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Autore: Sydrah    24/01/2017    3 recensioni
24 Novembre 2041, Corea del Sud. L'esplosione della centrale nucleare di Hanul ha fatto sì che il governo prendesse un veloce provvedimento per impedire la diffusione dei gas tossici, e sopra la zona colpita fu posta una cupola. Al suo interno sopravvissero delle persone, gli 'eletti', dotati di abilità speciali, e tra interni ed esterni continuò a crescere un odio reciproco.
Jimin, un esterno e Jungkook, un interno, si incontrarono per caso, e tra morte e misteri la loro relazione crebbe pian piano. Sarebbe riuscita, però, ad andare oltre ai pregiudizi?
Genere: Angst, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Questa è la parola che meglio avrebbe descritto quelle perone.
Sempre indaffarate sempre di fretta, a correre da una parte all’altra con quegli strani aggeggi.
Mi erano sconosciuti e la cosa, anche se avrei sempre cercato di nasconderla, mi incuriosiva parecchio.
Cosa erano, a cosa servivano? Perché noi non li avevamo?
Ero appena uscito di casa, mi sarei dovuto incontrare con Yoongi, ma all’ultimo mi aveva avvisato che sarebbe stato occupato col suo lavoro, quindi decisi di andarmene comunque di casa, per non dover badare alle lamentele dei miei genitori, che non esitavano nemmeno per un giorno a dirmi quanto fossi una delusione.
La piccola casa malandata si faceva sempre più piccola alle mie spalle, mentre precedevo con sicurezza, percorrendo la strada ormai familiare.
Dopotutto, passando diciannove anni sempre nella stessa zona ti permetteva di conoscerla molto bene.
Mi allontanai dalla zona battuta, deviando verso il ‘bosco’.
L’erba sotto i miei piedi era decisamente più morbida e soffice dell’asfalto, e il ‘cielo’ era coperto dalle ampie foglie degli alti alberi.
Procedetti nella stessa direzione per un altro paio di minuti, prima che i raggi del sole tornarono a colpirmi, ormai non più oscurati dalla vegetazione. Mi sedetti sotto un albero, collocato, secondo il gran intenditore me medesimo, nella posizione perfetta: non troppo esposto al caldo né troppo coperto dall’ombra.
Portai le ginocchia al petto, per poi iniziare a guardarmi intorno, e rimasi ancora una volta stupito da ciò che c’era fuori.
‘Chissà com’è?’  era una domanda che mi ponevo molto spesso: come doveva essere poter girare dove si vuole, poter salire su di un aereo. Doveva essere bello vedere tutto il mondo dall’alto, e poter volare al di sopra della cupola. I più fortunati tra di noi, a mio parere, avevano ricevuto in dono delle ali, forti e adornate di piume variopinte, di una morbidezza invidiabile. Certo, la loro crescita era stata raccontata come molto dolorosa, ma il poter spostarsi sopraelevati dal terreno come gli esterni doveva essere meraviglioso.
Peccato che fosse un’abilità limitata…
Mi sarebbe piaciuto poter partire e visitare il mondo, andare in America, magari in Francia, Germania a chissà dove altro.
Ma il mio era un mondo piccolo, come quello racchiuso in delle piccole palle di neve, solo che la neve non c’era mai da noi.
Diciannove anni e non avevo mai toccato quei candidi fiocchi bianchi, non avevo mai sentito il sole addosso senza che fosse bloccato dalla cupola, non avevo mai respirato l’aria esterna, non ero mai salito su uno dei loro veicoli, non avevo mai parlato con uno di loro, non avevo mai avuto la possibilità di vedere il mare, sentire il rumore delle onde e il retrogusto di sale in bocca.
Diciannove anni e non conoscevo nulla, vivevo le mie giornate una dopo l’altra, a scuola imparavo l’essenziale, e nel frattempo mi domandavo perché io fossi lì.
Certo, la storia la sapevo ormai a memoria, l’avrei saputa raccontare cantando, ma perché…perché?
Era ingiusto fossimo costretti lì dentro, tra quelle pareti infinite ma minuscole, soffocanti, perché eravamo chiusi come degli animali, quando era colpa degli esterni se eravamo diventati ciò che eravamo?
A scuola mi avevano sempre insegnato ad odiare gli esterni, e piuttosto che alla matematica o alle lingue (a cosa sarebbero servite, tanto?), ci insegnavano ad usare i nostri doni, che per me erano più come un peso, a controllarli e usarli a favore della nostra piccola società.
I doni si potevano manifestare ad ogni età, e potevano essere vari: alcuni nascevano fortunati, e possedevano abilità utili, come Seokjin e i suoi potevi curativi.
Beh, più che altro col suo tocco era capace di prelevare l’energia negativa all’interno dei corpi delle persone, eliminando completamente i problemi fisici. Purtroppo, però, l’abilità aveva sempre un effetto negativo su Jin, che dopo aver prelevato l’energia impiegava un giorno se non di più prima di scaricarla completamente,  tempo in cui era condannato a provare il malessere dell’altra persona.
Per questo le abilità erano sempre state considerate da me come fardelli, come dei tatuaggi indelebili che da sempre ci avevano marchiati e fatti definire ‘mostri ripugnanti’.
La mia abilità si era manifestata dopo l’età media: di solito ragazzini di 6 o 7 anni si divertivano già a sfoggiare le loro capacità nelle varie strade, ma io fui colpito all’età di 10 anni.
Per questo motivo da piccolo ero molto insicuro, non uscivo mai di casa perché avevo il terrore di essere considerato ancora più ‘diverso’ di quanto già non fossi agli occhi degli esterni. Essere diversi tra i diversi, anormale tra gli anormali, strano tra gli strani.
