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Autore: DonnaBart    13/11/2016    0 recensioni
E se uno sfortunato incidente si rivelasse ciò che aspetti da sempre?
La spumeggiante Magda Liquore è un'artista del pasticcio e dea del danno. Mollata dal fidanzato e licenziata in tronco, vanta un bagaglio più ricco in corna che ex.
Proprio non è un caso che il padre la consideri un talento del fallimento, per non parlare della zia stralunata e sempre allegra, che le affibbia profezie sul futuro rosee in teoria ma disastrose nella realtà.
Insomma, parrebbe che fortuna e amore non fanno rima con Magda Liquore... sino alla svolta: trasferimento in Australia per un lavoro temporaneo ed un incontro tutto testosterone e antipatia; è Nathan Green, un concentrato di erotismo e diffidenza allo stato puro.
E chissà, che la lungimirante zia ci abbia azzeccato, stavolta?
Prepara le valigie e vieni a scoprirlo!
Romance contemporaneo autoconclusivo, un pot-pourRIRE di temi attuali e idee fantasiose racchiuse in un cofanetto romantico e brillante.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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"Mamma, va tutto alla grande." Esclamai iper felice. Iper falsa. Iper tesa.
"Ah." Pigolò lei, vivamente dubbiosa.
Anche se non avrebbe dovuto, mi faceva ridere la loro sfiducia nei miei confronti; poco ma sicuro, non avevo intenzione di piangermi addosso se loro vedevano in me tutto ciò che non avrebbero voluto in una figlia.
"Eri convinta che avessi spostato le falde terrestri e l'Australia fosse scomparsa per mia mano. Ammettilo, Madama Liquore."
"Non fare la scellerata, Magda, non credevo alcunché. D'altro canto, è notorio che il tuo feedback non esalti le tue capacità..."
Emisi un suono gutturale, la mia gola non si faceva problemi a prendere in giro mia madre. "Desolata, non ho capito niente." Recitai mortificata. "Sai che ho difficoltà a comprendere parole con più di cinque lettere e frasi con più di cinque parole e lettere... "
Dopo qualche istante silenzioso e spaesato, sbottò: "Ti basti capire che ti passerò tuo padre, allora!" Chiaramente urtata dal mio atteggiamento canzonatorio, inveì minacciosa.
"Te lo puoi proprio scordare!"
La mia replica, altrettanto irta: fine dei giochi. Riconobbi io stessa, nelle note dure di quel rifiuto, l'assolutismo con cui intendevo evitare la solita tiritera chiamata "capostipite Liquore".
"Mandagli i miei saluti, devo andare." Mi defilai arsa.
"Ma, aspetta un attimo! Non mi hai riferito nemmeno le cose più importanti… Magda!"
"Mamma." Rimproverai sospirando, ma poi mi bloccai perché, purtroppo, mi invase il senso di colpa. E della speranza. Dopo mesi di freddezza, che avevano mandato ancor più alla deriva i nostri rapporti, era la prima volta che avvertivo il suo interesse, quello che solo un genitore può avere per una figlia. Non persi altro tempo. "Dimmi pure." Invitai pacifica.
"Ecco, veniamo almeno a ciò che conta."
Mi concessi un sorriso silenzioso. Se i miei ci tenevano a sapere come stesse la loro figlia dall'altro capo del mondo, glielo dovevo. E ne ero anche sollevata, a dirla tutta. Probabilmente la mia lontananza aveva permesso loro di riflettere, di giungere alla conclusione che il nostro rapporto era prezioso, a prescindere dal lavoro che avrei intrapreso. O semplicemente la lontananza aveva addolcito le asperità. Da qualsiasi cosa fosse dipeso, ero rallegrata da quella vicinanza emotiva che, sotto sotto, sapevo aver desiderato, almeno un po'.
"Dunque, che genere di incarichi ti hanno affidato? Intendo, di quale tipo, grado di rilevanza..."
"Magda?" Domandò ancora, al silenzio che non chiarì i suoi interrogativi più importanti.
