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Autore: paoletta76    17/01/2017    1 recensioni
Claire è un agente dello Shield. E' una brava agente; del resto, l'ha addestrata May. E un po' le assomiglia, testarda ed altruista. Claire nasconde un segreto, dal giorno in cui la terrigenesi le ha sconvolto la vita. Claire è inumana. Nasconde un segreto, già. E non è la sola.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Stark Tower, tre mesi fa
 
- Io continuo a chiedermi perché dobbiamo aspettarlo proprio noi, qui fuori, con questo freddo.- Stella strofinava inutilmente i palmi sulle maniche dell’uniforme tattica, poco oltre l’ingresso vetrato della hall.
Mai come in quel momento s’era trovata a darle ragione.
- Che vuoi farci – sollevò le spalle, continuando a percorrere il perimetro con lo sguardo – siamo le ultime arrivate.
Stella aggrottò le sopracciglia, scattando leggermente indietro col tono di un: ultima arrivata? Tu?
Claire scosse la testa, sorrise a tre quarti come sempre e tornò ad osservare la strada, mentre la collega si ritrovava a fissare lei, mettendo su una smorfietta.
 
Conosceva da poco e solo in modo superficiale Claire O’Neill: agente dello Shield brillante e poco conformista, allergica alle regole quanto bastava da lasciarla latitante per sei mesi prima di trovare motivazione al firmare gli accordi di Sokovia. Allieva fra le favorite di May, capace di sparare in movimento ed indifferentemente con entrambe le mani.
AH. E inumana.
 
Nessuno s’era mai sbilanciato più di tanto, quando era comparsa nello spazio radar, dotata di borsa in spalla ed aria stanca e pesticciata, scambiando con May un sospiro. Poi c’era stato tutto, l’attacco alla Tower, l’esplosione di quella sfera di energia portata da Loki per polverizzare l’essere nero evocato dall’Hydra. Tutto e tutto insieme. S’erano ritrovate, ferite, a dividere una stanza alla Facility ed era lì che Claire, metro e settanta di bellezza semicaraibica -che a lei faceva a dire il vero sensibilmente invidia-, aveva trovato il momento e il desiderio di uscirsene con quella domanda.
 
Per te com’è stato?
 
- La terrigenesi, intendi? – le aveva risposto, raccogliendo le gambe sul letto ed abbracciandosi le ginocchia. Claire annuiva, senza muoversi dalla posizione semisdraiata a cui la costringevano le ferite e la spalla fasciata e dolorante. E guardava un punto lontano.
- Beh..- un sospiro, una minuscola smorfia – è stato un trauma. Nel senso, è cominciato tutto con quelle capsule di olio di pesce che doveva essere tanto sano. Una delle mie amiche è stata inghiottita da quelle sabbie, l’hanno uccisa, non l’abbiamo mai più ritrovata. Io mi sono sentita come.. come qualcosa a stringere forte, fin dalla pianta dei piedi, e poi veloce su, a soffocare. Ecco, mi sono sentita soffocare. Credo sia stato un attimo, possono anche essere state ore. Ricordo di essermi svegliata nel soggiorno, circondata da polvere nera, frammenti di qualcosa che sembrava carbone. Ho pensato ad un sogno, ad uno stupido scherzo. Invece il mio sangue ha fatto rifiorire per davvero la piantina che mi moriva sul davanzale. Poi un giorno ho trovato una pattuglia dell’Hydra alla porta, e sono diventata prima una fuggiasca e poi un agente.
- L’hai scelto subito, da che parte stare?
- Più o meno. Mi ha addestrato la Romanoff.
Claire annuiva, con l’aria di chi un pizzico d’invidia non lo nasconde.
- Sì, dura davvero. E tu?
- May. Ero a detta di molti una delle migliori allieve della Cavalleria. Prima agente e poi inumana.
- Sei nello Shield da tanto?
- Otto anni, livello sette. Sara è stata molto più veloce.
- Sara è asgardiana per metà; al suo posto, anch’io avrei.. ma mi hai chiesto della terrigenesi. Per te, com’è stato? Nel senso.. hai acquisito poteri molto simili ai miei, anche il tuo sangue-
- Rigenera i tessuti, sì. Ho il potere di trasmettere le mie energie, la scocciatura è il tempo di recupero. Riesco a rigenerare anche le mie ferite, ma qualche volta servono settimane.
- E’ per questo che sei non operativa da tanto a lungo?
- Non proprio. Diciamo che più che in recupero fisico sono stata.. latitante.
- Un po’ come Cap.
- Già. Meno famosa, ma un po’ come lui. No, forse più come Barton.
- Hanno rinchiuso anche te nel-?
- No, non nel Raft. In un laboratorio. Quando ho scoperto di avere i miei poteri, non c’era ancora discussione sul rapporto tra umani ed inumani. Nessuno s’era preso la briga di esaminare il nostro DNA e classificarci come persone dotate di qualcosa in più. Nessuno ci vedeva come persone, ma come mostri e basta. La mia terrigenesi è stata così. E l’ho dovuta affrontare da sola.
- Beh.. più o meno anch’io. Ho potuto contare su qualche amico, ma questo dopo essere entrata in contatto con Stark e con lo Shield.
- Io ero già un agente. E discretamente brava, non lo nego. Mi è sempre piaciuto, aiutare gli altri, difendere i deboli dai prepotenti. Non ero una ragazzina molto.. femminile, al liceo. E neppure troppo popolare. Però picchiavo. Mi ha reclutata May, da sbandata che ero mi ha dato un obiettivo.- un sospiro, lento, profondo, spostando lo sguardo sulla compagna per un attimo, poi di nuovo lontano – quando è successo tutto, ero nel momento più felice della mia vita, nell’unico.. nell’unico di cui non avrei cambiato niente. Avevo.. avevo appena scoperto di essere incinta, e.. la luce con cui lui mi guardava..- uno sguardo, e ora Stella aggrottava le sopracciglia fortemente interrogativa – avevo una famiglia, un marito. Un agente operativo, come me. L’uomo con cui dividi una missione e.. ed è come se lo conoscessi da sempre, come se avessi trovato l’altra metà della tua mela; lui è.. perfetto, anche se un po’ pedante e rompiscatole, anche se adora essere il primo della classe, il supereroe.. a te non serve che faccia niente, per considerarlo un eroe, ti basta come ti guarda o come la sua mano ti guida anche solo per attraversare una porta. E lui lo sa. E ti ama per i difetti che hai, e tu lo sai. Era perfetto. Forse troppo perfetto, per non andare in frantumi..
 
