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Autore: esmoi_pride    23/12/2016    4 recensioni
"Storie di Saab" è un medieval fantasy slash nato nel mondo di Pathfinder che racconta le vicende della famiglia imperiale dell'Alba di Saab, città devota al dio minore Saab e dalla recente fondazione, luogo di grandi promesse e di speranza. E' l'ideale se siete alla ricerca di drow poco ortodossi, elfi carini, slash andante e una misteriosa storia sulle origini del Dio e della sua città, da scoprire capitolo dopo capitolo.
E' una storia che si domanda cosa è giusto e cosa è sbagliato, e lo scopre attraverso le esperienze di Vilya Goldsmith, un ragazzo che non sa se potrà mai riuscire a diventare un uomo. Lo scoprirà proprio a Saab, città creata sotto antiche rovine secondo la missione di suo padre Azul: riunire la gente oppressa e discriminata in un solo popolo che guadagni forza e unità, e che accolga tutti quelli come loro. Intrecci tra molteplici personaggi mostreranno una città ricca di diversità, e le azioni di Vilya ci porteranno a chiederci quanto possa essere doppia la linea estrema dove le cose non sono più giuste, né sbagliate, e quanto spesso potremmo finire per percorrerla.
Genere: Dark, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Saab'
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La rana o lo scorpione.

 
 


Il secondo capitolo si apre venti anni dopo con la narrazione in prima persona di So'o Goldsmith, principe del regno dell'Alba di Saab e figlio dell'Imperatore Azul Goldsmith, avuto in dono dal dio Saab stesso per suggellare l'accordo tra l'Imperatore e il suo Cavaliere (e compagno), Imesah Hos, e affidato a loro perché lo istruissero un giorno a succedergli al trono. So'o Goldsmith cresce a palazzo e diventa esempio di rettitudine, disciplina e talento. Ma un ragazzo di diciassette anni, per quanto miracoloso e divino, prima o poi dovrà fare i conti con il richiamo dei suoi geni mortali.
 
 


Mi siedo sulla panca di marmo e tiro fuori dai polmoni un sospiro esasperato ad occhi chiusi. Stanco, sì, ma perfetto, con le mani poggiate sulle cosce.

Questa storia mi sta facendo impazzire.


Era un giorno qualsiasi, e avevo appena smesso i miei impegni reali. Come al solito mi ero seduto nel chiostro, proprio qui, su questa panca di fronte all’obelisco dei caduti, e mi stavo prendendo una boccata di aria fresca dopo le lezioni. Era normale che fossi stanco, non come adesso ma comunque provato dalle dure lezioni, e sarà per quello che lui trovò il coraggio di venire da me.

“… Ti va di andare a farci un giro?” Mi chiese.
“Ci divertiamo, facciamo un po’ di casino. E dai, qui è una noia mortale e lo sai anche tu.”

A dire la verità le lezioni che faccio sono molto interessanti! Che ignorante…

Ma… aveva catturato la mia attenzione, sì. Certo, quando uno sconosciuto ti chiede di andarvi a sperdere, se sei un ragazzo giovane e inesperto, pieno di oro indosso, e soprattutto una persona importante che se rapita potrebbe valere diverse tonnellate di gioielli, e dici sì, allora sei proprio scemo. Lo so, lo so. Ma non me n’è importato niente in quel momento. Voglio dire… ho… diciassette anni. E da qui non sono mai uscito- non per divertirmi, mescolarmi tra la gente, conoscere delle persone. Ad un certo punto, quando mi fece quella domanda, sentii il mio cervello urlare “Facciamo una cosa folle”. E l’ho fatta. Ho preso la mano che mi tendeva.

Ho visto in un giorno più cose di quante ne avessi viste in tutta la mia vita. Una vita fatta di pagine di libri, di illustrazioni, quadri, favole e leggende, di proiezioni vanesie che non ho mai potuto afferrare. Lui mi ha preso per mano e mi ha fatto vedere le case colorate della città bassa, e il mercato, una zona della città così vasta da sembrare comprenderla tutta, e le facce della gente erano così diverse le une dalle altre… Mi ha portato dove vanno i ragazzi del Popolo, dove si divertono con la palla, o giocano con la spada.