Le mie labbra si chiusero in una fessura, specchio del mio umore. Malgrado le distanze ed i silenzi, non era cambiato esattamente niente. Non potevo definirmi sorpresa, lo avevo preventivato, motivo per cui non ne rimasi eccessivamente delusa. La mia famiglia era l'emblema della forma, dell'altisonanza. E non discendevano da sangue nobile né possedevano sederi regali. Il loro era semplicemente carattere, forma mentis. La loro. Non era un caso che io non rientrassi in quei parametri né fra le loro grazie, e a dispetto delle difficoltà sparpagliate lungo il cammino dalle mie scelte, e dalle conseguenze riversatesi sul nostro rapporto, non sarei tornata indietro.
Avrei rifatto ogni cosa, forse avrei addirittura anticipato le mie mosse, senza assecondare il loro volere come avevo fatto pur di essere considerata una figlia meritevole della loro considerazione.
"L'ambiente di lavoro è molto serio." Il mio tono irrigidito era preludio di uno sfogo ricco in epiteti, dunque lo schiarii, scendendo a compromessi con la mia indole. "Ed il mio capo..."
Per un battito di ciglia mi sfiorò il pensiero di rivelare la mia reale, attuale, disastrata condizione: ‘Vedi, mamma, il mio capo non l'ho ancora conosciuto perché mi sono infortunata la caviglia sinistra dopo meno di una settimana di lavoro ed ora sto vegetando dal mattino alla sera, correndo il rischio di essere revocata dallo stage.’
Un fotogramma mentale del volto di mia madre, ridicolmente spalmata all'indietro, irruppe in un flash istantaneo. Un massiccio gruppo di risate premette per esondare dalla mia gola; le avrei comunicato quelle news volentieri, giusto per suscitare la loro scontata, nevrotica reazione, ma in fin dei conti non m'interessava provocarli. Ero volata in Australia per occuparmi di tutt'altro che mettere in scena la versione femminile di James Dean.
"Ecco, sì, parliamo del tuo capo. È importante che tu metta in luce le tue capacità, per guadagnarti la sua stima, affinché ti frutti la sua collaborazione. Per aspera ad Astra."
"Sì, mamma. Nel dubbio, specchio riflesso."
"Sempre la solita! Stiamo disquisendo di questioni serie, le tue insulse burle sono fuori luogo e non richieste!" S'inviperì, seccata. Allo stesso modo stavo per rimbeccare che, quello a cui avevo partecipato, si trattava di uno stage in cui ogni partecipante era sullo stesso livello, mirato al miglioramento professionale e personale, che non vi era spazio per la competizione né per spiccare dinnanzi al capo, ma qualcuno fece sì che tutto mi rimanesse proprio… sulla punta della lingua.
"Il capo? Ah, beh, chiappe di marmo e faccia da orgasmo: facile!"
"Come? Dovrai ripetere, non ho afferrato quanto hai espresso sul tuo capo, Magda." L'intonazione di mia madre si tinse di austerità mentre i miei occhi si sbarravano in direzione di Lucrezia, intimandole—con l'indice contro le labbra e le pupille di fuori le orbite—di tenere la lingua a freno e la bocca chiusa.
"Mamma, non ti sento più." Accostai una mano alle labbra, producendo suoni sconnessi. "Ci—rrrtr—risentiamo pre—rrrtr—sto. Ciao!"
Linea interrotta.
Finalmente, buttai giù. Sudata, stressata, agitata, eccoli i sintomi provati nell'interazione coi miei. Ed anche in quell'occasione c'erano tutti. Specialmente dopo la descrizione del mio capo fornita da Lucrezia...
Io l'avevo apprezzata! E condivisa, ma potevo scommettere che mia madre non sarebbe stata tanto solidale a riguardo.
"Allooora," appena arrivata, Lucrezia era pronta a metter su una delle sue scenette divertenti, aiutandomi inconsapevolmente a smaltire l'ondata di disagio che mi aveva investita dopo la chiamata. Fabiana mi sedette accanto, una pacca incoraggiante sulla spalla destra per l'imminente spettacolino della nostra amica.
"Parlavi del capo."
Aprì la danza di ragionamenti, pensosa. "E lui, mh... ci ha appena accolte con un sorriso rilassato. Molto, rilassato." Dondolò un polpastrello contro il mento, approfondendo il suo grado di concentrazione. Una miriade di teorie prendevano vita sul suo viso. "Per finire, entriamo qui e ti troviamo sudatissima." Lucrezia contemplò me, virò al soffitto e ripiegò nuovamente su di me, preparandosi mentalmente a formulare il verdetto finale: "Avete appena fatto sesso."