Se chiudeva gli occhi lo vedeva di nuovo. E spesso riusciva a riviverlo, perdendo completamente il sonno per notti intere.
Era una mattina luminosa, la primavera intorno fioriva e lei era felice. Suo marito l’aveva salutata sulla porta, con un bacio, prima di ridere e tornare indietro a chiederne un altro:
- L’ultimo. Questo è l’ultimo per davvero. Per ora.
- Vai..- s’era sciolta a malavoglia dal suo abbraccio, prima di aspettare l’ultimo sguardo con un dito appoggiato sul naso – e sta’ attento.
- Sono in ufficio, O’Neill. Dello Shield, ma pur sempre un ufficio di pubbliche relazioni. La cosa peggiore che mi può capitare è rompermi una gamba.
- E tu vedi di non rompertela, signorino.
- Ok. L’ultimo, dai. Come portafortuna.
 
S’era deciso solo dopo dieci minuti, lasciandola a ricambiare il suo sorriso dal confine della porta. Lei aveva aspettato, il palmo steso sulla pancina che già iniziava a mostrarsi. Poi era tornata alle piccole faccende di ogni giorno, quelle che da meno di una settimana occupavano le prime ore di ogni suo mattino da agente dello Shield in aspettativa di maternità.
May s’era fatta promettere il ruolo di madrina. Era solo al quarto mese, e già se le immaginava, zia e cucciola, a fare la lotta sul prato. Sorrise, ancora, di una luce che non avrebbe mai uguagliato quella negli occhi di suo marito, il giorno in cui aveva osato dirglielo.
 
Aspetto un bambino..
 
Due anni di relazione, prima clandestina, poi alla luce del sole. L’anello, quel suo andare in cerca di carezze dietro la nuca ricambiando con un milione di baci, in ogni ora di libertà conquistata.
E i suoi occhi del colore del mare, le braccia capaci di proteggerla da ogni cosa.
 
Da ogni cosa. Escluso lui.
 
Quella mattina era felice. Felice come sempre, fin da quando gli era arrivata alle spalle, sorprendendolo a copiarla nel suo cercare i frutti rossi nella scatola dei cereali. L’aveva abbracciato, s’era lasciata coccolare e gliel’aveva detto.
Lui non aveva risposto, se non con un lunghissimo bacio e quella luce negli occhi. La cosa più bella che avesse mai visto, in tutta la sua vita.
 
E quella mattina era felice, giocherellando con le chiavi dell’auto, pensando a lui e ai suoi occhi del colore del cielo e del mare, alla piccola che portava in grembo –perché sì, sarebbe stata una femmina, e avrebbe giocato alla lotta con zia Melinda e avrebbe dormito arrampicata sul petto di papà-, ed alla vita che era diventata finalmente bellissima e perfetta.
 