Siamo andati in una locanda. È una fortuna che avessi deciso di umiliarmi con i vestiti più poveri che avessi, perché persino quelli erano troppo eleganti per il posto dove ci trovavamo. Ma era un luogo abbastanza tranquillo perché potessimo fare due chiacchiere in pace. Lui aveva preso del vino. Ho dovuto provarlo. Dovevo disobbedire in qualche modo, ed ero curioso… avevo un piccolo sorriso sulle labbra, timido ma contento.
Sempre composto nella mia postura, scomoda per cercare di farmi il più piccolo possibile, come per non dare fastidio, la mia mano si allungava al bicchiere di vino e mi faceva sorseggiare. Lui mi raccontava storie, e mi diceva i fatti della gente che stava lì, e poi si prendeva gioco di loro e mi faceva notare cose che non notavo: gli intrallazzi della cameriera, l’oste omosessuale, la signora risentita all’angolo.
Un sorso dopo l’altro la mia postura si distese ed io occupai uno spazio più grande, le braccia si sciolsero e si poggiarono sul tavolo, le gote si arrossarono e i miei occhi divennero lucidi, e il mio timido sorriso mostrò i denti in una smorfia divertita e birichina.


“Davvero non sei mai stato fuori da palazzo?”

Annuii zitto, con l’imbarazzo che sul mio viso si mischiava all’ebrezza, lo sguardo addolcito dal vino e puntato verso il basso. Lui si sporse, con quella sua faccia da scemo sconvolta e curiosa. Zero tatto, zero. Uno scemo.
“Ma che palle!”
Io sospirai, e distolsi lo sguardo. Lontano da noi c’era una donna a cui si alzava la gonna mentre stava ballando.
“E che diavolo fai tutto ‘sto tempo lì a palazzo?”
“Studio.”
Tornai a guardarlo, più deciso. Io sono orgoglioso di quello che faccio.
“Devo prepararmi per il mio ruolo. È importante. È molto importante.”
Lui mi scrutò per un momento, come per cercare di capire. Poi, da che era sporto verso di me, si ritirò e si accasciò col mento sulla mano del gomito poggiato sul tavolo.
“Ho capito. Ma potresti anche vivere ogni tanto.”
“Credo… che l’Imperatore e il Cavaliere abbiano paura che io finisca nei guai…” Ammisi, con una smorfia.
“Aaaah!” Esclamò lui, seccato “Sono stupide paure. Dovresti conoscere un po’ la tua gente, no?”
Mi guardava. Io ricambiai lo sguardo.
“Beh, per quello che ne so tu potresti essere il mio rapitore.”
Il vino diede a quella frase un tono… malizioso. E infatti lui sorrise, e mi scrutò con uno sguardo strano.

Prima mi guardava negli occhi, poi abbassò lo sguardo. Alle… labbra, forse, e più giù a guardare i miei vestiti o quello che si trovava sotto. In un’altra situazione mi sarei sentito in profondo disagio. Ma non so perché, quel suo sguardo mi piacque, mi fece sentire vivo in un certo senso. E poi non era solo quello. Quando tornò a guardarmi negli occhi c’era dolcezza nei suoi.
“Hai ragione. Probabilmente ti rapirò.”
Mi uscì una risata prima che io potessi anche solo accorgermene, e non riuscii a fermarla. Non riuscii a volerla fermare. Mi distesi sullo schienale della sedia.
“Tu mi stai facendo ubriacare.”
Lui sorrise guardandomi, era di sicuro molto contento. Poi si sporse verso la fiasca di vino.

“Allora basta così.”


