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Autore: Il_Signore_Oscuro    08/12/2016    1 recensioni
Ragnar'ok Wintersworth un giorno sarà l'Eroe di Kvatch, colui che salverà Tamriel dalla minaccia di Mehrunes Dagon, principe daedrico della distruzione, con il fondamentale aiuto di Martin Septim ultimo membro della dinastia del Sangue di Drago. Ma cosa c'è stato prima della storia che tutti noi conosciamo? Chi era Ragnar prima di essere un Eroe? Lasciate che ve lo mostri.
[PAPALE PAPALE: questa storia tratterà delle vicende di Ragnar. Non sarò fedelissimo al gioco ma ne manterrò le linee generali, anche se alcuni avvenimenti saranno cambiati o spostati nel tempo. Non ho altro da dirvi, se non augurarvi una buona lettura!]
BETA READER: ARWYN SHONE.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eroe di Kvatch, Jauffre, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Chapter nineteen – Through the darkest dream.

La lettera scivolò dalle mie dita, dondolando verso terra e cadendo con quello che mi sembrò un tonfo assordante. Incredibile quanto potesse essere pesante un rotolo di carta così piccolo e quali grandi cambiamenti recassero quelle poche righe vergate con l’inchiostro.
Sabine non c’era più, e io stentavo a rendermene conto: il suo viso, così chiaro e delineato nella mia memoria, si fece improvvisamente opaco, con i contorni sfumati, sempre più lontano … sempre più lontano da me. Avevo immaginato giorni futuri in cui ci saremmo potuti rivedere, giorni futuri in cui avrei potuto rivelarle i miei sentimenti, ma adesso tutto questo era sparito. Le mie parole sarebbero rimaste inespresse, chiuse con il rimorso di non essere stato lì quando lei ne aveva più bisogno. “Potevo salvarla” mi ripetevo, “Potevo ammazzare quel bastardo e stringerla fra le braccia, dirle che andava tutto bene, che era ormai tutto passato” intenzioni, cose che avrei potuto fare e che non avevo fatto perché non ero lì. La rabbia mi raschiava lo stomaco e il dolore mi dava il mal di testa. Volevo lasciare il mondo per un po’, smettere di sentire, smettere di provare tutto questo.
Avevo bisogno di un sonno artificiale che spegnesse la luce, i miei sensi, che mi precipitasse in un vuoto dove ogni sensazione sarebbe stata lontana, insieme alla sofferenza e al rimorso che non smetteva di avvelenarmi l’anima, ma che, anzi, cresceva con il passare dei minuti. Il monito di Jauffre “La morte è parte naturale della vita” ritornava alla mia mente come un unguento per alleviare il dolore di una bruciatura, ma non c’era nulla di naturale in tutto questo: quale creatura poteva essere tanto crudele da spezzare una vita nel fiore degli anni? Vedere l’innocenza in uno sguardo e scegliere comunque di soffocarla? Avessi avuto Rufio fra le mani, in quel momento, non l’avrei solo ucciso, no, gli avrei squartato il ventre … lo avrei soffocato con i suoi stessi intestini. I Nove Divini educavano al perdono, ma non esisteva perdono per una simile crudeltà. Sentivo le mani tremare, desideravo ardentemente impugnare la spada e spargere sangue, sangue che avrebbe ripagato tre volte tanto quello di Sabine. Eppure Rufio non era qui, era chissà dove, lontano da Bravil, lontano dalla lama che lo stava aspettando

