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Autore: Sarah M Gloomy    23/01/2017    0 recensioni
Ultimo capitolo della serie The Exorcist.
Gli esorcisti sono tornati in vita e devono fare i conti con la loro nuova natura. Hanno un nuovo obiettivo, quello di distruggere il loro vecchio Ordine, ma qualcosa non va come dovrebbe.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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      Johannes deglutisce. «Io …»
   «Sei sorpreso di vederci.» Replica piatto Chase. La stanza è debolmente illuminata, quindi di noi vedono solo i volti pallidi. Siamo avvolti in quei mantelli antichi, io reggo ancora la Falce e l’uomo che ho ferito si tiene il collo. Adesso hanno paura di noi.
Johannes abbozza un sorriso. Gli si congela quando Chase alza una mano. «Smettiamola di giocare, Johannes. Sei deluso che siamo vivi. Non ti preoccupare. Siamo solo tornati per te.»
   «Negromante.»
Annuisce. «Hai sbagliato a dirci che ce n’era uno in città.»
Un piccolo sbuffo, poi Johannes retrocede di qualche passo, appoggiando la schiena alla parete. Mi aspettavo negazioni, urla, rabbia. Quello che mi lascia perplessa è il silenzio. Non c’è sorpresa, non c’è nessuna emozione se non una placida curiosità. Inclino la testa da un lato. Non sento menzogne. Con la coda dell’occhio osservo Julia, anche lei perplessa all’interno del suo corpo. Non c’è neppure rabbia.
Lui ci stava aspettando? Impossibile. Abbiamo notato la sorpresa, di conseguenza non poteva sapere di noi. Quello che di nuovo mi lascia perplessa è la sua mancanza di reazioni d’attacco. Lo sto guardando, alla ricerca di una qualche traccia di pericolo, la Falce ancora sollevava. Sorride. È poco più che un accenno con le labbra, abbastanza pericoloso da obbligarmi a stringere l’arma. Sorride? Ha quasi strappato l’anima a Robert, e sorride?
   «Dalila.»
Chase mi chiama, mi irrigidisco nella mia posizione. Non mi sono accorta di aver accennato un passo. Non mi sono accorta che ho alzato Lie per attaccarlo, né di essermi legata così tanto alla sua mente che sono un tutt’uno con lui. Ho il desiderio di ucciderlo. Al diavolo il fatto che non sono un’assassina, che non sono come lui. Lo odio.
Con la coda dell’occhio vedo Chase fare un piccolo cenno con il capo. Arretro di un passo, mordendomi a sangue l’interno della guancia. L’odore di metallo mi colpisce al naso e, dove non mi hanno raggiunto le parole, lo fa il sangue. Nulla legato a quello può darmi sollievo. La morte non è mai la fine di qualcosa. L’ho provato a mie spese. Per persone come noi, c’è sempre un modo in cui tornare.
Il sospiro accondiscende di Chase fa scattare un’altra reazione, ben prima della pronuncia del suo nome. «Lartia.»
La mia amica si avvicina al tavolo degli esorcisti. Le sedie troppo vicine a noi grattano sul pavimento e delle persone si alzano per fuggire. È divertente. Si direbbe proprio che non hanno molto desiderio di avere a che fare con le nostre anime, ora come ora. Julia alza il pugno e capisco il perché si è offerta volontaria quando abbiamo deciso di prendere parte del rituale che è trascritto sotto al nostro tavolo. Fisicamente, Warren è quello che dimostra più forza. È il classico palestrato. Tuttavia, Julia riesce a toccare corde della forza che noi non possiamo neppure immaginare. Sono convinta che con la sola forza data dalla sua ira, pure il più forte di noi soccomberebbe. Sferra un pugno al tavolo con tanta violenza che la sua pelle si scheggia. Si scheggia come carta, ricordandoci che è umana. Dopotutto, lo siamo ancora. Un secondo colpo inclina il tavolo e questa volta Warren le va in soccorso, colpendo vicino a lei. Il tavolo si spezza di netto, nel punto in cui io so che c’è la parola “immortalitas”, dove le nostre vite sono state segnate prima di sapere che i nostri nemici erano le persone più vicine. Con la punta del piede, Philippe gira i pezzi di legno, calciando quello con la scritta che ci interessa. Non ci serve. È semplicemente un modo per dire a Johannes che lo sappiamo. Robert lo prende stringendoselo al petto come un peluche, come Sloth ha stretto la sua anima per impedirne la dipartita.
Chase abbozza un sorriso, inclinando la testa. «Molto bene. Scusate per avervi rovinato il tavolo. Semper fidelis, Johannes.»
È come se lo avesse pugnalato. Johannes sbarra un po’ gli occhi, Chase inclina la testa e si sposta dalla porta. Arretro di qualche passo, convergendo la mia attenzione su di loro. Finché non ho la certezza che tutti siano usciti, non lascio la presa. La mano di Chase mi sfiora il fianco. Distolgo l’attenzione quel tanto da vedere il verde dei suoi occhi concentrati su di me. Una manciata di secondi, una toccata per farmi capire che è il momento di ritirarci. Esco dalla porta con un inchino sgraziato, mentre Chase la chiude dietro a noi. Le mani gli tremano impercettibilmente. Non abbiamo fatto nulla, eppure abbiamo rischiato molto.