"Cosa? No!"
"Petting."
"Co… no!"
"Lo state per fare. Sesso e preliminari, o viceversa."
"No, no e no!"
"Quindi sei asessuata."
"No?!"
"Allora tira fuori il problema!"
"Hakuna matata!"
Luc aveva decisamente scambiato la mia reazione affannata, seguita alla chiamata di mia madre, con ipotetiche faccende riguardanti me ed il padrone di casa. Incrociate le braccia sul petto, restò in attesa di una risposta e, dato che non era il caso di avvelenarle con le chiacchiere su mia madre e sulla nostra fallimentare conversazione, l'accontentai, stando al gioco.
"In realtà, credo di non essergli esattamente simpatica" asserii casualmente.
"A me sei simpatica, ma è meglio così: l'avevo già abbondatamene adocchiato io, all'ospedale, quel colosso erotico. Ed intendo provarci. Anzi,"— ci degnò di un'attesa teatrale— "riuscirci."
"Oookay, mettendo i tuoi istinti riproduttivi un attimo da parte, Luc..." Tagliò corto Fabiana, con uno 'sciò' della mano, studiandomi come se scorgesse, in me, qualcosa che non mi spiegavo.
"Perché mai non dovresti stargli simpatica?"
Mh, ottima domanda. Mi domandavo la stessa cosa… salvo poi tornarmi in mente il locale di Pisa, borsette violente, pugni oltraggiosi, ed ecco la spiegazione. L'unica che mi venisse in mente, almeno. Magari era solo a pelle, una questione di antipatia innata. Comunque, preferii evitare di illuminarle circa quell'episodio sgradevole e ridicolo.
"Insomma, da cosa lo deduci?" Indagò ancora Fabiana, non accettando la mia assenza di replica.
"Non saprei... dal fatto che non mi rivolge parola?!" Consapevole di mentire, allontanai lo sguardo dalle loro amichevoli premure.
"Oh, Mag."
S'intenerì Lucrezia, fraintendendo il mio sguardo sfuggente con l'imbarazzo di una cotta. "Sto davvero per darle dei consigli sul tizio con cui avrei dovuto..." Lucrezia sospirò, riflettendo fra sé e sé, risparmiandoci fortunatamente la parte su 'cosa avrebbe dovuto' fare con lui, per venirmi incontro, chinandosi cosicché i nostri sguardi fossero alla stessa altezza.
"Ascoltami bene."
Puntò un dito contro la punta del mio naso, come approcciandosi ad una bambina. "Gli uomini, Mag, sono diversi, ma tutti uguali." Dandoci le spalle, prese a fare avanti e indietro nel perimetro quadrato della stanza.
Aggrottai le sopracciglia, giocherellando con le lenzuola, prima di lanciare un'occhiata a Fabiana.
"Ah, non guardare me!" Strepitò, intuendo la mia silenziosa richiesta di delucidazioni. "Dev'essere parente del signor Calli." Fabiana scrollò le spalle, rimandando alla passione per gli strani giochi di parole che accomunava il nostro coordinatore alla nostra amica.
Lucrezia la incenerì, ma sostanzialmente la ignorò, concentrata a proseguire la sua lezione di seduzione. "L'essere umano si è evoluto, ma gli uomini sono rimasti all'epoca della pietra. Hanno bisogno di smancerie, per sentirsi virili. E voi, giustamente, mi direte..." Si rivolse a noi come un predicatore fa verso la sua platea.
"Come fare?"
Il suo pubblico la contemplava inebetito.
"Semplice: dovete fargli sentire degli eroi!" Ululò soddisfatta, aspettando grandi applausi. "Tu, per esempio." Mi indirizzò i suoi grandi occhi color miele. "L'hai gratificato per averti aiutata? Che ne so, un discorsetto carino, un piccolo cadeau?"
"Non proprio." Nel duemila e mai, forse.
"E grazie, che non ti rivolge parola!" Ci si metteva anche Fabiana.
Le due mi guardarono.
Si guardarono.
L'aria che scorreva tra loro si intensificò di complici, ambigue iniziative.
Che stavano architettando?!
"Trovato!"