Calò la sera e mi addentrai nei vicoli di Bravil, dove uomini incappucciati diffondevano il loro veleno: lo chiamavano Skooma, un derivato dello zucchero lunare, prodotto ad Elsewyr, patria dei khajiit. Aveva effetti narcotici, chi lo assumeva per lungo tempo sviluppava una forte dipendenza. Le reazioni alla sostanza andavano da un’incontrollabile euforia a uno stato di catatonia. Era su quest’ultimo che puntavo mentre cavavo il tappo della boccetta e buttavo giù, tutto d’un sorso, quel liquido dal colore lattiginoso. Mi scese lungo la gola, con la sua densa consistenza e il sapore dolciastro. Sentii i miei sensi ovattarsi; il dolore, la rabbia, il rimorso si dissolsero come fumo al soffio di un vento di primavera. Il mio corpo, svuotato delle sue sensazioni, si era accasciato sul pavimento di legno marcio, nella baracca abbandonata in cui mi ero rifugiato, a riparo dagli occhi delle guardie. Tutto si fece scuro, mentre i miei occhi precipitavano in un sonno indotto.
Eccola finalmente: la pace che mi affrancava dai dolori della veglia. Il torpore causato dalla skooma mi aveva dato un sonno profondo, simile alla morte, da cui sentivo e speravo che non mi sarei più risvegliato. Mi lasciai cullare nel vuoto, precipitare nel dolce abbraccio dell’oscurità quando una voce lontana mi richiamò, scuotendo la coscienza che credevo perduta.
Sentivo il suono ma non capivo le parole che lo componevano. Era forse un sogno? Eppure c’era qualcosa di diverso: non c’era traccia delle due Cardys e certamente non si trattava di un ricordo di Durendal. Tesi l’orecchio, chiusi gli occhi, tentando di interpretare quel rumore confuso: il tono era quello tremante e allarmato della paura, forse qualcuno aveva bisogno di aiuto? Camminai e camminai, per minuti o forse ore, fino a quando non vidi in lontananza il volto del sofferente: per i lineamenti aguzzi, le orecchie puntute e il colore bronzeo della pelle doveva essere un altmer. Ma in lui non c’era traccia della rigida compostezza della sua razza, tutt’altro, si agitava in un letto dalle bianche lenzuola, madido di sudore come in preda ad un incubo da cui non riusciva a svegliarsi. Quando tentai di posargli una mano sulla spalla per scuoterlo, questo svanì insieme alle lenzuola che lo ricoprivano.
I suoi lamenti furono sostituiti da una voce di donna, che pareva provenire da un abisso profondo: ripeteva una frase, qualcosa come “Questo è il mio regno”. Non sapevo di chi si trattasse, nulla in quelle parole mi suonava famigliare, in nessun modo. Mentre mi voltavo, cercando di capire da dove provenisse quella voce, vidi una ragazza materializzarsi davanti ai miei occhi, avvolta d’una nebbiolina scarlatta. Nelle sue fattezze riconobbi quelle della giovane vittima sacrificale di Yokuda, la mia antenata, Durendal.
Mi parlò con voce allarmata, gli occhi sgranati come se il tempo a nostra disposizione si stesse riducendo sempre più velocemente.
-Devi andare via da qui, Lothbrok, vai via.
-Io non sono Loth- provai a protestare.
-Vattene via! Svegliati Loth! Svegliati!

Mi alzai di soprassalto, con il fiato spezzato dalla vividezza di quell’incubo. Come avevo imparato dal mio viaggio nei ricordi di Durendal, i miei sogni non erano semplici fantasie evocate mentre dormivo, no, i miei sogni avevano sempre e comunque un significato: qualcosa di oscuro gravava sulla città di Bravil, me lo sentivo sulla pelle. La verità, tuttavia, era che non mi interessava: dopo essermi svegliato, gli effetti della skooma erano scivolati via dal corpo e il peso della perdita ritornava a farsi sentire.
Fuori dalla finestra l’alba aveva schiarito gli ultimi residui della notte passata. Sebbene avessi dormito per ore continuavo a sentirmi stanco, ma neanche con un letto a disposizione sarei riuscito a dormire ancora. Mi alzai dal pavimento sudicio della baracca e mi accesi la pipa, giocherellando con il fumo che si riversava fuori dalla bocca: provavo ad afferrarlo con le dita e quello mi sfuggiva, ad ogni ennesimo, futile tentativo. Una volta che del tabacco non rimase che cenere, scesi in strada, sperando, anche se forse inconsciamente, di incontrare qualche attaccabrighe così da poter sfogare con un labbro rotto o un occhio nero quel dolore che mi logorava dentro. Non ebbi fortuna in questo senso: a Bravil ognuno pensava ai fatti suoi, la gente scambiava a malapena quattro chiacchiere per strada.

