Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: rossella0806    04/11/2016    2 recensioni
E' vero che la vita toglie sempre qualcosa per poi restituire con gli interessi?
E' quello che pensa Lara, una ragazza di ventitré anni, che studia Lingue a Milano ed è nata due volte.
Quattro anni prima, infatti, era stata rinvenuta esanime nella camera del convitto in cui si era trasferita dopo la fine delle superiori; l'incidente misterioso che l'ha vista coinvolta non è mai stato chiarito, costringendola a rimanere in coma per tre mesi.
Quando si sveglia, un giorno di fine aprile, non ricorda nulla, sa solo che deve riprendere in mano la sua vita e, per farlo, dovrà impiegare tutta la forza e la caparbietà che nemmeno lei sapeva di possedere.
La riabilitazione nel reparto di Neurochirurgia durerà un altro mese, ma alla fine ne uscirà vittoriosa e più determinata che mai, anche grazie all'aiuto del dottor Cavani, l'uomo a cui deve la sua stessa vita, e di cui si innamorerà perdutamente.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed in salita.
Riuscirà Lara ad affrontarla?
P.S. Il titolo della storia è un omaggio al film (tratto dall'omonimo libro) di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", un autentico capolavoro che vi consiglio di vedere!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Un giorno qualunque
sarai solo un ricordo spazzato da questa corrente
scommessa mancata che non vale niente
Da un posto qualunque
quando provi a pensare al futuro ma ti torna in
mente la nostra bellezza
Un ricordo è per sempre
quanto è amara adesso la felicità
In questa stanza il silenzio è solo
100 mila watt

(Dolcenera, “100 mila watt”, 2016)




Ho riflettuto molte volte sul fatto che, probabilmente, senza di lui non sarei riuscita a sopportare la tortura di quei giorni lontani.
Spesso, nelle esperienze negative della vita, avere accanto una persona estranea è più importante di un amico, di un conoscente, persino di un parente.
La persona estranea non ti deve nulla, e tu non devi nulla a lei, non è costretta a indorarti la pillola prima di fartela ingoiare, non tira l'acqua al suo mulino e non finge di credere che tutto andrà bene, per il semplice fatto che, non conoscendoti, non sarà mai in competizione con te.
Sapere che lui era lì, in quella sorta di prigione riabilitativa, essere certi che ogni giorno lo avrei anche solo intravisto, significava molto di più che i minuscoli passi in avanti che, tra difficoltà insormontabili, riuscivo a compiere a fatica.
Due settimane dopo le mie dimissioni -erano i primi di un giugno piovoso ma afoso- ritornai in ospedale per il follow-up programmato.
Mi accompagnò mia madre, agitata come al solito, e arrivammo all'ingresso della struttura appena dieci minuti in anticipo sull'orario prefissato.
Sul foglio che il dottor Cavani mi aveva dato, c'era scritto che avrei dovuto recarmi alle nove e mezza presso l'ambulatorio B, piano terra, seguendo il percorso blu che si snodava sul pavimento.
“Aspetta, vado a chiedere” ebbe la brillante idea mia madre, più che altro per rassicurare se stessa e arginare l'ansia che cercava di rifilare anche a me.
Annuii poco convinta, mentre si defilava in mezzo alla folla, quindi mi accomodai su una delle sedie plastificate all'ingresso, di un non meglio specificato giallo sporco.
Mi guardai attorno, travolta dalla marea di gente -pazienti, medici e magazzinieri- che fluiva davanti ai miei occhi.
Dentro di me, però, stavo pregando di poterlo rivedere, che ci fosse lui ad attendermi per visitarmi.
A casa, in quei giorni, ero riuscita a non pensarlo troppo, sebbene parte della notte ed il risveglio fossero praticamente sempre accompagnati dalla sua immagine, sorridente e carismatica.
