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Autore: Il_Signore_Oscuro    15/11/2016    2 recensioni
Ragnar'ok Wintersworth un giorno sarà l'Eroe di Kvatch, colui che salverà Tamriel dalla minaccia di Mehrunes Dagon, principe daedrico della distruzione, con il fondamentale aiuto di Martin Septim ultimo membro della dinastia del Sangue di Drago. Ma cosa c'è stato prima della storia che tutti noi conosciamo? Chi era Ragnar prima di essere un Eroe? Lasciate che ve lo mostri.
[PAPALE PAPALE: questa storia tratterà delle vicende di Ragnar. Non sarò fedelissimo al gioco ma ne manterrò le linee generali, anche se alcuni avvenimenti saranno cambiati o spostati nel tempo. Non ho altro da dirvi, se non augurarvi una buona lettura!]
BETA READER: ARWYN SHONE.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eroe di Kvatch, Jauffre, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Chapter thirteen – Through the glimmer of a door.

Durante il tour per i quartieri della Città Imperiale, chiesi a Claudius dove avrei potuto trovare un fabbro di nome Rohssan, l’imperiale mi indicò un negozio chiamato  “Un’occasione per combattere”.
Appena dentro, fui accolto da un vecchio cane che mi annusò la gamba con circospezione. Era privo di un occhio, ma sembrava un animale abbastanza tranquillo; il suo pelo era lungo e scuro, le orecchie a punta si alzavano appena. Lo lasciai fare, mentre fissavo una redguard intenta a riaffilare un paio di vecchie spade vicino alla forgia, accesa dal fuoco scarlatto.
Era una donna avanti con gli anni. Il viso scuro e avvizzito era incorniciato da lunghi capelli bianchi, tenuti legati dietro la testa in un rozzo chignon. I suoi abiti erano tutto fuorché femminili: indossava un pettorale di ferro grigio, pantaloni e stivali di cuoio, con una spada di media misura alla cintola.
Non mi dedicò attenzione, concentrata com’era sul suo lavoro, difatti dovetti aspettare un bel pezzo prima che si degnasse di rivolgermi la parola.
Mi venne incontro ripulendosi il viso e le mani dalla fuliggine, con uno straccio umido.
-Salve, sono Rohssan. Come posso esserti utile? – Mi chiese, con la voce rauca e grave di chi ha respirato troppo fumo nel corso della sua vita.
Mi presentai, stringendole la mano, per poi sfilare Durendal fuori dal fodero in legno e porgergliela con gentilezza.
-Vorrei alcune informazioni su questa spada e sull’acciaio con cui è stata forgiata.
Lei la prese e la pose sul banco. I suoi occhi grigi scorrevano per tutta la lunghezza della lama, con lo sguardo analitico e distaccato di chi conosce e fa’ il suo lavoro da molto tempo. Passò le dita sulle venature dell’acciaio, bianche-azzurine, e poi sulla frase incisa a caratteri runici “Io sono Durendal, lì dove discendo il sangue mi accoglie”.
-Damasco. – Risolse, quasi fra sé e sé. – Una spada di acciaio Damasco, la prima che vedo in tutta la mia vita. Conosci già la storia?
-Sì, me l’ha raccontata Olfand di Bruma. Mi ha raccomandato di rivolgermi a te per ottenere maggiori informazioni.
-Ah, quel nord – sbuffò la donna – mi mandasse tanti clienti quanti curiosi, sarei già più ricca dell’Imperatore. Beh, quel che posso dirti non è molto, ti va’ lo stesso di ascoltarlo?
-Certo. – Dissi, risoluto. Infondo avevo fatto tutta quella strada.
-Come vuoi, devi sapere che il mio avo, Lonvan di Yokuda, faceva parte di quell’ordine di fabbri-stregoni di cui certamente Olfand ti avrà parlato. Gran parte delle sue memorie e di quelle dei suoi compagni sono andate perdute, ma nella mia famiglia si tramanda una storia, di generazione in generazione, che riguarda proprio la forgiatura dell’acciaio Damasco.
-Sarei curioso di conoscerla.
-La storia narra che per forgiare queste armi fosse necessaria non della semplice magia, bensì di veri e propri rituali del sangue. Hai idea di cosa stia parlando?
