso di Shizuka. Lei se li scostò dalla guancia e gli rivolse un sorrisetto. –Buonanotte pa’.- sussurrò lei. –Dormi bene, piccola mia.- Le diede un leggero bacio sul naso e le sorrise, tornando al proprio letto e lasciandola finalmente sola, tra i suoi sogni infranti e la sua rabbia.
Si coricò di fianco al marito, che gli dava crudelmente la schiena, e si addormentò velocemente, respirando lievemente nel buio della stanza.
Gli occhi scuri di Shizuka erano puntati in alto, verso il soffitto nero.
Non si sarebbe lasciata abbattere così. Si sarebbe liberata dalla gabbia, avrebbe spalancato le ali tarpate, e avrebbe compiuto la sua avventura.
Shizuka chiuse piano gli occhi, e sognò di imparare a volare.
 
 
 
 
One of these days, I’m gonna cut you into little pieces.
One Of These Days, Pink Floyd (Meddle, 1971)
 
Note dell’autrice
Buonasera a tutti! Finalmente DH è ricominciato. A causa dell’università che mi sta affaticando un po’ tantino gli aggiornamenti saranno molto lenti.
Tuttavia, pubblicherò più o meno tutti i giorni sulla pagina ufficiale di DH!
https://www.facebook.com/DangerousHeritage/
Se volete seguire gli aggiornamenti, le teorie e le illustrazioni di Dangerous Heritage, seguite la pagina!
Dopo questo capitolone in cui (finalmente) finisce il combattimento tra Banda e Joestar, posso promettervi che cambierà tutto. Anche se probabilmente il sentore di cambiamento si poteva intuire anche dal capitolo.
Ci vediamo al prossimo aggiornamento o sulla pagina, ciao a tutti! 
   
 
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