Eravamo su di un tetto. Il tetto di una casa colorata. Eravamo stesi, a guardare il cielo. Ho sempre avuto la possibilità di guardare le stelle da palazzo. Guardarle con un’altra persona accanto, però, è diverso.
“Vuoi che io non so dove sia la stella polare? Cinque anni di pirateria!”
“Beh, sai, ho i miei dubbi visto che non riesci neanche a coniugare i cazzo di verbi!”
“La stella polare è più importante dei cazzo di verbi.”
Le mani sui nostri stomaci, i capelli sparpagliati sulle mattonelle. Il silenzio, per un bel po’ di tempo.

“So’o.” Mi fece lui. Io aspettai che continuasse.
“Tu da dove vieni?”
Corrugai la fronte, che domanda strana.
“Come Saab?” Continuò lui.
Alzò il braccio, indicò dritto di fronte a sé, sul cielo.
“Dalle stelle?”
Seguii il suo indice fino alla notte stellata, e riflettei.
“Io vengo dal tempio, in cui i miei papà fecero il rito.”
“Quindi sei unico. Non c’è nessuno come te.”
Ciò che lui mi disse mi intristì enormemente. Smisi di guardare le stelle e mi rabbuiai. Lo vidi con la coda dell’occhio voltarsi a guardarmi.

“So’o.” Mi chiamò. Allungò un braccio, per cercare la mia mano. La sua era calda… non dovevo lasciarglielo fare. Non dovevo restare fermo, ma lui la avvolse dolcemente in una stretta accogliente, e io non riuscivo a scansarmici. Mi ci sentivo annegare dentro, sentivo che fosse tutto ciò di cui avevo bisogno: un po’ di calore. Qualcun altro che mi tenesse la mano.
“Non è così, capito?”
Strinse la stretta.
“Tu sei nato unico, ma questo non vuol dire che debba esserlo per tutta la tua vita. Ti hanno creato perché tu fossi qualcosa, ma se lo sarai è solo perché l’hai voluto tu. Puoi dire no. Puoi non essere perfetto come dicono loro.”

Voltai il viso per guardarlo. Che strani discorsi. E mi ricordai che non sapevo da dove veniva questo ragazzo, vestito solo di pantaloni miserabili e con nessuna proprietà se non qualche moneta, e mi chiesi che ruolo avesse lui in tutto questo. Da chi era stato mandato. Cosa voleva da me. Cosa stava cercando di fare. Lui mi lasciò la mano, come se avesse capito, e tornò a guardare le stelle.


Dopo poco eravamo seduti a guardare il panorama della città, stanchi di vedere le stelle. Lontano vedevamo le meravigliose luci della Foresta Incantata alla fine della città, oltre le mura. Le finestre illuminavano le strade.
“Io… non ho mai fatto niente di tutto questo.”
Ammisi con imbarazzo, e credo di essermi lasciato sfuggire nel tono una nota compiaciuta. La verità è che ero brillo, e non mi rendevo affatto conto di quello che stava succedendo! Non sapevo ancora chi era veramente, e dopo una serata del genere nessuno mi avrebbe dato torto a provare affetto nei confronti della persona che mi aveva accompagnato, e nonostante fosse uno sconosciuto sentivo di essere collegato a lui, in qualche modo. Non sapevo quanto avessi ragione.
“Ti sei perso un bel po’ di roba allora.” Mi rispose con un ghigno, mentre i suoi occhi spiavano oltre le tende di una delle finestre.