-In realtà no. – Ammisi.
-Sacrifici umani. Per questo i fabbri-stregoni non diffusero mai i loro segreti, sarebbero stati malvisti da tutte le genti, e già la loro reputazione non era delle migliori. Comunque, da quel poco che so’, si ardeva l’acciaio fra le fiamme e lo si intingeva nel sangue del povero malcapitato: sembra fosse l’unico modo per mantenerlo malleabile, e quindi lavorarlo, per un certo periodo di tempo. Quando si era ottenuta la forma desiderata, si legava l’anima della vittima sacrificale all’arma, conficcandogliela dritta nel cuore.
Ascoltai questa storia con i brividi dietro la schiena, ma non era finita lì. Rohssan continuò.
-Saprai che oggi si legano le anime delle creature a oggetti comuni, per incantarli, ma quello che facevano i fabbri-stregoni di Yokuda era qualcosa di molto più profondo e oscuro. Lo spirito del sacrificato, la sua coscienza, la sua volontà, ogni parte della sua anima rimaneva per sempre legata all’arma in Damasco. Inoltre, non tutte le anime erano adatte al sacrificio: era necessario che il prescelto fosse puro e innocente, non ancora toccato dal male del mondo.
Sentii un brivido gelarmi il sangue nelle vene. Ecco di cosa parlava Cardys, ecco perché Durendal aveva preso a brillare dopo il sogno di quella notte. In quella spada c’era l’anima di una persona, condannata ad un’eterna prigionia. Quello che fino ad allora avevo visto come un oggetto, pur caro che mi fosse, iniziai a guardarlo con occhi diversi. Lì, in quella prigione d’acciaio, era intrappolata l’anima di un essere umano, condannata a un’eterna prigionia. Avevo creduto di esser stato solo per la maggior parte del mio viaggio, ma la verità era che qualcuno vegliava su di me sin dall’inizio, guidando la mia mano nel momento del bisogno. Volevo di più, non mi sarei accontentato di così poco, dovevo conoscere l’identità del mio protettore.
-Rohssan, esiste un modo per interagire con l’anima all’interno della spada? – Chiesi, alzando lo sguardo da Durendal ai suoi occhi grigi.
La redguard mi fissò per qualche istante, in silenzio, forse pensando a cosa dire o magari sorpresa da quella domanda così insolita. Non potevo saperlo, i suoi occhi immobili innalzavano un muro di fronte a chiunque cercasse di interpretare ciò che le si muoveva dentro.
Fu ridestata dal muso umido del suo cane, premuto contro la gamba, alla ricerca di una carezza o di un po’ di attenzione.
-Questo non so’ dirtelo, mi spiace. – Poi riprese. – Teoricamente si potrebbe fare … del resto, come ti ho già detto prima, lo spirito conserva la sua volontà e coscienza. Immagino sia come rapportarsi a una qualsiasi persona: prima che si apra con te c’è bisogno che si fidi, ma è anche vero che non so in che modo potrebbe manifestarsi tale conversazione.
-Capisco, ti ringrazio. – Conclusi, offrendole un piccolo compenso per le informazioni che mi aveva dato.
-Risparmia i tuoi septim per qualcosa che possa davvero servirti, ragazzo, non sperperarli per storie e vecchie leggende dimenticate.
-Allora questi sono per quella strana coppia di asce.
Sorrise, capendo che lo facevo soltanto per offrirle il mio compenso.
-Sono armi da lancio quelle, giovane nord, si chiamano tomahawk.
Mi mostrò come usarle, spiegandomi che in passato erano utilizzate per la caccia a grossi animali, impossibili da abbattere in uno scontro diretto. Assicurai le due asce alle cinghie che mi ero legato lungo le cosce.

Lasciai il negozio, ringraziando Rohssan e pagandole ciò che avevo comprato, con l’aggiunta di una piccola mancia. Decisi di farmi un giretto per la Città Imperiale, già che c’ero, prima di raggiungere Claudius a casa sua, nel distretto templare.