- Andiamo a nuotare; sei felice, piccolina? – aveva mormorato, entrando nella vasca piccola della Grant Park Pool, dopo aver attraversato una manciata di vie dei sobborghi di Atlanta ed aver parcheggiato nel solito posto.
L’aria era tiepida e frizzante, la struttura ancora poco frequentata. L’ora che preferiva, prima che intorno tutto si riempisse di corse e di grida. Claire era entrata nella vasca e, dopo soltanto qualche bracciata, aveva sentito qualcosa di strano. Non se n’era curata più di tanto; l’acqua a quell’ora era sempre piuttosto freddina, era quasi normale che avvertisse quei brividi.
Muoversi, muoversi.. – s’era detta, percorrendo la vasca una volta, due. Avanti e indietro, senza fretta.
Alla terza, quel gelo non voleva lasciarla. Anzi, sembrava trasformarsi in una morsa, come se qualcosa di invisibile stesse cercando di intrappolarla, a partire dai piedi, poi su lungo le gambe ed il busto.
Aveva annaspato, arrivando a fatica alla scaletta e tirandosi a terra a forza di braccia. E quello che aveva visto aveva cambiato il gelo in terrore.
Le sue gambe. Non riusciva più a muoverle, ed una specie di crosta nera le stava divorando.
Non era riuscita neppure a gridare per chiedere aiuto.
 
Gli occhi si riaprivano, ed ora la luce amica del sole sembrava volerla ferire. Dentro, il vuoto più totale. Fuori, i muscoli che non avevano più alcuna forza, il respiro che tornava a fatica come fosse rimasta sott’acqua per ore. Il calore del corpo di suo marito, addosso, le sue braccia che cercavano di sostenerla.
 
Un malore. Aveva avuto un malore in piscina, questa la spiegazione frettolosa di Jeff. Le sue mani che si facevano gelo al contatto, nonostante le stringessero ancora le dita.
La luce che cambiava, nel suo sguardo di mare. E quella polvere nera sparsa attorno, priva di ogni spiegazione.
 
Neppure il tepore di quel letto d’ospedale era riuscito a scaldarla.
Lui continuava a definirlo malore, o incidente. La realtà era che, qualunque cosa fosse stata realmente, aveva ucciso la sua bambina. E suo marito non la guardava più se non con gli occhi di chi vede un mostro.
 
Poi erano arrivati loro, mentre ancora il dolore la stordiva. Loro, i camici bianchi e le mascherine. L’avevano prelevata per destinarla a qualcosa che da ipotesi stava diventando una certezza.
Non era stato solo un malore. C’era qualcosa, in quell’acqua. Lo chiamavano cristallo terrigeno, lo Shield ne cercava da mesi. Lei era sopravvissuta. Era un’inumana.
 
Un mostro.
 
Non ne avevano avuto prova fino ai risultati dei primi trattamenti. Il medico non riusciva a spiegarsi la velocità con cui i traumi interni post-aborto erano scomparsi, tutte le micro ferite rimarginate in meno di ventiquattr’ore. Senza spiegazione, per una cosa che naturalmente avrebbe richiesto almeno due settimane.
Ma era stato necessario altro, per dare a suo marito tutte le prove di cui aveva bisogno.
 
Claire non sembrava averlo sopportato. La perdita improvvisa di un figlio, il vuoto. Il mondo che le andava in frantumi senza che fosse colpa sua.
Era una mattina limpida e serena anche quella, e lui non l’aveva salutata coi soliti ultimi baci. Non aveva neppure sorriso, chiudendosi la porta alle spalle. Lei era andata al tavolo di cucina, aveva estratto uno dei coltelli senza emettere un fiato, l’aveva piegato ad incidersi un polso.
Un istante, e il sangue le bagnava i vestiti. Un altro ancora, e la ferita si rimarginava sotto il suo sguardo carico di lacrime.
 
L’aveva sollevato, ed aveva visto lui.
 
Era tornato indietro. Era tornato, nonostante il dolore avesse spento anche la sua, di gioia. Claire era e rimaneva sua moglie, l’avrebbe protetta per sempre, anche se tutto era cambiato.
Non era stata colpa sua.
 
La ferita si rimarginava, e tutto quello che era riuscito a fare era stato chiamarli.
 
L’ultima cosa che riusciva a ricordare, quella che la svegliava se il sogno non terminava col suo annaspare al bordo della piscina, era il suo sguardo.
C’era un mostro, dentro di lei. E suo marito l’aveva abbandonata.
  
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