“Ti ho visto.”
Il suo sorriso si spense. Divenne riflessivo. Il suo sguardo ancora altrove, ma non più in un luogo preciso.
“Passi le giornate a fare sempre le stesse cose. Non credo che sia sbagliato… ma…”
Si prendeva il suo tempo per parlare. Esalando un sospiro continuò.
“sentivo il bisogno di starti vicino.”
È stato come se avesse ammesso qualcosa che non voleva. Zittì, quasi in ansia, e guardò in basso. Io lo scrutai a lungo, riflettei su quello che mi aveva detto.
“Forse io ne ho bisogno.”
Borbottai, stringendomi un po’ nelle spalle strette, e voltandomi piano di fronte a me, di nuovo. Lui rialzò lo sguardo per osservare il mio viso, lo vidi con la coda dell’occhio. Presi un respiro.
“Nessuno si avvicina a me. Sono il Principe, figlio di Saab. Sono… sacro.” Serrai le labbra, con amarezza.
“Io… vorrei esserlo.” Il mio tono di voce era abbassato, per come i miei pensieri mi scoraggiassero
“Ma sento anche… sento come se per esserlo dovessi rinnegare qualcosa che fa parte di me. Se fossi nato per questo non sarebbe difficile, no? E invece…”
Mi morì la voce in gola. Lui mi stava ancora guardando.
“Se tu fossi nato per questo non saresti mortale, non credi?” Ipotizzò.
“Tu bevi, mangi… e..” esitò, si porto una mano a portare indietro i capelli della fronte come scusa per nascondermi la sua faccia per un momento.
“… quando hai preso la mia mano, lo volevi. Tu volevi… sporcarti.”

Rimasi interdetto a quella parola. Corrugai la fronte, cercando di capire meglio cosa significasse nella mia testa… poi tornai a guardarlo. Lui incrociò il mio sguardo, per… non so per quanto tempo. Forse poco, molto, non ricordo, ma era intenso. Eppure non mi dava fastidio. Non volevo scostarmene. Più lo guardavo, più notavo qualcosa che mi piaceva. Era una strana sensazione, come se avessi attraversato un portale e fossi finito in un altro posto, e.... bastava poco per tornare indietro, ma non volevo farlo.

“Io ti devo ringraziare per avermi portato qui.”
“Sono contento di quello che abbiamo fatto.”
“Sì… anche io.”
Sorrisi, malizioso. Divertito dalla nostra marachella, e anche… complice. Rialzai lo sguardo su di lui dopo averlo abbassato e ritrovare il suo sguardo ancora più intenso mi rese una statua di sale.

“So’o…”
“… Sì?”
“… Hai mai baciato qualcuno?”

Sono sicuro che la mia faccia divenne tutta rossa, e il vino mi fece ridere con disagio.

“N-no… io… hah… quando mai…” Dissi, scostando il viso dalla parte opposta, evasivo: certo, iniziai a preoccuparmi.
Fu in quel momento che sentii la sua mano sulla mascella, che mi portava il viso di nuovo verso il suo, e in quel momento chiusi gli occhi come se sapessi già cosa stesse per fare, e sentii subito dopo le sue labbra sulle mie, premute dolcemente.

Era così vicino a me che il suo odore si mescolò alla fresca brezza notturna e sentii girarmi la testa. Sentii il lieve vento piacevole scostarmi i vestiti, e per un momento pensai che fosse la sua mano. Inspirai un sospiro eccitato dalle narici, e schiusi la bocca per espirare. Lo guardai con i miei occhi verdi e ingenui, e lui con i suoi. Era anche lui assuefatto. Credo che nessuno di noi due sapesse cosa stesse facendo. E io mi spinsi di nuovo contro il suo viso, piano, timidamente, per un altro bacio.

Avrò fatto una figura da ragazzina incapace. Ricordo che mi spinse piano indietro per farmi stendere sul tetto e iniziò a baciarmi a lungo, all’inizio con una delicatezza che non era affatto da lui e poi mettendo più sicurezza nei suoi gesti. Ricordo anche la calda stretta delle sue braccia nude sul mio petto e attorno al mio corpo, e il caldo opprimente che provavo e che mi fece sbottonare qualche asola del vestito.
È davvero imbarazzante ripensarci adesso, con quello che ho scoperto.