La Capitale sembrava un posto felice, dove il benessere e la civiltà regnavano sovrani: la gloriosa Torre d’Oro bianco, splendente come una gemma alla luce del tramonto; gli sfarzosi palazzi nobiliari; i vestiti raffinati delle persone che riempivano le vie principali; le armi d’argento dei capitani della guardia, impreziosite talvolta con gemme variopinte, i pettorali con bassorilievi in oro placcato e i mantelli cremisi, sventolanti alla brezza, con la fodera bianca come la neve.
Bellezza e ricchezza, questa era la prima faccia che la città mostrava a chiunque fosse di passaggio, eppure già ne intravedevo un’altra: più oscura e meschina, in piccole tracce disseminate qua e là: il massacro quotidiano dell’Arena, i mendicanti e i ladruncoli che strisciavano fra i vicoli più nascosti, gli occhi sempre guardinghi degli uomini della Legione. Soldati in attesa di un pericolo imminente e le mani guantate di acciaio scuro, sempre tese nervosamente sull’elsa, pronte a sguainare la spada e bagnarla nel sangue di qualche criminale da quattro soldi: un semplice fastidio di cui liberarsi, risparmiandosi di occupare le celle della Prigione Imperiale con un’altra bocca da sfamare. Le guardie della Capitale erano violente e intransigenti: se un criminale colto in fragrante non si arrendeva immediatamente, non esitavano a ucciderlo. Questo in teoria avrebbe dovuto rendere la città più sicura, tuttavia non erano mancati numerosi casi di corruzione anche nei piani alti della Legione. Si sussurrava che certi capitani della guardia si facessero pagare fior fior di septim per chiudere un occhio sullo spaccio di skooma e sul contrabbando di merci acquisite in modo poco chiaro. Erano voci, dicerie sparse nelle bocche della gente su cui non mi presi la briga di indagare.

Mentre mi dirigevo presso la dimora di Claudius Arcadia, un manifesto affisso sui muri attirò la mia attenzione: c’era raffigurato un uomo con una strana maschera grigia, con caratteri runici impressi sopra. Sul manifesto c’era scritto che il soggetto era ricercato per molteplici crimini e che era noto come “Volpe Grigia”: presunto capo di una fantomatica organizzazione di ladri e borseggiatori, che aveva esteso la sua influenza su tutta Cyrodill.
-Interessato alla Volpe Grigia, cittadino? – Mi chiese una voce familiare, mentre davo un’occhiata al manifesto.
Mi voltai di scatto e per poco non mi prese un colpo, quando di fronte mi ritrovai un comandante della guardia, che riconobbi come Giovanni Civello, la recluta che si era addestrata con Jauffre molti anni prima.
-Sei tu, il ragazzo nord. Il pupillo del priore. – Disse, con un sorriso stampato in volto. – Caspita se sei cresciuto.
-Si può dire lo stesso di te. – Gli risposi, con aria diffidente. Non avevo dimenticato lo sguardo che mi aveva rivolto anni prima.
-Sai, non mi sono mai scusato per come ti ho trattato quella volta, al Priorato …
Rimasi sbigottito: non sapevo come rispondere a quelle scuse tardive quanto inaspettate.
-Al tempo ero solo uno stupido ragazzino. Girando per la città, confrontandoti con tante persone, alla fine capisci che per quanto possiamo essere diversi fisicamente e caratterialmente, siamo tutti cittadini di Cyrodill e sudditi dell’Impero.
-Oh, - dissi, sorpreso – n-non preoccuparti, è passato tanto tempo.
-Le bastonate del vecchio sono servite a qualcosa come vedi. – Disse, prorompendo in una risata.
-Già, - lentamente ricominciavo a sentirmi a mio agio – posso assicurarti che ne ho ricevuta una buona dose anch’io.
-Che ci fai qui nella Capitale? – Chiese Giovanni, cambiando argomento.
-In realtà sono qui di passaggio, dovrei prendere una nave per Bravil fra una settimana.
Civello annuì, poi il suo sguardo si illuminò, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa.
-Ora ricordo! Il Galleggiante Gonfio, conosco il proprietario. Posso farti avere un posto a bordo, se ti va.
-Davvero? Sai per caso quanto costerebbe?
-Ma figurati, niente soldi. Prendilo come una richiesta di scuse. – Mi disse, dandomi una pacca sulla spalla.