Gli altri bambini mi prendevano in giro, mi rincorrevano fino a casa, schernendomi quanto più possibile, infierendo quando le mie esili gambe non reggevano più la stanchezza e cedevano, affaticate, e a quel punto mi accerchiavano, mi tacciavano, chiamandomi con nomi, arrivando anche a picchiarmi. A scuola la questione non era più facile, per nulla, per questo motivo la fine del liceo era stata come una liberazione da un pesante fardello.
A casa, poi, era ancora peggio. I miei genitori mi guardavano sempre con disappunto quando tornavo a casa con le lacrime agli occhi ‘I ragazzi non piangono Jungkook’, e mia madre mi sgridava sempre quando premeva con fermezza un panno inumidito con disinfettante sui miei graffi sanguinanti o lividi.
Ero un disappunto: la mia manifestazione tardiva di poteri era sempre stato un problema per i miei genitori, sia perché dovettero spendere moltissimi soldi per visite e anche per medicinali, dal momento che il mio DNA non si era presentato abbastanza forte e resistente all’ambiente (motivo per cui le mie abilità furono tardive) e quindi ero di salute cagionevole. Inoltre, dal momento che non possedevo alcun effettivo potere non potei iniziare a lavorare subito da piccolo. La mia famiglia era, infatti, molto povera, e fu ancora più stremata dai folli costi medici e dalla mia non possibilità di aiutare, anche quando il mio dono si manifestò.
Acqua.
Semplice e maledetto dominio dell’acqua. Non era un’abilità che mi avrebbe permesso grandi cose, e ciò accrebbe ancora di più il disappunto di mio padre e madre.
Il mio potere era ancora più inutile dal momento che, chiuso all’interno di quel dannato carcere, non avrei neanche potuto sfruttare il vapore delle nuvole, e ogni santissimo giorno non potevo fare a meno di maledire il giorno in cui ero nato. Inutile….inutile!
Ma ehi, i ragazzi non piangono.
Raccolsi un sasso da per terra, di fianco a me, e lo scagliai con forza contro la parete trasparente ad appena un metro di distanza. L’impatto fu secco, e provocò un rumore grave, sempre però senza scalfirla minimamente. Era impossibile danneggiarla, giusto. Era impossibile uscirvi, impossibile.
Avrei vissuto tutti gli anni a venire rinchiuso in quel posto, come un animale da circo in gabbia, nato per essere osservato come forma di intrattenimento.
Non avrei mai visto il vero cielo in vita mia, non avrei mai visto il mare e non avrei mai potuto respirare l’aria fredda e pizzicante di montagna.
Avrei continuato a vivere sentendomi inadeguato, come un vagabondo senza casa e senza meta, rifiutato da tutti, costretto a camminare e camminare in eterno fino al triste giorno della sua morte solitaria.
Mi accorsi solo dopo qualche altro attimo che una lacrima stava bagnandomi la guancia. La raccolsi sul mio indice, osservandola, prima di farla fluttuare in aria, separandola in tante minuscole gocce, per poi farle cadere a terra come un’invisibile cascata, inumidendo appena l’erba.
Che bella abilità, pensai ironicamente tra me e me.
Strinsi le braccia attorno alle mie ginocchia, nascondendo le mani nelle maniche della felpa usurata e continuai a guardare il mondo esterno, quando mi sentii improvvisamente osservato.
Mi voltai di scatto e, dall’altro lato della cupola, vidi un gruppo di ragazzi, ma in particolare uno di essi attirò la mia attenzione.
Mi stava guardando con un misto di curiosità e paura, i suoi occhi scuri erano in contrasto rispetto all’argento dei capelli, che spiccava nettamente anche tra gli altri ragazzi.
Il contatto visivo durò appena un paio di secondi, prima che si voltasse continuando a parlare con i suoi amici.
Era quello ciò che veniva considerato normale? Poter girare e poter parlar con i propri amici liberamente, senza avere la consapevolezza di avere le ali tarpate.
Cosa avevo di normale quel ragazzo dai capelli argento che io non avevo? Come potevano trattarci come delle bestie?! Con quale coraggio ridevano con quella spensieratezza.
Guardai l’ora sul mio orologio, e mi resi conto che erano già le sei di sera, quindi decisi di tornare indietro passanso per la casa di Jin.
Seokjin e Yoongi erano da sempre i miei più cari ed unici amici.
Qualcuno avrebbe potuto trovare la nostra relazione come strana, dato che avevo cinque anni in meno di loro, ma quei due erano stati gli unici a non prendermi in giro quando ero piccolo e, anzi, furono i primi a rivolgermi un sorriso allungando una mano per soccorrermi.
Da quel momento diventarono tutto per me: i miei migliori amici, i miei secondi genitori, i miei consiglieri personali ed i miei psicologi, e sapevo che se mai avessi avuto dei problemi loro ci sarebbero sempre stati per me.
Eravamo cresciuti nello stesso vicinato, quindi ci incontravamo ogni giorno per giocare insieme.
Ora entrambi si erano trasferiti dalla casa dei genitori, ma avevano scelto di affittare degli appartamentini sempre nella stessa zona, per rimanere vicini a me.
Ripercorsi la strada a ritroso, fino a quando non mi trovai davanti alla porta marrone e vi bussai con fermezza.
Jin era un’insegnante delle elementari: da sempre gli piaceva stare a contatto con i bambini, e solitamente finiva di lavorare intorno alle quattro e mezza di pomeriggio.
Nell’arco di un paio di secondi la porta si aprì, e Jin mi accolse sorridente.
 