L'affermazione compiaciuta di Lucrezia, mezz'ora dopo, mi fece sbordare lo smalto rosso vermiglio che ero intenta a mettere con concentrazione zen e precisione chirurgica sulle unghie di Fabiana, lanciando chissà dove il flaconcino. Ovunque fosse andato a finire, avrebbe causato un bel pasticcio, a cui avrei dovuto rimediare.
Non trascorse molto, dopo che se ne furono andate, che la signora Hert portò via i piatti della cena, mentre io concludevo dei test avanzati di lingua inglese.
Osservando la donna allontanarsi, mi domandai se il regalo fosse arrivato.
Seppur controvoglia, avevo ceduto alla loro sciocca iniziativa: di per sé non avevo ordinato nulla di speciale, per Nathan. Il mio era piuttosto un tentativo di assecondarle, ma mi ritrovai comunque a sperare che apprezzasse più il gesto che il contenuto.
"Magda."
Esitò la domestica, rientrando in stanza. "Ti faccio forse delle porzioni ridotte? Sentiti libera di dirmelo, non c'è nulla di male!" Un carrello spuntò dal lato sinistro, e lei avanzò, trasportandolo in camera. Riciclata qualche scusa, mi avviai zoppicante, e guardinga, col carrello verso il corridoio, alla ricerca del salone. Fortunatamente non era ancora rincasato, ma avevo naturalmente calcolato tutto a dovere. Tranne che… la sua voce giungesse da una stanza del corridoio. Imprecai mentalmente, e senza ortaggi di mezzo: dovevo darmi una mossa.
Raggiunsi il tavolo che faceva bella mostra di sé, apparecchiato dal bon ton della signora Hert, ma ancora vuoto. Gioii all'istante per la scelta del dono.
Riuscita nell'impresa sgusciai verso la mia stanza, ma l'udito recepì un suono particolare, inviando al mio cervello l'input elaborato all'istante: a quella di Nathan, si era decisamente sommata una seconda voce. Una che di virile aveva poco. Mordicchiai le labbra, la portata ordinata era solo per uno; non avevo previsto che potesse avere compagnia, nonostante sapessi di quella misteriosa donna bionda che di tanto in tanto faceva la sua comparsa.

Sul letto, rigiravo il telecomando fra le dita, osservandolo come se fosse un oracolo proprio mentre la porta della camera che mi ospitava si spalancava, sollevando una folata da cui mi riparai teatralmente, ingigantendo un tantino la faccenda. Dopotutto, perché diavolo doveva essere sempre così avventato?
"Stai provando ad infastidirmi."
Detto ciò, Nathan si portò di qualche passo verso il letto, con incedere turbolento, per lanciarvi le buste col cibo indiano ordinato da me, per lui.
"Ci sei riuscita. Ora, puoi finirla con questi giochetti infantili? O forse mi perseguiti, tu e questo dannato pollo." Che rotolò, fermandosi vicino al mio gesso.
"Sei un povero pollo."
Affermai dolce, mirando ed accarezzando la povera busta, strattonata dalla sua maleducazione. Sollevai poi lo sguardo sull'essere più stupidamente odioso che il karma, o le profezie di Rosa, avesse potuto mettermi sul cammino.
"E tu, un povero stronzo."
"Vuoi anche accarezzarmi?"
Rimpallò, pentendosi quasi istantaneamente per il tipo di sarcasmo confidenziale con cui si era lasciato andare.
"Neanche sotto tortura."
Gli diedi le spalle, che presto tremarono di spavento quando la porta picchiò.
Poco dopo impilavo le portate una sopra l'altra nella busta. Annodandola, chiusi ogni possibilità di recuperare un contatto con quell'uomo, compreso il mio entusiasmo nel proseguire la permanenza nella sua casa. Certo era che non avrei avuto più niente a che fare col pollo al curry. E qualcosa mi disse che avrei fatto bene a pensare lo stesso di Nathan.

~

"Allora, come va la gamba?"
"Molto meglio."
Risposi a Fabiana l'indomani sera. "La signora Hert insiste per aiutarmi sempre. Pensare di fare qualcosa da sola ha le sua dose di infattibilità." Ripensai all'incidente del bagno, al massaggio dei suoi polpastrelli tra i miei capelli, sulla mia cute, con una delicatezza che non mostrava mai nella sua voce, men che meno nel suoi atteggiamenti. Così premuroso e attento, diverso dal Nathan che aveva spedito le buste di cibo direttamente sul mio letto.