Provai a insistere ma fu inutile, Giovanni mi impose di accettare e alla fine lo feci. Mi era andata bene: non mi sarei dovuto recare al Porto fino alla prossima settimana e, in più, avrei risparmiato qualche septim, il che faceva sempre comodo. Ci congedammo, ripromettendoci di farci una birra una di quelle sere, ma prima che potesse andare, lo fermai, chiedendogli:
-Ehm, scusa, sapresti indicarmi la strada per il Tempio? Non so ancora orientarmi bene in questa città.
-Vai tranquillo, all’inizio è così per tutti. Vai di là, oltre quel portone.
-Grazie Giovanni, ci si vede.

Era strano vedere quanto potessero cambiare le persone nel corso del tempo, ma alla fine: io ero molto diverso dal ragazzino che aveva lasciato Chorrol qualche mese prima; Lucien era diventato un assassino al soldo della Madre Notte e Civello, beh, lui era diventato un ufficiale nei ranghi della Legione. Eravamo tutti cambiati, era una cosa che avevo sotto gli occhi ogni giorno. Non c’era niente di cui stupirsi.
Mi recai a casa di Claudius, nella periferia del quartiere templare: come avevo immaginato la sua abitazione era alquanto modesta, ma perlomeno sembrava un posto accogliente. L’imperiale aveva già apparecchiato la tavola con della frutta fresca, pane schiacciato, qualche bottiglia di vino e un po’ di carne stufata. L’odore speziato riempiva l’intera sala da pranzo e sembrava parecchio invitante. Mi accomodai alla tavola con lui, lasciando le armi in un angolo della stanza: non era cortese né comodo cenare con una spada dietro la schiena.
-Eccoti, finalmente. Ho appena finito di preparare, Sabine dovrebbe arrivare a momenti.
-Sembra tutto buonissimo. – Mi complimentai, con l’acquolina in bocca.
-Non avendo più un gregge da condurre, mi sono dedicato alla cucina. Un po’ di vino? – Mi chiese, con un sorriso stampato in volto.
-Certo. – Risposi, porgendo il bicchiere.
-Come è andato il primo giorno nella Capitale?
-Bene, mi sono fatto un giretto e ho sbrigato un paio di commissioni. – Non scesi nei dettagli, non volevo certo che si sapesse in giro che mi portavo appresso una spada che valeva migliaia di septim, anche se di Claudius potevo fidarmi. – È davvero una bella città.
-Già, più da visitare che da vivere però. – Sulla sua faccia c’era ora una smorfia di amarezza.
-Perché dici così? – Chiesi, anche se immaginavo la risposta.
-Beh, all’apparenza qui tutto sembra perfetto, ma se provi a scavare più a fondo ti accorgi di un sacco di cose che non vanno. La zona del porto è una discarica a cielo aperto, in pratica un covo di pirati e tagliagole. Ci sono un mucchio di guardie corrotte, gente che non ha un septim manco a rivoltarle dalla testa ai piedi e tante, tante, tante persone che muoiono di fame. I mendicanti sono talmente odiati che li vedi più spesso nascondersi che venirti incontro a chiedere elemosina, a rischio di essere sbattuti in gattabuia perché “rovinano l’immagine della città”. Al Tempio poi – sbuffò, stizzito – nessuno muove un dito, paradossalmente l’unico a cui importa della povera gente, qui in città, è un criminale.
-Chi sarebbe? – Chiesi, incuriosito.
-Avrai sicuramente visto i manifesti appesi in pratica ovunque: è la Volpe Grigia.
-Uhm, sì, credo di averne visti un paio. – Ammisi.
-Viene considerato una sorta di re dei ladri, sembra che ogni povero e nullatenente di Cyrodill sia sotto la sua protezione, ma non lo si è mai visto in giro, alcuni credono che si tratti solo di una leggenda. Il capitano Lex si dedica alla sua cattura da anni.
-Seriamente?