E quando capitava, rimanevo a fissare il soffitto immerso nel buio, domandandomi che cosa mi spingesse a torturarmi l'esistenza con il ricordo di un uomo che, in tutta sincerità, praticamente non potevo affermare di conoscere.
Ai miei interrogativi, trovai diverse risposte, ma ognuna riassumeva un'unica spiegazione a metà tra il razionale e l'irrazionale: ero innamorata, il perché e il come non lo sapevo, ma nemmeno m'importava scoprirlo.
D’altronde, cos'è che ci spinge a dire che quella persona, a pelle, ci piace più di un'altra che conosciamo da una vita? Ecco, nell'amore ero e sono convinta che i meccanismi che subentrano siano i medesimi, misteriosi ed ancestrali, difficili da comprendere alla mente umana.
“Trovato!” esclamò mia madre, scuotendomi dalle mie suppliche mentali.
Tornò entusiasta della sua scoperta, brandendo il foglio su cui erano appuntate le informazioni relative alla visita.
Guardai l'orologio, scoprendo che alle nove e mezza mancava solo un minuto, e ci precipitammo verso il corridoio alla nostra destra, mentre lei mi trascinava a forza, allo stesso modo di come faceva quando ero piccola, quando mi rifiutavo di tornare a casa, dopo la festa di compleanno di qualche amichetta.
Percorremmo il tragitto che ci separava dalla meta in un tempo record, scansando le file asimmetriche di pazienti e potenziali tali, che stavano attendendo il proprio turno in maniera incredibilmente ordinata.
Scendemmo una decina di gradini di marmo nero, angusti e poco illuminati, quindi arrivammo in una larga sala d'attesa, le sedie di plastica arancione e un immenso schermo a LED su cui brillavano lettere e cifre.
“Mamma, credo dobbiamo fare l'accettazione. Non ce la faremo mai...”
Guardai affranta il bancone da reception che svettava a pochi metri di distanza, lucido e degno di un hotel Hilton.
Mi stavo avvicinando alla schiera di tuttofare che, abbaglianti nelle loro divise rosse e bianche, già mi stavano rivolgendo un sorriso da pubblicità, quando la mia solerte genitrice mi bloccò, spiegandomi con aria sorniona che ci aveva già pensato lei al piano di sopra.
“Abbiamo il numero E178” concluse soddisfatta, mettendosi a sedere e invitandomi a fare lo stesso.
Sospirai agitata, cominciando a torturare la tracolla della borsa antracite che avevo abbinato ad un vestito color panna.
Sbirciai il LED, accorgendomi che era proprio il mio numero a lampeggiare, e mi lasciai sfuggire un sorriso nervoso.
Scattai in piedi, controllando sullo schermo il numero della stanza in cui sarei dovuta andare, pronta ad avviarmi verso il destino e, speravo ardentemente, anche verso di lui, quando la voce irritata di mia madre mi spinse a fare dietrofront.
“Lara! Aspettami, no? Che fretta hai?!”
“Nessuna, a parte il fatto che stanno chiamando il mio numero… ma non vorrai venire, vero?”
Una sensazione di puro terrore mi attraversò la mente, all'idea abominevole di averla tra i piedi, come guardia del corpo del tutto sgradita.
Si alzò per cercare di far valere i suoi diritti di accompagnatrice ufficiale, ma fu inutile, perché continuai a rimanere irremovibile sulla mia decisione.
Le scoccai un'occhiata fin troppo eloquente che la convinse a desistere e, alla fine, mi avviai verso l'ennesimo corridoio, più stretto dei precedenti, con le pareti tappezzate di manifesti salutisti.
Avevo percorso appena pochi passi, cercando il numero della stanza che si celava dietro le porte scure laccate, quando lo vidi, splendido nel suo camice bianco.
Era in mezzo al passaggio, le mani dietro la schiena, e mi stava attendendo con un ampio sorriso di benvenuto sul bel volto ricoperto di barba.