Mentre giravo, l'occhio mi cadde sulla statua della vecchia signora fortunata: un uomo vestito di stracci le andava sussurrando una preghiera, baciandole il ginocchio di pietra con grande foga. La cosa mi stranì, perché lo stava facendo? Quando ebbe finito mi avvicinai e glielo domandai.
-La vecchia signora concede un po’ di fortuna a chi le rende omaggio – disse – io vengo qua ogni mattina.
“E sei ancora un mendicante, vedi tu che fortuna” pensai, senza dar voce a quelle parole. Non ci avevo mai contato molto sulle benedizioni o nella fortuna in generale: ero del parere che ognuno se la dovesse cavare con le proprie forze, che contare sull’aiuto degli altri o su una fantomatica entità superiore fosse il modo migliore per rovinarsi. Eppure, nella condizione attuale, un po’ di fede non poteva farmi male. Mi inginocchiai di fronte alla statua, non sapendo bene che chiederle. Percorsi con le dita le pieghe della sua umile veste di pietra prima di sussurrarle:
-Ciao signora, scusami l’impaccio ma “pregare”, beh, non so proprio come si fa. Pensa che sono cresciuto in un monastero e ho parlato con gli Dei al massimo una o due volte, quando ero costretto dai monaci. Niente da fare, ero recidivo. Mi rivolgo a te perché per la gente di qui sembri avere una certa importanza, se ti hanno così a cuore magari c’è un motivo … magari li aiuti nel momento in cui hanno più bisogno. – Rimasi un po’ in silenzio, raccattando le parole. – Recentemente ho perso un’amica, una cara amica, e io non so che fare … come reagire insomma. Capisci signora, sto male e mi sento perduto, altrimenti non ti disturberei con i miei problemi. Vorrei, vorrei che tutto questo passasse, che non fosse altro che un brutto sogno … ma non è un sogno, che si può fare? È la realtà. – Strinsi i pugni. – Se il dolore non me lo puoi guarire, se deve passare da solo, io un sola cosa ti chiedo: fa che, prima o poi, io abbia la possibilità di vendicarmi del bastardo che me l’ha ammazzata, solo questo. Si chiama Rufio, non so dirti dove sta né come sia fatto di preciso, so soltanto che è un vecchio e che merita di fare una brutta fine. Esaudisci la mia richiesta, vecchia signora, ti prego.
Conclusi, baciandole il ginocchio: sulle labbra sentii il freddo contatto della pietra e il suo sapore salato. Nelle orecchie un sommesso vociare che si placò non appena mi alzai da terra. Forse la mia preghiera qualcuno l’aveva ascoltata, chissà. Rivolsi un ultimo saluto alla signora, prima di andare.

Per impegnare la mia permanenza a in città mi sarei potuto recare presso la Gilda dei Maghi, per ottenere la mia raccomandazione da quella sede. Ma con l’umore che mi ritrovavo, l’ultima cosa di cui avevo voglia era rischiare la vita in una qualche folle missione al servizio di un altro. Quindi rimandai, almeno per il momento. Mi recai nella parte sud-ovest di Bravil, in cui era situata una locanda chiamata “Il Pretendente Solitario”. La zona sud-ovest era collegata al resto della città tramite un ponte sospeso, di sotto fluivano le acque di scolo, poi liberate nel Nibenay. La superficie torbida lasciava largo spazio all’immaginazione su ciò che scorreva in quel canale.
Il Pretendente Solitario si sviluppava in tre piani: quello terreno era destinato all’intrattenimento di chi era lì solo di passaggio o per consumare un pasto in compagnia; il primo e il secondo erano invece destinati alle camere da letto, quindi per coloro che avessero bisogno d’un posto in cui passare la notte.

Notai sin da subito la grande varietà presente all’interno della locanda: a tenere il banco era un orsimer paffuto, dall’aria tanto allegra da stonare con il resto della città; quasi a fargli da contrappeso nelle cucine c’era un’altmer dall’aria cupa e che per la freddezza di certi suoi gesti: tagliar patate e frutta di stagione, sembrava nascondere qualche segreto; in fondo alla sala, vicino al fuoco, un argoniano coperto da una corazza scura. Consumava la sua colazione non distogliendo gli occhi ambrati dal camino acceso. Sul pettorale era inciso uno stemma raffigurante un’ascia e una mazza incrociate; ad un altro tavolo una donna, forse di etnia imperiale, e una khajiit discutevano su questioni che sembravano di una certa importanza, passandosi di tanto in tanto piccoli oggetti di valore, ricambiati dall’imperiale con manciate di septim.

Presi un posto libero e ordinai da bere, ignorando l’occhiata stranita dell’orco, forse sorpreso da una simile richiesta a quell’ora del mattino. Sorseggiando la mia birra, presi a ripetere uno dei giochi che facevo da bambino: immaginare le vite degli altri, delle persone che osservavo, crearci dietro una piccola storia di fantasia, basandomi su ciò che mi suggeriva il loro aspetto.