-Vedessi quanti soldi sperpera in quella che alla fine è diventata una questione personale. Non scherzo, questa città peggiora di giorno in gior-
-Quanto la menerai ancora con questo pessimismo? Eh, fratellone? – Disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai di scatto: a parlare era stata una ragazza minuta, forse un po’ più giovane di me. Aveva i capelli corvini e gli stessi occhi scuri di Claudius. Era davvero graziosa: la sua pelle mi ricordò quella di Jeanne, simile all’alabastro, ma tutto in lei richiamava purezza e innocenza.
Quando mi rivolse lo sguardo, mi sentii avvampare e abbassai gli occhi. Alla compagnia femminile dovevo farci ancora l’abitudine, nonostante tutto.
-S-salve. – Dissi, trovando il coraggio di rialzare lo sguardo.
-Ciao, tu devi essere l’amico di cui Claudius mi ha parlato. – Aveva un sorriso stupendo. – Piacere di conoscerti, il mio nome è Sabine, Sabine Arcadia.
-Ragnar’ok Wintersworth. – Dissi, alzandomi di scatto e baciandole la mano.
Le scappò un risolino: quel gesto di galanteria, fatto di getto, all’improvviso mi apparve come una dimostrazione di estrema idiozia.
-Non c’è bisogno, non sono una lady, signor Ragnar. – Poi accennò un gesto, col capo. – Ma la ringrazio, lei è molto gentile.
-Dai, sediamoci, che si fredda la cena! – Disse Claudius, impaziente.
Ci accomodammo e mangiammo lo stufato di carne, accompagnandolo col pane e qualche sorso di vino. Amavo quei momenti di pausa, in cui potevo starmene sereno e senza pensieri, a godermi un po’ di buon cibo e la compagnia di nuovi amici. Sabine, come preannunciatomi dal fratello, si occupava di quelle persone anziane che erano rimaste sole, senza nessuno che se ne occupasse. In quest’ultimo periodo badava a un vecchietto in particolare, che Claudius non sembrava gradire granché.
-Perdonatemi l’espressione, ma è davvero un vecchio porco quello lì! – Disse l’ex sacerdote, non riuscendo a nascondere una certa irritazione.
-Andiamo, non dire così, che sai che non è vero. – Protestò la sorella.
-Un uomo di quell’età non dovrebbe guardare in quel modo una ragazza così giovane, sbaglio Rag?
Odiavo essere ficcato in mezzo a discussioni in cui non c’entravo assolutamente nulla ma, non sapendo che dire, accennai un sì.
-Fratellone, tu ti preoccupi troppo ed è per questo che ti voglio bene! – Lo stuzzicò la sorella, mandandogli un bacio volante.
-Sfotti, sfotti pure. Non voglio ammorbare oltre il nostro ospite con simili questioni. Vuoi un altro pezzo di pasticcio, Ragnar? – Mi disse, pronto a tagliare un’altra fetta.
-No, no, grazie sono a posto così.
-Io lo voglio, grazie!
-Ti sei abbuffata fin troppo tu. Rag, - disse, mentre Sabine si fiondava sul pasticcio servendosi una bella fetta, - tu puoi dormire nella mia stanza, io starò nel letto nello scantinato, mi ricorderà i vecchi tempi al monastero.
-No, assolutamente. Non voglio dare disturbo, dormo io di sotto.
-Ma cosa? Sei mio ospite- provò a protestare.
Quella notte avrei provato a entrare di nuovo in contatto con l’anima di Cardys, avrei preferito farlo in un posto che fosse isolato. Mi inventai una scusa, perché l’imperiale si decidesse a desistere.
-Sai, è che preferisco la solitudine. Ormai ci ho fatto l’abitudine e poi mi piace leggere prima di coricarmi, quindi davvero, insisto.
-Ah, i ritmi del viaggiatore. – Si rassegnò. – Va bene, se è questo che desideri.
-Domani cosa fai? – Mi chiese la ragazza, dopo aver trangugiato l’ultimo pezzo di pasticcio.
-Sabine! – La rimproverò il fratello.
-No, non fa niente. – Lo rassicurai. – Dovrei recarmi all’Università Arcana per risolvere una questione.
-Bello! Domani ho la giornata libera, posso venire? Eh? Eh? Ho sempre sognato di vederla! – Mi pregò, tutta eccitata.
-Non dare disturbo al nostro ospite!
