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Notizie
Quel giorno il sole sembrava
splendere meno del solito. Nascosto dietro una coltre di nubi che
preannunciava neve, illuminava la valle con una luce tiepida, opaca,
che si smorzava sul verde sfumato degli steli d’erba e sulle
pietre bianche che punteggiavano quell’oceano frusciante.
Con un sospiro, Mirya tornò a guardare il libro che aveva
posato in grembo. Da ore continuava a leggere sempre la stessa frase e,
da altrettanto tempo, continuava a distrarsi guardando fuori.
Erano giunti ad Alabastria da poco più di una settimana e
ancora non si era abituata alla sua nuova condizione.
Chiuse il libro e ne accarezzò la costa logora, perdendosi
ancora una volta a osservare i disegni ormai quasi cancellati
dall’usura del tempo. Spostò poi lo sguardo sulla
stanza, sul tavolo in radica di noce, sul letto a baldacchino rifinito
in oro rivolto verso la finestra, sullo specchio cesellato di gemme
preziose abbracciato da pregiate stoffe di lampasso di seta gialla e
blu.
Chiunque avrebbe invidiato la sua condizione, al sicuro, servita e
riverita dal mercante più ricco della città. Da
quando era stata costretta a lasciare Amount-vinya, aveva sognato
spesso di vivere in pace, lontana dal sangue e dalla violenza, ma mai
avrebbe pensato che il suo desiderio si sarebbe realizzato
così in grande, per di più ad Alabastria, la
roccaforte dei nani del nord, la città-fortezza che, dopo
Lotka, aveva la fama di non essere mai stata espugnata. Le due
però non potevano essere più diverse. La prima
era stata fondata alle radici dei monti Eresse e si sviluppava
interamente sottoterra. Solo la grande facciata del grande castello,
scolpita direttamente nella roccia, vedeva la luce del sole. Mentre
viaggiavano, Myria aveva scorto i tre portoni di ferro in lontananza,
ma Baldur aveva optato per proseguire oltre: i nani di Lotka erano
feroci, ostili e lui non conosceva nessuno lì in
città che avrebbe potuto accoglierli. Alabastria era
tutt'altra cosa, invece. Costruita su dei vecchi terrazzamenti, si
inerpicava su una collina di quasi cento braccia, sviluppandosi in
altezza con le sue case, le sue botteghe e i suoi palazzi fino alla
vetta, dove, in tempi così remoti da perdersi nella memoria,
era stato eretto il Castello di Ferro. Quando avevano scorto
l’imponente portone di faggio, Myria e i bambini non erano
riusciti a celare lo stupore, restando a bocca aperta. Mentre Baldur, a
cavallo di Raiza, faceva loro strada, la donna si era domandata come
avesse fatto un popolo così rozzo e burbero a costruire una
città così bella ed elegante.
Le venne quasi da ridere quando ripensò allo scambio di
battute tra il nano e le guardie che pattugliavano le mura, al modo
così cameratesco di interagire tra di loro, come se fossero
cugini o amici di vecchia data. Le aveva scaldato il cuore anche
l’accoglienza di Nordri, l’amico di Baldur, il
mercante di vino più ricco della città, che non
aveva esitato ad offrire a degli umani sconosciuti, sporchi e cenciosi
un tetto sopra la testa e una zuppa calda.
“Sono stati gentili, ma non possiamo rimanere qui per
sempre.”
Sospirò ancora e spostò la tendina di raso
sottile, osservando le spalle del figlio. Aveva giocato per ore con gli
altri ragazzi, suoi coetanei o poco più grandi, ridendo e
scherzando con loro mentre si affrontavano in un duello
all’ultimo sangue. Ora che tutti erano tornati alle loro
case, si godeva il vento del primo pomeriggio, seduto sulla balconata
di pietra bianca con le gambe a penzoloni e la spada di legno che gli
aveva intagliato Baldur poggiata in grembo. Gli piaceva starsene
lì da solo o in compagnia di Melwen a osservare il
paesaggio, con lo sguardo perso al di là
dell’orizzonte e i capelli ormai lunghissimi e indomabili che
ondeggiavano al vento.
Guardandolo, Myria si rese conto di quanto fosse cresciuto in
così poco tempo. Certo, balbettava ancora e si faceva
facilmente trascinare da Melwen nelle sue “avventure
esplorative” nei luoghi più improbabili della
città, ma era riuscito a integrarsi perfettamente nel
gruppetto di ragazzi che vivevano nelle case vicine. Era difficile non
volergli bene, riusciva a farsi amare da tutti.
Sorrise mesta, ripensando ai loro primi tempi lì. Melwen e
Zefiro avevano trascorso più di quattro giorni in completo
silenzio, e anche successivamente si erano limitati a rispondere solo a
monosillabi. Myria, dopo i primi infruttuosi tentativi, aveva
rinunciato. In fin dei conti, capiva il loro bisogno di solitudine:
quello che era successo a Luthien, il sangue, la morte, quegli esseri
mostruosi, doveva essere stato ancor più orribile e
spaventoso dal loro punto di vista. Fino ad allora la guerra e tutto
ciò che essa portava con sé era stata solo un
fantasma, un evento lontano che era oggetto dei discorsi degli adulti e
dei canti dei bardi. Quel giorno di due settimane prima, invece, era
piombata loro addosso nel modo più brutale che potessero
immaginare ed era diventata improvvisamente reale. Mentre a Melwen era
stata strappata via tutta la sua famiglia, Zefiro aveva perso Alan, un
padre, un amico fidato.