"Non a caso ti è stato imposto riposo totale, no? Fra due settimane avrai le stampelle e il mondo tornerà in asse, per ora ti tocca semplicemente vegetare."
Appunto eseguii, chiudendo gli occhi. Ne sollevai solo una palpebra per citare: "È un sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo".
Fabiana mi aveva costretta ad uscire dalla mia stanza, eravamo sedute sul divano del salone, dove decisi di stravaccarmi al meglio che potessi. Visto che Nathan mi accusava di spassarmela in casa sua, bisognava pur dargliene prova.
"E come procede col mio capo?"
"C'è il Tonight Show di Jimmy Fallon, l'hai mai visto?"
"Sì, e non è ancora iniziato."
Dalla risposta, dedussi che aveva intercettato ed aggirato il mio tentativo di cambiare discorso. "Quindi? Voglio sapere com'è andata." Si intestardì, proprio nel momento in cui intravidi Nathan sbucare dal corridoio, in jeans denim, sneakers scure e passo spedito ma silenzioso.
Fosse stato un donatore di sperma, avrebbe fatto soldi a palate.
Preso atto della nostra presenza, si immusonì, forse provocato dalla mia presa di libertà in casa sua, o magari perché non si aspettava semplicemente di trovarci lì.
"Come l'ha presa quando gli hai regalato la cena?"
Con le palpitazioni che prendevano la rincorsa, mimai un segnale a Fabiana a suggerirle di cambiare argomento, quando vidi che Nathan proseguiva la marcia in nostra direzione.
"La tua faccia è programma!"
Commentò piccata la mia amica, mentre Nathan, ignaro di essere il centro dei nostri discorsi, si avviava al frigo bar presente in salone; non era esattamente a portata d’orecchio, ma immaginavo che a tv spenta la voce di Fabiana per niente sussurrata potesse fargli udire tutto. Pregai l'universo che Nathan provocasse un rumore, un piccolo suono, qualcosa che attirasse in tempo l'attenzione di Fabiana, sfortunatamente l'universo aveva altri piani in serbo per me, quindi restai ad osservarlo inerme voltare il capo verso di noi, appena realizzato di essere il protagonista della nostra chiacchierata.
Quella fu l'ultima immagine che vidi, perché non potei fare altro che serrare gli occhi, implorando Sauron di lanciarmi tra le mani l'anello, che avrei prontamente usato per scomparire, o di lanciarmi nella lava di Mordor.
"È un gesto gentile offrirgli una cena, Mag. Si tratta di riconoscenza, e tu gliel'hai espressa a dovere. Forse avremmo dovuto mettere in conto il fatto che la cucina indiana potesse non rientrare nei suoi gusti, ma non puoi dirmi che non ha apprezzato il pensiero."
"A me la cucina indiana piace eccome."
Fabiana sussultò con lo sguardo incollato al mio viso, sgranando gli occhi esattamente come stavo facendo io stessa: diventammo praticamente l'una lo specchio dell'altra..
"Cos'è che non avrei apprezzato, invece?" Proseguì Nathan, assettato di ripristinare l'immagine impeccabile, dinnanzi alla sua dipendente, che evidentemente qualcuno aveva leso.
"Nulla che io sappia!" Fabiana preparò un sorriso gentile e per niente preoccupato, quindi d'improvviso si voltò per rifilarglielo, affrontandolo come se regalasse caramelle a bambini. "Potrà parlarne meglio con Magda, in ogni caso. Sa, io c'entro poco, e so ancor meno." Parve talmente sicura di ciò che spiegava, che l'arciere più sexy del globo non poté far altro che rivolgerle un cenno d'assenso ed un meraviglioso sorriso. Quando puntò me, invece, sperai di pescare una museruola in qualche anfratto del divano: stava decisamente per ringhiare.
"Se non hai bisogno d'altro, io me ne andrei." Fabiana spostò l'attenzione su di me, felice di aver fatto da Cupido. E di avermi fiondato la patata bollente tra le braccia.
"Direi che hai fatto abbastanza, per oggi."
Replicai con l'acidità di uno yogurt greco, guadagnandomi prima un occhiolino, poi il suo pollice ed indice uniti in un cerchio perfetto, neanche avesse appena combinato un matrimonio fra casati.