-Claudius, tranquillo, non c’è problema. – Poi, rivolto a Sabine. – Certo che puoi venire, mi farebbe piacere.
Sabine ne fu entusiasta. Rimanemmo d’accordo che ci saremmo incamminati per l’Università Arcana il giorno dopo, per le nove e mezza del mattino.
Data la buonanotte agli Arcadia, raccolsi le mie cose e scesi nello scantinato.
Fra i cassoni, i bauli e le vecchie bottiglie impolverate, c’era un letto a una sola piazza: le lenzuola erano state cambiate di recente, il cuscino era fresco e morbido sotto la testa.
Presi il diario di Cardys e Durendal, lasciando il resto della mia roba su un comodino accanto al letto. Osservai la spada, sfilandola appena dal suo fodero, per ammirare le venature acquose lungo tutta la lama. Le parole di Rohssan mi riecheggiarono nella testa come un monito: “c’è bisogno che si fidi di te”. Fu allora che ebbi l’impulso irrefrenabile di parlarle sottovoce, come ad un’amante che si incontra ogni notte di nascosto.
-Mi hai protetto per tutto questo tempo, dolce anima, e io non ti ho mai ringraziata per questo … beh, voglio farlo adesso: grazie, Durendal, grazie di cuore. Posso solo immaginare cosa tu abbia dovuto patire, dolce anima, non lo meritavi, ma sappi che in me troverai un compagno, un amico che attenui un po’ l’amara pena della tua prigionia. Voglio che tu lo sappia.
Sentii la spada sibilare, sorrisi e continuai a parlarle, finché, ormai sconfitto dal sonno, non precipitai nei miei sogni.

Davanti a me si materializzarono di nuovo le immagini e i colori smorti dei ricordi di Cardys. Ero in una stanza buia, lei era accanto a me, intenta a guardare qualcosa attraverso lo spiraglio della porta socchiusa.
Vestiva un abito elegante, bianco, con le spalline in pizzo e  con balze e merletti lungo la gonna. Fra le mani stringeva una piccola scatolina, probabilmente un regalo per qualcuno.
La sua espressione era inquieta: forse stava assistendo a qualcosa che non avrebbe voluto vedere. Oltre la porta sentivo delle voci, intente in una conversazione. Quando mi sporsi, spinto dalla curiosità, vidi due persone intente in una conversazione, sullo stesso divano dell’altra volta.
Erano un uomo e una donna: il primo lo riconobbi immediatamente come Hannibal Traven, mentre l’altra era un’altmer che non conoscevo, indossava la tunica riservata ai maghi della Gilda.
-Vedo che ti sei affezionato parecchio alla nostra piccola dunmer, Hannibal, non me lo sarei mai aspettato da te. – Disse l’elfa, in tono canzonatorio.
-Non essere sciocca Caranya, la sto semplicemente seguendo nei suoi studi. – Rimbeccò il bretone, abbassando tuttavia lo sguardo.
-Figurati, sei libero di fare ciò che vuoi, non mi interessano le tue storielle da quattro soldi con gli studenti. Mi interessa solo sapere che tieni a mente l’obbiettivo che ci siamo prefissati.
-Non lo dimentico, tranquilla.
-E spero che quando verrà il momento, non avrai remore o tentennamenti. – Disse, passandogli un dito sotto il mento. – Ho lavorato a lungo per renderti gradito agli occhi del Consiglio e spero farai la tua parte.
-Sono deciso quanto te, Caranya. – Disse Traven, risoluto.
-Ti eleggeranno Arcimago e tu bandirai la negromanzia dalla nostra gloriosa Gilda, sbattendo fuori dai ranghi quei folli che ancora la praticano.
-Lo farò. – Promise, con voce sicura. Eppure nel suo volto non riusciva a nascondere una stilla di dolore.
-Compresa lei? – Chiese l’altmer, come per metterlo alla prova.
-Compresa lei.
Gli occhi di Cardys si sgranarono e si fecero umidi, “povera ragazza”, pensai.
-Così mi piaci, tesoro mio. – Disse Caranya, baciandolo sulla bocca.
Cardys corse via, lanciando all’aria il dono che aveva portato forse per Traven, lasciandolo lì, di fronte alla porta.