-“Allora Kookie, di che cosa ti sei venuto a lamentare oggi?” Io gli lanciai un’occhiataccia.
 
-“Allora, prima di tutto non chiamarmi Kookie”
 
-“Disse colui con non si degna di portarmi rispetto chiamandomi hyung”
 
-“COMUNQUE. Secondo, non è vero che mi lamento sempre”
 
-“Io non ho detto quello. Però ti senti preso in causa?”
 
-“KIM SEOKJIN. Non farmi pentire di essere venuto qui”
 
-“Va bene va bene, scusami…Kookie. E’ più forte di me” Gli sorrisi sconsolato, mentre mi guidava nel piccolo salone/sala da pranzo.
Mi accomodai sul vecchio divano rovinato, il cui blu aveva ormai perso di intensità da tempo. Mi lanciò un pacchetto di patatine prima di passarmi un bicchiere di tè freddo, poi si sedette vicino a me e iniziò a sfogliare distrattamente le pagine di un libro mentre, probabilmente, aspettava che mi decidessi a parlare.
Era incredibile il modo in cui ormai aveva imparato a leggermi, forse anche più di quanto ne fossi capace io stesso.
Passammo i minuti successivi in silenzio, ma non era pesante o imbarazzante, non dopo tutti gli anni che avevamo passato insieme, gli unici suoni nella stanza erano il rumore delle patatine e quello delle pagine che venivano sfogliate.
Fissai distrattamente il muro mentre mi decisi ad iniziare a parlare.
 
-“Jin?”
 