Stupidamente, ricambiai con una infantile alzata di mano, e subito mi diedi dell'imbecille.
“Ciao, Lara …”
La sua voce aprì un baratro sotto i miei piedi, e il contatto dei nostri palmi fu un piacevolissimo déjà-vu, mentre gli rispondevo con un semplice quanto banale buongiorno.
Mi ritrovai a pensare che, stranamente, non avevo il cuore in tumulto, né tantomeno le guance arrostite dall'emozione, ma l'atmosfera che avvertivo era ugualmente eccitante.
“Allora, come stai? Come andiamo?”
Ci accomodammo uno di fronte all'altra, la scrivania di fòrmica color pesca a dividerci.
“Bene, molto bene …”
Accolse la mia risposta annuendo soddisfatto, le dita incrociate ed il busto leggermente proteso in avanti.
Mi domandò se a casa avessi avuto qualche disturbo, quali dei mal di testa improvvisi, giramenti del capo, annebbiamento della vista, turbe dell'equilibrio, persino febbre e vomito, ma io lo rassicurai, dicendo che non vi erano state problematiche di sorta alcuna, a parte qualche rara volta in cui facevo difficoltà a concentrarmi su più argomenti in contemporanea.
Scrisse a computer qualcosa che non potei vedere, quindi tornò a concentrarsi su di me.
Passò infatti a visitarmi, facendomi sdraiare su un lettino di pelle.
Il suo tocco delicato rappresentava un piacevole lenitivo e una più che lauta ricompensa alle mie aspettative di rivederlo.
Era così bello essere lì con lui…
“Adesso mettiti seduta, Lara, così ti controllo i riflessi patellare e pupillare”
Infatti, aveva appena concluso di mobilizzarmi gli arti superiori ed inferiori, e adesso mi stava aiutando ad alzarmi.
Con il martelletto che picchiettava su gomiti e le ginocchia e la minitorcia tascabile puntata nelle iridi, concluse la prima parte della visita, perché poi mi disse di fare una serie di esercizi ad occhi chiusi e di camminare sul pavimento di linoleum, fingendo di seguire una linea immaginaria tracciata per terra.
“Stai recuperando davvero in fretta!” constatò, invitandomi a rivestirmi.
“Sto facendo fisioterapia, come mi ha consigliato”
“E va benissimo, infatti. Ascolta, avrei pensato di indirizzarti verso un centro specialistico. Si trova sempre qui a Milano ma, rispetto a noi, si occupa esclusivamente di pazienti che sono stati in coma”
Aveva appena finito di lavarsi le mani nel lavandino posto su una parete piastrellata della stanza, e mi stava dando le spalle.
Il suo tono non era più allegro, o forse era solo una mia sensazione, ma il fatto che non mi guardasse negli occhi, mi fece presupporre che non fosse così entusiasta di darmi quella notizia.
“Che cosa vuol dire?” domandai in apprensione, temendo di non rivederlo mai più.
Lui tornò a girarsi verso di me e, ad occhi bassi, mi accennò a riprendere posto.
“Significa che, da adesso in poi, i prossimi controlli li farai da loro, e che qui verrai solo se strettamente necessario”
Deglutii e distolsi lo sguardo, reprimendo le lacrime che avvertivo pungermi la congiuntiva.
Mi diedi della stupida, dell’inguaribile romantica, per aver pensato di potermi accontentare dei follow-up pur di stargli vicino, pur di continuare a vederlo.
Adesso, invece, il castello di sogni che avevo realizzato nella mente andava sgretolandosi, distruggendosi piano dopo piano, stanza dopo stanza.
“Lara, questo non vuol dire che smetteremo di occuparci di te, nel modo più assoluto. Rimarremo sempre in contatto con i colleghi dell'altra struttura, in modo da avere tue notizie. E poi, se tu vorrai, potrai venire a trovarci”
Avrei voluto gridargli che non mi sarei accontentata, che non poteva trattarmi come un pacco postale, che io lo amavo e… ovviamente non feci nulla di tutto questo, a malapena riuscivo a sopportare lo sguardo ambrato che aveva di nuovo posato su di me.