L’orsimer forse era una padre di famiglia, lieto per la nascita del suo primo bambino, questo avrebbe spiegato la sua aria così allegra e spensierata. Magari stava raccogliendo abbastanza denaro per spostarsi altrove, lontano dall’aria malsana di Bravil, chissà magari a Kvatch oppure ad Anvil.
La cuoca invece doveva avere un losco passato, forse era stata un membro della Confraternita Oscura e in quell’umile lavoro a servizio degli avventori cercava una qualche forma di riscatto dalle sue malefatte passate: del resto la mano salda da assassina sembrava avercela.
L’argoniano… l’argoniano, dovetti pensarci un po’ di più, ecco! Lui doveva essere un mercenario in missione, probabilmente era molto lontano da casa sua. L’aria meditabonda mi suggeriva che dovesse svolgere un’impresa piena di pericoli, dove le probabilità di uscirne vivo erano molto scarse. Magari i suoi compagni c’avevano già provato, rimettendoci la pelle, quindi lui ora era del tutto solo, ma un contratto non l’aveva mai declinato prima e non aveva di certo intenzione di farlo ora: aveva una reputazione da difendere!
Le due donne, beh, arrivato alle due donne ero già al terzo boccale e la mia testa galleggiava a qualche metro dal corpo. Quelle due erano di sicuro membri della- ed ecco che capii cosa succede quando si beve troppo e a stomaco vuoto. Un flusso acido partì dal ventre, risalì per la gola e si riversò fuori dalla mia bocca dritto sul pavimento. Ebbi appena il tempo di vedere la melma giallastra del mio vomito prima di crollare giù dalla sedia e finirci dentro, insozzandomi il viso e i capelli. Nella locanda scese un silenzio di tomba, tutti erano scattati in piedi per vedere cos’era successo. Fu l’orco il primo a venire in mio soccorso.
-Ah, dannazione ragazzo! Ma che hai combinato?! Ti avevo detto di fermarti!
-Come sta tuo figlio? È un maschietto o una femminuccia? – Ero proprio andato.
-Ma che- lasciamo perdere. S’krriva, aiutami a portarlo fuori.
La khajiit obbedì e insieme mi trascinarono fuori dalla locanda, posandomi con la testa sull’erba. Le dita felpate di S’krriva mi aprirono l’occhio, mentre le sue iridi feline lo esaminavano con attenzione.
-Skooma. – Disse, storcendo il muso.
-Un altro?! Quando la toglieranno quella merda dalle strade?! – L’orco aveva decisamente perso il suo buon umore.
-Fatti dare da Lucia una pozione rinvigorente e fai preparare una tinozza, questo qui ha bisogno di un bel bagno caldo.
-Vado e torno. – Disse l’orco, rassegnato.
-Ah e degli spicchi di mela con foglie di menta, per Mara: ha un alito pestilenziale. – Aggiunse, infastidita dal cattivo odore.
L’oste tornò poco dopo con quanto richiesto. S’krriva mi pulì il viso e i capelli con uno straccio umido, prese la boccetta e cavò via il tappo con i denti. Mi sollevò leggermente il capo e mi versò l’intruglio in bocca.
-Bevi, bevi, da bravo.
Deglutii, mentre la pozione cominciava già a fare effetto. Sentivo un certo sollievo, il mio stomaco aveva smesso di contorcersi.
-Adesso mangia questo, su’.
Masticai la mela, avvolta in foglie di menta. Era un toccasana per il sapore acre che mi sentivo in bocca. Mi misi a sedere e sputai per terra, pulendomi le labbra con la manica.
L’orco, visto che la situazione sembrava essersi calmata, rientrò nella locanda, forse per ripulire lo schifo che avevo lasciato sul pavimento.
-Ti senti meglio, ragazzo? – Mi chiese lei evidentemente preoccupata.
Risposi con un breve cenno di assenso, mentre prendevo lunghe e profonde boccate d’aria.
-Perché ridursi così, alla tua età poi … - mi rimproverò, con aria severa.
-S-Sabine. – Fu l’unica cosa che ebbi la forza di dire.
-Chi è Sabine?
Gli occhi mi si inumidirono, distolsi lo sguardo. Non lo sopportavo, non potevo proprio sopportare che una sconosciuta, per quanto gentile, potesse vedermi piangere e singhiozzare.
-Ascolta giovanotto, - mi richiamò lei, con fermezza – non posso sapere cosa t’è preso e non posso costringerti a parlarne. Ma sta sicuro che ridurti a una pezza da piedi non ti aiuterà, anzi, peggiorerà soltanto le cose. Non lo so chi sia questa Sabine, se una tua amica o altro, ma di certo non vorrebbe vederti conciato così. Promettimi che non toccherai più quella schifezza della skooma, siamo intesi?
Mi ricordava così tanto mia madre Brunja, con quel suo misto di dolcezza e rudezza insieme. Ah, mia madre, chissà come stava, cosa stava facendo … forse avrei dovuto scriverle. Comunque, mi sentivo in imbarazzo ad essere trattato come un bambino, ma immagino che me lo meritassi: un uomo non si sarebbe comportato come avevo fatto io. Risposi alla khajiit con un breve cenno di assenso e, tornato finalmente in me, mi rialzai e rientrai nella locanda. Cavai dalla sacca una manciata di septim, consegnandoli al proprietario e ringraziandolo dell’aiuto. Volevo farmi perdonare per il disturbo che avevo causato a lui e ai suoi clienti. L’orco accettò volentieri il denaro, dopo averlo messo da parte mi indicò la porta che conduceva allo scantinato, quindi al piano sotterraneo.
-Di sotto c’è una tinozza d’acqua calda, datti una ripulita e poi – si schiarì la voce – hai un posto dove poter riposare?
Mi sarei potuto recare nella sede di una delle Gilde e usufruire dei letti, ma di camminare non ne avevo proprio voglia. Quindi risposi di no. L’orco sospirò e poi concluse dicendo:
-Allora ti farai una bella dormita di sopra, questi basteranno a pagarti la camera. – Disse, riferendosi alle monete che gli avevo dato.
-Ti ringrazio. – Risposi, prima di congedarmi con un cenno sommesso del capo.