Per tornare a casa salimmo direttamente dai tetti attraverso un passaggio segreto che lui aveva trovato. Mi allarmerei di questo passaggio se non sapessi che, nonostante la furtività del ragazzo possa ingannare le guardie, il palazzo è controllato anche per via magica. Questo il ragazzo non lo sapeva. Perciò, anche se non avevamo incontrato nessuna guardia, avevamo i minuti contati.
Scendemmo attraverso una scala che dava sul belvedere, proprio nel porticato dove si trovava la mia stanza. Un chiostro occupava il centro del porticato. Mentre scendevamo, io stavo ancora ridendo come una sciocca ragazzina. Quanto mi odio a ricordarlo adesso…

“Allora? Uhm… sei un cuoco.”
Cercavo di indovinare il motivo per cui lui era a corte, e le mie ipotesi erano instupidite dai rimasugli dell’alcool e dalle farfalle nello stomaco.
“No!” Esclamò lui ridendo, e voltandosi a guardarmi stranito.
“Oh, va bene… allora sei un maestro di spada?”
“Er, così mi lusinghi troppo.” Questa era la scena mentre mi accompagnava alla porta.
“Beh, lo scoprirò comunque.” Conclusi, fermandomi davanti alla mia stanza e voltandomi verso di lui. Lo trovai davanti a me, separati da poca distanza. Sapevo che ci rimaneva un po’ di tempo.

“Sì…” Sbuffò una risata guardandomi, e poi guardò altrove evasivo. “Uhm…”

Immagino che stesse per dire qualcosa di importante, ma lo interruppi con un mormorio flebile, perfettamente udibile nel silenzio di quella notte “Lo fai con tutti i ragazzi che ti piacciono?”
“-Cosa?”
“Portarli sui tetti a guardare le stelle.” Una risata fece vibrare la mia voce mentre lo dicevo.
Lui di nuovo, mi osservò bene in viso. Poi sbatté le palpebre, alzò il mento e rispose.
“Solo quando sono belli come te.”

Un ghigno si espanse sulle sue labbra, io risi e gli diedi un lieve spintone premendo la mano sul suo petto. Lui non ne subì affatto, sembrava fatto di roccia; indietreggiò quasi per farmi un favore, mentre rideva insieme a me. Quando le nostre risate si spensero, io incrociai le braccia al petto per ricompormi; avevo i muscoli di spalle e braccia tese dal freddo, ma temo che fosse ancora di più per l’eccitazione.

“Vuoi rivedermi?”
“Sì.”

Gli feci un sorriso dolce, catturato. Da come mi guardava, lui sembrò prendere sicurezza da quel sorriso e lo ricambiò. Si avvicinò a me, ancora più di quanto già lo era. Sollevò un braccio per portarlo accanto al mio viso, e con la scusa di portarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio mi accarezzò la guancia. Anche io mi avvicinai di più a lui. A quella vicinanza riuscivo a inspirare di nuovo il suo odore. Lo volevo baciare. Lui stava intrecciando le dita tra i miei capelli scendendo lungo la schiena, e si avvicinò alle mie labbra per baciarmi. Io mi stavo sporgendo, chiusi gli occhi.
E fu allora che sentii una porta sbattere, e la voce di mio padre.


“VILYA!” Esclamò Imesah – era infuriato. Non lo vedevo mai arrabbiato, ma quella notte per la prima volta scoprii quanto potesse diventare violento.
“So’o!” La voce di Azul era apprensiva; entrambe risuonarono nel porticato e ci fecero staccare immediatamente l’uno dall’altro per vederli sbucare dal nulla e accorrere. La mia faccia era avvampata, rossa e calda come se avessi avuto la febbre. Mi irrigidii voltandomi totalmente verso di loro, sconvolto, con le labbra ancora dischiuse senza che riuscissi a spiccicare parola. Subito iniziai a chiedermi: cosa dovrò dirgli adesso? Che sono uscito con uno sconosciuto? Con un domestico qualsiasi e voglio uscirci ancora e baciarmelo con la lingua per giorni interi perché sono un adolescente? Dovrei fare una scenata da adolescente?

E non avevo colto la parte più importante: che non appena Imesah aveva iniziato a chiamare Vilya, lui come un cane che a suon di bastonate aveva imparato la lezione si era subito fatto indietro e nei suoi occhi prima lucidi ora si vedeva il panico, e a braccetto con esso, la rabbia. Azul accorse subito da me, avvicinandomi.