-“Jungkook?”
 
-“Tu…cosa sai degli esterni?”
 
-“Beh, allora. Era il 24 Novembre 2041 quando-“
 
-“Nonono, non voglio sapere ciò che già mi hanno ficcato in testa per tredici anni di scuola, voglio sapere cosa sai di…loro” Lui sembrò contemplare la mia domanda, sguardo concentrato verso il soffitto leggermente ingiallito a causa del tempo.
 
-“Beh, per esempio, loro ne hanno di molto più belle” disse indicando il ‘televisore’ poggiato su un tavolino di legno contro il muro. Era uno dei modelli vecchissimi, che resistevano da più di cento anni ormai, di quelli cubici, tozzi e pesanti, di quelli che fanno i capricci durante i programm, e devi sbatterci un pugno deciso sopra per farlo funzionare.
 
-“I loro sono così sottili che non si può neanche dire che sono spessi un millimetro. E pensa! Sono talmente in HD che non riesci a capire se stia accadendo davvero di fronte a te o se sia un programma. Poi…poi, hanno tutti quei veicoli volanti ormai! Gli hai visti?? E i palazzi sono così alti da superare la cupola in altezza e-e….Aspetta. Perché ti interessa?”
 
-“Nulla di che…stavo solo pensando”
 
-“A cosa?” rimasi in silezio.
 
-“A cosa, Kookie?”
 
-“A cosa hanno di diverso da noi”
 
-“Penso che tu sappia già la risposta. Loro non sono i grado di fare QUESTO” disse alzando il tono di voce, e rovesciandomi improvvisamente il bicchiere d’acqua che aveva al suo fianco addosso.
Nonostante fossi stato preso di sprovvista, portai velocemente le mani in avanti, bloccando l’acqua e trasformandola in una sorta di agglomerato fluttuante davanti a me.
Con ancora le mani protese in avanti mi girai a guardarlo con un’espressione ferita e stupita, come per fargli capire che la sua dimostrazione mi aveva ferito.
Mostrandomi le mia abilità durante questo preciso discorso mi aveva sbattuto il faccia la realtà, come per dire ‘perché beh, tu sei diverso da loro’, però non potevo neanche arrabbiarmi con lui, perché sapevo era dannatamente vero.
Che eravamo dannatamente diversi e dei dannati mostri.
Abbassai la mani stringendole a pugno, e la barriera d’acqua si trasformò in una piccola sfera, che iniziai a fissare con astio, poi mossi la mano destra lentamente e la spostai fino a farla scivolare nuovamente nel bicchiere, che Jin posò nuovamente sul tavolino per poi voltarsi verso me guardandomi con simpatia e tenerezza.
 
-“Kookie…questo non vuole dire che siamo sbagliati, o cattivi. Siamo semplicemente diversi, ma essere diversi non è un male okay?” Si sedette più vicino a me sul divano, allungando le mani per abbracciarmi. Mi strinse forte a sé ed io rimasi impassibile. Sarebbe stata dura da buttare giù.
 
 
 
 
Quella sera tornai a casa più sconsolato di prima.
Ero così scombussolato che passai oltre ai rimproveri di mia madre (‘Arrivi così tanto senza nemmeno avvisare’), ed andai subito in camera, buttandomi sul letto.
La stanza era buia e stranamente fredda. Rimasi disteso a pancia in su’, poggiando l’avambraccio sulla fronte guardando il soffitto, ascoltando l’orologio nella mia camera ticchettare.
Pensai molto quella sera.
Mi addormentai col pensiero che prima o poi avrei sentito il rumore delle onde del mare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ecco a voi il secondo capitolo. Lo so che è corto e le cose procedono lentamente ed è tutto noioso, ma pazientate :3
Grazie mille a tutti quelli che stanno leggendo la mia storia silenziosamente
Grazie a shirylen, ElisaPanthomive e Rozalin Kyouko per aver  recensita
A ElisaPhantoive per averla anche preferita e seguita.
A Rozalin Kyouko per averla anche lei seguita, e ringrazio anche slashell e Upei per averla seguita.
Siete davvero degli angeli ;w;
Grazie comunque a tutti e hey! Fatevi sentire ^^ mi farebbe piacere sentire i vostri pareri.
Al prossimo capitolo
Sydrah
 
 
 
  
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