Julia si sta tenendo la mano insanguinata tra la stoffa del mantello. Anche quello, mostrare che siamo deboli e allo stesso tempo far vedere che la nostra forza è superiore alla loro, anche quello era calcolato. Lascio la Falce, Lie ritorna alla sua forma fanciullesca. Mi ritrovo a fissarlo negli occhi, chiedendomi quanto di quella situazione non gli piacesse. I nostri vizi, in fondo, vogliono la nostra vita, no? Per loro, quel rischio gratuito è come tradire ogni principio? Lie mi sorride. «Sì.»
   «Non è il momento di tergiversare.» Eliza si massaggia le spalle in maniera nervosa. Jamar le passa una mano sulla schiena, in modo rassicurante. Quella vista è tenera. Mi ricorda un po’ me quando Edward ha il mal di pancia. Che cosa diavolo stiamo facendo?
Philippe mi urta con la spalla, scuotendomi dal mio torpore. Abbozza un sorriso solo per me. «Andiamocene.»
Annuisco, infilando le mani in tasca. Warren ha rubato dei pugnali. Sentire la fodera di pelle comprimere al mio fianco, in un certo senso, mi rassicura. Non fa nulla con gli spiriti, di certo non la userò con i mortali ma il solo sapere che potrei fare qualcosa, solo quello mi fa sperare.
   «Ci inseguiranno?» No, non lo credo. Il solo fatto che Jamar lo chieda, però, mi fa dubitare. Ci sono tante cose che avevo dato per scontato e che ora sono state distrutte. Troppe. Ho bisogno di ritrovare me stessa, di ritrovare la piccola Amabel che parlava di stupidaggini a scuola, che rideva insieme a Mary. Non mi riconosco. Io non sono quella che sta camminando, stringendo un pugnale in tasca, con un mantello per ricordarsi tempi passati. Non sono così. Dannazione. Io non voglio essere così.
C’è un movimento e mi immobilizzo. Warren mi imita, corrucciando la fronte. A seguire, anche gli altri si bloccano guardando alternativamente me e lui. C’è qualcosa, che Warren ha appena percepito. Un qualcosa che ho sentito solo una volta, in questa nuova vita. È un brivido che non è un brivido, una certezza che si mescola al dubbio, un ricordo che provoca dolore.
Guardo alla mia sinistra, dove c’è un angolo del corridoio buio, nascosto appena da un telo. Tolgo la mano dalla tasca, sorprendendomi nel maneggiare il pugnale con tanta disinvoltura. Scuoto il telo e, rannicchiata in posizione fetale, si trova Susan. Ha gli occhi sbarrati. È debole. Ha paura.
Dovrei sentirmi preoccupata per lei, chiedermi il perché le faccio quella reazione. Poi ricordo. Lei ha visto il mio cadavere. Lei ha sorriso alla mia famiglia mentre minacciava Chase. Lei ha ucciso Mary.
È semplicemente istinto. Sono piccola quanto lei, sono magra come lei. Abbiamo la stessa corporatura, la stessa altezza. Ho la certezza che, in altre circostanze, noi saremmo state molto unite. Avremmo finito l’una le frasi dell’altra, saremmo state come sorelle. Perché ci sono relazioni che non puoi cancellare. Io sono sua sorella.
Con la mano libera le prendo i capelli tirando. Con un gemito si alza in piedi e la spingo contro la parete. Sa di sudore e menzogna. Ogni poro della pelle mente. La sua stessa esistenza è una menzogna. «Dalila.»
Premo il coltello nella gola di Susan. Un rivolo di sudore le scende lungo la tempia, un rantolo mi chiede se la potrei uccidere. Le sorrido. «Ciao, sorellina.»
Susan ha le pupille ridotte a capocce di spillo. Premo il gomito al suo petto, bisbigliando. In quel luogo, anche i muri hanno orecchie. «Non ti preoccupare. Se avessi voluto ucciderti lo avrei già fatto. Al momento voglio che tu viva. E vivendo, ricorda che sei in debito di otto vite. Sai, sorellina, avrei anche potuto comprendere il tuo rancore, seicento anni fa. Sociopatica come eri, sono stata stupida a non giustiziarti io stessa. Ma ci hai ucciso di nuovo. Tu e Johannes pagherete per questo.»
   «Io …»
Il coltello la ferisce alla gola. Poco più di un graffio, solo per farle capire che non c’è pietà. «Vedi, sorellina. Sei in debito di otto vite. Per me significa che per sette volte tu morirai e io ti riporterò indietro. Per sette volte desidererai morire, e lo farai. All’ottava, verrò io da te e ti accompagnerò alle porte dell’inferno. Ricorda, Malachite.»
   
 
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