La visione svanì e le voci si dissolsero, lasciandomi solo di fronte alla parte ancora buona di Cardys. I suoi occhi erano umidi e tristi, come se la scena che avevo appena visto risalisse a non più di qualche minuto prima.
-Sei tornato, ragazzo. Così hai visto ciò che l’uomo che amavamo ci ha fatto. – Abbassò lo sguardo. – Sai, in me, come in ognuno di noi, c’è sempre stata una parte che si nutriva dell’odio e del rancore nei confronti di chi ci feriva, ci derideva, ci ingannava. Fino ad allora ero riuscita a tenerla sotto controllo, ma vedere ciò che Hannibal ci aveva fatto le diede potere su di me. Lentamente fui reclusa in un angolo della mia mente e lei prese il controllo assoluto sul mio corpo e sulle mie azioni. Ammetto che in un certo senso l’ho lasciata fare: lei era quella forte, lei era quella che poteva reagire a un simile dolore … mi sono resa conto del mio errore quando ormai era troppo tardi.
-Ci dev’essere un modo per placarla, qualcosa che le ridia pace, che ristabilisca l’equilibrio.
-Temo che se non potrà uccidere Traven il suo odio non farà altro che crescere, l’unica possibilità che rimane è distruggere il diario… - Rispose, con rassegnazione.
-Questo significherebbe uccidere anche te. – Dissi, dopo un’iniziale esitazione. – Mi rifiuto, ci dev’essere un’altra via.
-Il male è troppo ben radicato, giovane nord, non c’è altro modo per estirparlo. – Strabuzzò gli occhi. – Sta arrivando, faresti meglio ad andare.
-Non può farmi del male, lasciami parlare con lei. – Le proposi.
-È tutto inutile, cercherà di ucciderti e impossessarsi del tuo corpo, come l’ultima volta.
-Lasciami provare, abbi fiducia. – Insistetti.
Appariva scettica ma alla fine cedé, discostandosi un poco e rimanendo in attesa, lì con me.
La Cardys malvagia non tardò a manifestarsi, avvolta come sempre dai suoi abiti da negromante. Come preannunciato da quella buona, era pronta ad attaccarmi. Misi le mani avanti, lasciando intendere che volevo solo parlare.
-Ancora tu, ragazzo, e il tuo guardiano. Perché sei tornato?
-Vorrei tu ascoltassi ciò che ho da dirti.
-Perché mai dovrei farlo? Nulla di ciò che mi dirai può interessarmi.
-Ascoltalo, provaci almeno. – Le disse la parte buona.
-Senti, capisco il tuo odio. Anch’io sono stato tradito e abbandonato da chi amavo. Fa male, ti spezza qualcosa dentro, qualcosa che non tornerà mai più come prima. Ma la verità è che ormai è finita: sei morta e la tua anima è confinata fra le pagine di questo diario. Ti prometto che Traven pagherà per ciò che ha fatto. Non costringermi a distruggere il diario.
-Oseresti farlo?! Non mi negherai la mia vendetta, ragazzino! – Avevo sbagliato a citare il diario, pessima mossa, pensai. – Non andrò nel vuoto con Sithis! Sarò io a uccidere Traven! – Urlò.
Si scagliò contro di me, ma prima che potesse anche solo toccarmi una luce rossa mi avvolse, strappandomi alle grinfie di Cardys la Grigia, trascinandomi verso un altro luogo, lontano da lì.


Note dell’autore

E così finisce il tredicesimo capitolo di Oblivion: the story of the Hero of Kvatch (Prologue), qui abbiamo risposto a un paio di domande che ci facevamo da un po’, eh? Spero la storia vi stia piacendo :3 io l’entusiasmo non lo perdo mai.
Comunque, signori e signori, salutate con la manina la mia BetaReader: Arwyn Shone :D datele un caloroso bevenuto! *90 minuti di applausi* Dopo aver seguito con passione la storia ha deciso di darmi una mano, ripulendo le bozze dai piccoli errori di distrazione che facciamo un po’ tutti ^^

Grazie, Arwyn!

Alla prossima,
NuandaTSP
 
   
 
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