“Nel resoconto della visita di oggi, ti scriverò anche il nome della struttura e la collega a cui puoi rivolgerti. E' un' ottima professionista, credimi, e sono più che convinto che con lei ti troverai a meraviglia”
Dissi che andava bene, anche se avrei voluto sparire, anzi, avrei voluto non averlo mai incontrato, desideravo solamente che lui non fosse mai esistito.
Aspettai che la stampante sputasse fuori il foglio a cui aveva accennato pochi istanti prima, mentre nel frattempo mi imponevo di mantenere un certo contegno.
“Ecco a te. Allora arrivederci, Lara. Se hai bisogno di qualunque cosa, sai dove trovarmi”
Ci stringemmo la mano, il sorriso tirato di lui che si raccomandava di portare i suoi saluti ai miei genitori.
Lo ringraziai, più per cortesia che per necessità, e tentai di abbozzare un’espressione soddisfatta.
Mi tenne aperta la porta per farmi uscire, mentre i nostri occhi s'incrociavano ancora una volta.
Poi, ripercorsi a ritroso il tragitto lungo il corridoio, senza mai voltarmi indietro.
“Finalmente! Ma quanto tempo ti ha tenuta dentro? Sono le dieci e un quarto!” mi punzecchiò mia madre, venendomi incontro.
“È andato tutto bene? Cosa ti ha detto? Ti ha trovata bene?”
Mi accarezzò una guancia, indagando con uno sguardo preoccupato che cosa fosse accaduto di talmente grave da giustificare l'espressione di smarrimento che avvertivo avere sul volto.
“Sì, è tutto a posto, mamma, non preoccuparti. Ho solo voglia di tornare a casa. Dai, andiamo”
La precedetti senza spiegarle altro, continuando a camminare.
Risalimmo gli angusti gradini di marmo nero, quindi zigzagammo tra la folla in coda agli sportelli di prenotazione e accettazione.
Sentivo che non avrei retto ancora a lungo: mi morsi le labbra e, con una mano, mi asciugai le lacrime, arricciando il naso in una smorfia di dolore.
Mi sentivo usata, trattata come una qualsiasi paziente.
Ma che cosa ti aspettavi? mi domandai, che ti supplicasse di rimanere per sempre con lui? Tu sei solo una paziente come migliaia di altre che si sono susseguite, e che ancora si susseguiranno.
Non sei nulla per il grande dottor Cavani, non vali niente per lui, significhi meno di zero nella sua lista degli affetti.
“Aspettami, Lara! Insomma, mi vuoi dire che ti succede?” sbottò mia madre, mentre mi raggiungeva nel cortile dell'ospedale.
Scrollai le spalle, porgendole il foglio che quell'uomo ormai odiato aveva compilato.
Lo lesse d’un fiato, mormorando le parole che vi erano impresse, e assunse un'espressione dubbiosa, subito seguita da un sorriso.
“Beh, non sei contenta? Insomma, è uno dei centri più rinomati per questo tipo di problema, almeno da quello che dicono TV e giornali. E poi, è anche vicino allo svincolo autostradale, così non dovremo ogni volta attraversare mezza città!”
La guardai sbuffando e, riprendendo il pezzo di carta incriminato, salii in macchina, mentre nella testa mi rimbombavano alcune strofe della canzone della Mannoia, “Perfetti Sconosciuti”, il colpo di grazia di quella mattinata inconcludente.
Quando i silenzi si mettevano tra noi e ognuno andava per i fatti suoi come perfetti sconosciuti.
Doveva andare tutto così anche se adesso ci troviamo qui sulla stessa strada, dopo una vita già spesa...
Non mi ero mai sentita così sola e depressa, mai.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: rossella0806