“Stai bene?” Mi chiese, poggiando le dita lunghe e sottili sulle mie spalle per accarezzarle. Mi domandai subito che razza di domanda fosse… Gli risposi di sì confuso, cercando anche gli altri due, e vidi Imesah con uno sguardo così infuriato che non sembrava più mio padre, ma la cosa più preoccupante era che non smetteva di rallentare mentre raggiungeva Vilya a passo spedito. Gli disse delle cose molto brutte. Per quanto se lo meritasse, non sono orgoglioso di quello che fece mio padre.

“Brutto cane bastardo, io ti ammazzo!”

Lo caricò, e Vilya era lì ad aspettarlo con una minacciosa smorfia a denti digrignati, proprio come un cane che ringhiava. Attutì la sua carica andandogli addosso con il proprio peso e subendone il montante allo stomaco per afferrargli una spalla e tenerlo fermo, approfittando della vicinanza per mollargli un gancio. Iniziarono a lottare ed io spaventato chiamai mio padre perché si fermasse e cercai di raggiungerlo, ma Azul mi trattenne. Vilya riuscì a respingere Imesah buttandolo a un paio di metri da sé.
“Sei contento? Mi fai schifo, bestiaccia. Sei soddisfatto?” Ruggiva la voce ansante di mio padre. Negli occhi di Vilya iniziava a leggersi della vergogna. Non rispondeva, dopotutto, si limitava ad ansimare e a guardarlo come se dovesse tenergli testa, ma perdeva motivazione ad ogni sua parola.
“Basta, Imesah.”
La voce così vicina di Azul, decisa, mi sorprese. Mi voltai a guardarlo. Non era preoccupato per Imesah. Era evidentemente preoccupato per quello sconosciuto che il suo compagno stava aggredendo, invece. Ed io ne rimasi molto confuso.
“No, Azul” obiettò Imesah ansimando ancora. Un braccio si tese dritto ad indicare quella bestia che era l’altro, giudizioso “Ha messo le mani addosso a nostro figlio.”
“Non è successo nulla, Imesah.”
“Lo sai?!” Alzò la voce. Io diedi le spalle alla scena, perché non mi piaceva affatto. Ma sentii i suoi passi avvicinarsi. “E se lo avesse portato in un maledetto bordello? E se lo avesse portato a fare qualche rissa? Ah, ma lo sappiamo benissimo cosa ha cercato di fare…”
“Vilya NON ha portato So’o in nessun luogo pericoloso. Sono sicuro che non avrebbe mai rischiato la vita…”
“La vita di una persona così cara?! Non lo so, Azul, e il culo, pure quello?” Ribatté Imesah, ancora più aggressivo. Azul serrò le labbra e rimase a guardarlo con quell’aria fortemente contrariata, e anche ferita. Lo so perché tornai a guardarli in tempo per notarlo, confuso da quello che stavano dicendo.

“… Cosa sta succedendo?” Mi azzardai a chiedere. In realtà ero piuttosto arrabbiato anche io. Volevo delle spiegazioni, e tutti e tre non facevano altro che ignorarmi e rendermi agitato con i loro toni forti e aggressivi.
A quella domanda, Azul mi fissò. Aveva la faccia di quando doveva dirmi qualcosa che non voleva dire, principalmente perché lo avrebbe ferito. Imesah mi guardò per la prima volta come se si fosse accorto in quel momento che ero lì. E Vilya… beh, la sua espressione era di angoscia. Aveva le labbra dischiuse e inspirò come per cercare di parlarmi. Di farlo prima che lo facesse qualcun altro. Il tono di Imesah scese notevolmente, e riconobbi con sollievo la voce seria ma apprensiva di mio padre.

“So’o, questo ragazzo con cui sei uscito stasera…”
Azul mi lasciò dalla sua stretta. Vilya distolse lo sguardo, e Imesah scosse il capo.

“… è tuo fratello.”
 
 
 
Qui finisce il secondo capitolo della mia storia, tengo molto a sapere la vostra opinione! Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione! Grazie :)

 
Primo schizzo di Vilya Goldsmith.
   
 
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