Non appena si avviarono alla porta, inutile dire me la diedi a gambe.
A gamba, per la precisione, ma ciò non m'impedì di saltellare forsennata verso la mia stanza, pronta a fiondarmi in bagno. Mi scaraventai fiotti d'acqua gelida in viso, perché evaporasse l'incendio che attecchì sul mio viso, sul mio collo, al ricordo della sua espressione appena scoperto il vero destinatario di quella malcapitata cena indiana: un ventaglio di emozioni, che viravano dallo stupore all'ovvio senso di colpa, colorate da una tonalità mai vista prima d'ora, avevano spaziato sui suoi tratti decisi.
"Magda!"
Stringendomi al lavabo per lo spavento, roteai contemporaneamente su me stessa, tutto secondo i miei riflessi pronti e terrorizzati dallo strillo baritonale, quando un ammasso gigantesco si era già fiondato su di me, ancor prima che ne prendessi atto.
Il suo corpo era macchina rovente ed imponente.
Con una mossa fluida del braccio, Nathan riversò nella vasca tutti i prodotti posizionati ordinatamente sul ripiano collegato alla vasca da bagno, per afferrarmi alla base delle cosce e poggiarmi al loro posto, con intraprendenza vorace ma accorta.
Non realizzando cosa stesse accadendo, né cosa gli fosse preso, mi paralizzai; passare dagli sguardi da sicario al calore del suo corpo, era materia destabilizzante. Poco dopo, per aumentare il mio shock, Nathan decise di servirmi il colpo di grazia: le sue mani si stavano dirigendo al mio viso, ma solo quando ne avvertii il calore sulle guance realizzai di avere il volto racchiuso nei suoi palmi. Erano grandi. E rassicuranti. E calde. Il mio stomaco fluttuò leggero, i battiti spingevano, scalavano ad una marcia squassante. Sapevo che avrei dovuto ritrarmi, malgrado la sensazione piacevole del suo corpo aderito al mio, e che per qualche incognita ragione intendeva confortare il mio. Era mio dovere allontanarlo, per il rispetto orgoglioso nutrito per me stessa: non poteva evitarmi come se fossi la peggiore delle rogne e poi guardarmi con lo sguardo tiepido di attenzioni, quasi preoccupazione, per me.
Non ci pensai un istante, puntai i palmi sul suo petto e spinsi per allontanarlo, ma Nathan dovette scambiare il gesto come guizzo di dolore, finendo per allineare la sua fronte alla mia, permettendomi di sperdere i miei occhi nell'azzurro ansioso dei suoi. Dopo l'occasione a Pisa, fu la seconda volta che riuscii a scorgere quelle stesse pagliuzze che mi avevano stordita al locale.
"Dove sei ferita?"
"Lo sai, dove" replicai secca, con timbro lievemente tremante dello shock delle sue azioni fulminee quanto inaspettate.
Nathan sapeva benissimo che il mio disguido tecnico consisteva in una frattura di lieve entità alla caviglia. Lo sapevano anche i muri, ormai, per par condicio.
"Mag." Rimproverò con aria severa. "Non è il momento di giocare. È importante che tu me lo dica, subito."
La sua voce suggerì impazienza, ne bilanciò la rudezza sollevando il mio volto con una leggera pressione dei polpastrelli di sotto al mento, che sembrava una carezza.
Reprimendo l'istinto naturale di lasciarmi cullare il volto nel suo palmo destro, rimasto ad avvolgere la mia guancia, presi coscienza che l'uomo che aveva fatto quanto in suo potere per porre distanza e distacco tra noi in quei giorni, mi teneva stretta a sé, talmente vicina da essergli avvinghiata con le mani sulle sue spalle, bramose di avvicinarsi al calore del suo collo, abbastanza da potergli sfiorare il naso con la punta del mio, così tanto da inalare il suo profumo fresco, pulito, di montagna. Avrei voluto riprendere possesso, uno per uno, dei comandi del mio corpo che avevano optato per l'anarchia, perché il respiro mi si accorciò a lungo, visibilmente, perché lui non avvertisse la mia reazione. Capii che l'aveva decifrata perché nel suo sguardo guizzò qualcosa di simile al mio stesso desiderio.