Sceso nello scantinato mi spogliai, poggiando la mia roba sugli sgabelli accatastati vicino al muro di legno, dall’acqua fuoriusciva un denso vapore che mi rinfrancava della stanchezza. Quando fui avvolto dal calore la mia mente volò libera: ripensai a Sabine e a ciò che avevo fatto, a ciò che non avevo fatto. Ricordai il suo viso di neve, gli occhi scuri, quella promessa che aveva fatto a sé stessa: entrare un giorno nella Gilda dei Maghi. Lo stesso obbiettivo che mi ero prefissato io, ma a lei quel futuro, quella promessa, era stata negata. Sentii il bisogno di parlare, parlare a me stesso e a lei, a voce alta. La mia voce all’inizio era rauca, poi si distese e si sciolse nel tono di sempre: quello grave ed energico di un ragazzo in attesa di diventare un uomo a tutti gli effetti, nel corpo e nella mente.
-Cara Sabine, hai visto? – Sorrisi con amarezza. – Ho combinato un po’ di guai da quando non ci sei più. Se fossi qui ne staremmo già ridendo insieme, mi rimprovereresti con una delle tue pacche sulle spalle: così energiche per un manina tanto piccola, un braccino così sottile. Ma tu non sei qui, te ne sei andata e io devo ancora capacitarmene del tutto. – Ecco, di nuovo gli occhi lucidi. – Perché? Perché è successo proprio a te? Poteva capitare a qualcun altro, ma no, è a te che è capitato. – Tirai su con il naso. – Ci sono due cose che non riuscirò mai a perdonarmi, un peso che mi porterò per sempre nell’anima, cara Sabine. La prima, la prima è di non essere stato lì quando ne avevi bisogno … io avrei potuto salvarti, ne sono convinto, avrei potuto salvarti ma non c’ero. La seconda, beh, la seconda è che non ti ho mai detto ciò che provavo per te, sì Sabine, perché tu devi sapere, devi sapere anche adesso che è troppo tardi … io ti amavo, no, anzi, io ti amo! Per Akatosh, ti amerò fino alla fine dei miei giorni in questo stramaledetto mondo! – Due gocce calde mi traversarono le guance. – Non te l’ho mai dimostrato il mio amore, avrei potuto farlo ma non l’ho fatto. Ma il mio amore c’era e c’è anche adesso, qui, nel mio cuore o dove altro sta, ma sta! Io, io avrei voluto vedere i tuoi sogni realizzarsi, viverli insieme con te e ti prometto, ne andasse della mia vita, ti prometto che entrerò nella Gilda dei Maghi! Lo farò per entrambi, costi quel che costi lo farò. Basta cazzate, basta scuse, d’ora in poi mi ci impegnerò per davvero. – Poi aggiunsi, in tono più deciso. -  Basta fuggire … basta fuggire. – Sorrisi, qualche lacrima salata mi scivolò nella bocca.
Ecco che un poco andava placandosi quel senso di perdita. Se mi fossi aperto sin da subito, svuotandomi di tutto ciò che mi si agitava dentro, avrei evitato di umiliare me stesso come invece avevo fatto. Non sarei più scappato dai problemi, no, da quel momento in avanti avrei affrontato le cose di petto, senza scuse o giustificazioni. Lo dovevo a me stesso, lo dovevo a Sabine.
 

 
   
 
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