I suoi occhi assorbivano le mie labbra, la mia lingua mi umettò appena il centro del labbro superiore, Nathan ne catturò il movimento come se lo stessi sottoponendo a ipnosi. Impercettibilmente, istintivamente, la distanza fra le nostre labbra diminuì: il cambiamento nel suo modo di respirare, di sfiorare, di pensare, rappresentava il mio.
"Il tuo broncio" mormorò. "Mi piace."
I suoi palmi scivolarono aperti sul fondo della mia schiena. Le palpebre gli si abbassarono, ma con cautela, la stessa che sembrava applicare a qualsiasi cosa mi riguardasse in quel momento. Appena i nostri respiri si intrecciarono, le nostre labbra entrarono in contatto, Nathan venne risvegliato, scattando il capo indietro con uno spostamento accennato ma repentino. Deglutii, frenando le reazioni inconsulte del mio corpo, recuperando il potere sui miei stessi sensi.
"Allora?" Riaperti gli occhi, indurite le spalle, domandò roco.
Avvertii il calore dei suoi palmi sfregolare lungo i miei fianchi, serpeggiare sulle mie gambe, per arrestarsi sulle mie ginocchia.
"Dimmi in che punto sei ferita, dovremo chiamare un dottore, se ti sei fatta male."
Recuperò un respiro profondo, a impossessarsi delle briglie che si erano sciolte per un po': stava per baciarmi. Questa volta non era singhiozzo, non erano ferite. Avrei voluto rivelargli che razionalizzare era impossibile, non c'era stata logica ad avvicinarci, solo istinto. Per quanto mi costasse ammetterlo, con quell'uomo condividevo molto più che sola antipatia.
Stava per baciarmi.
Ma io lo avrei lasciato fare, davvero?
"Non capisco. Io sto bene."
Rintuzzai, lasciandomi sfiorare dalla strana e folle idea di mentire, pur di non tornare alla normalità: quella in cui condividevamo niente, salvo l'indifferenza, la freddezza reciproca.
Ci scrutammo silenziosamente, poi lui volse lo sguardo altrove. Sembrava affogare nei pensieri ma, sempre presente alla situazione, afferrò un asciugamano. Non mi sfuggì il modo in cui si chinò per raggiungerla, tuttavia senza allontanarsi realmente da me, dal mio corpo. Poi il pensiero di quella donna m'invase la mente, colpendomi con la forza di un boomerang. Acciuffai l'asciugamano dalle sue mani con una certa veemenza: la sua vita privata non era mio affare, così come la mia, per lui. Adesso ero io a sentire la necessità di razionalizzare, e dovevo farlo perché Nathan Green rappresentava una casa in cui alloggiare temporaneamente, a tenerci sotto lo stesso tetto non era nient'altro che un infortunio, che presto sarebbe risanato.
"Però, di là, sul bordo del letto... quando sono entrato ho visto il fazzoletto intinto di sangue. Ed una chiazza di sangue vicino al letto." Nathan massaggiò la nuca, i dubbi insinuarono la sua vista, che chiedeva spiegazione alla mia.
Finii in una brusca apnea non appena visualizzai la scena che aveva appena descritto, comprendendo finalmente il motivo di tanto sgomento: ecco perché mi aveva accarezzata, guardata, svolazzata sul ripiano del bagno con tanta feroce apprensione!
"Okay, Nathan, dovresti mettere in conto il fatto di aver frainteso."
La bolla stava per esplodere da un momento all'altro, con un boato distruttivo e tanto di nuvoletta a forma di teschio, stile cartone animato giapponese.
"Non sono ferita."
Dichiarai, preparandomi psicologicamente non solo al fatto che quanto stavo per dire avrebbe messo fine a quel momento memorabile, ma anche all'ira che lo avrebbe sostituito. Mordicchiai nervosamente le labbra, perché non sarebbe mai più ritornato il Nathan docile e trattabile, ma nemmeno quello odioso che avevo imparato sfortunatamente a conoscere. Molto peggio: ne sarebbe tornato uno molto, molto più incazzato.
"Parla, Magda."
Come avevo fatto il giorno in cui rivelai a mio padre di esser stata licenziata, acquistai un lento respiro che confortò i miei polmoni, lo trattenni in apnea il più possibile, spingendolo ad esplodere fuori, trascinandosi dietro la verità: "Non era sangue, Nathan. Quello era solo… smalto!"
Ed io, chissà se ero fritta.

   
 
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