Myria si morse le labbra, ricacciando indietro le lacrime al ricordo
del viso sorridente del soldato: tutti avevano perso qualcuno, quel
giorno. Una parte del loro cuore era morta con i loro cari.
Riaprì il libro, cercando il punto su cui si era interrotta,
anche se, in quel momento, sapeva che avrebbe fatto fatica a
concentrarsi. La sua mente vagava altrove, persa tra ricordi che
sapevano di sale. Le lacrime premettero prepotentemente da dietro le
ciglia e, prima che se ne accorgesse, percepì la loro
carezza umida sulle guance.
- Strei? -
Myria trasalì, non si era accorta che Skjaldi, la sua
cameriera personale, era entrata nella stanza.
- Strei, avete visite. -
- Fatelo entrare. - rispose subito Myria, asciugandosi velocemente le
lacrime.
Essere chiamata “signora” con quel tono
reverenziale le faceva uno strano effetto e non si era ancora abituata.
La cameriera si inchinò e aprì di nuovo la porta
per lasciar passare l'ospite.
- Baldur? -
- E chi altri, mea
strei? - le sorrise il nano, prendendo posto su una
sedia di rovere addossata alla parete, - Per tutti i martelli di
Gurhavat, adesso per parlarti devo pure chiedere un’udienza!
Tra poco ti troverò seduta sul trono di Alabastria. -
A quelle parole, Myria scoppiò a ridere: - Detto da te lo
prendo come un complimento, Baldur Pugno d’Acciaio. -
- Come fai a conoscere il mio soprannome? -
- Oh, sai, la città sarà gigantesca, ma i
pettegolezzi girano, soprattutto in una casa dove la maggior parte
della servitù è costituita da donne. -
Skjaldi si portò una mano davanti alla bocca per nascondere
un sorriso divertito, ma Baldur le rivolse comunque
un’occhiataccia, prima di consegnarle il pesante mantello.
Probabilmente avrebbe aggiunto anche un insulto, se la cameriera non si
fosse defilata nell’immediato. Subito dopo, anche se Myria
non li aveva chiamati, fecero il loro ingresso nella stanza Farl e
Fili, i due camerieri più giovani della casa, e in completo
silenzio allestirono il tavolo di faggio con brocche
d’argento cesellato e piatti di dolcetti al miele, mandorle e
zenzero. Le pastafrolle appena sfornate spandevano un delicato profumo
zuccherino nell'ambiente.
- Avete bisogno d’altro, strei? -
- No, grazie. Lasciateci soli. - disse Myria e i due si accomiatarono
subito.
Quando la porta si chiuse, Baldur si afflosciò sulla sedia,
le guance più rosse delle tende di broccato
nell’atrio.
- Maledette oche, sempre a spettegolare stanno. -
Myria ridacchiò: - Però è stato
divertente ascoltare la storia di come hai tentato di picchiare quel
povero asino. Mi hanno anche riferito che… -
- Va bene, va bene, non voglio sentire quante altre cose sai. - la
interruppe brusco, - Come stanno i bambini? -
- Abbastanza bene. Non hanno più gli incubi e sono riusciti
ad integrarsi. - si sedette anche lei e si lisciò la gonna
della sopravveste color pesca, - Melwen a volte ricerca la solitudine,
ma penso sia normale. Ha perso tutta la sua famiglia, credo non le
passerà mai del tutto. -
- E Zefiro, invece? Mi ha chiesto di intagliargli una spada, ma non me
ne ha voluto rivelare il motivo. -
- Non ne posso essere certa, ma penso che sia tutto legato a una
vecchia discussione. Zefiro stava parlando del suo futuro con Alan e, a
un certo punto, gli aveva chiesto perché avesse scelto di
diventare una guardia cittadina. Non ricordo esattamente cosa gli
rispose Alan, ero nella stanza accanto a parlare con un’amica
che si era appena sposata, però… -
sospirò e si morse le labbra, le lacrime che già
le inumidivano gli occhi, - Non lo so, in certi momenti non lo capisco.
-
- Quello che è successo a Luthien e ad Amount-vinya lo ha
cambiato. Purtroppo, la guerra costringe i bambini a diventare adulti
prima del tempo. -
- Lo so. - inspirò profondamente, inghiottendo il groppo che
le serrava la gola, - Tu che mi racconti? Dove sei stato? Sono giorni
che non sento parlare di te. -
Baldur prese una manciata di frutta candita e la masticò per
un po’, prima di rispondere: - Diciamo che sono andato in
giro a cercare una persona. -
Myria rimase in silenzio qualche istante. Da quando erano arrivati, il
nano era andato a trovarla spesso, quasi ogni sera, ma per un paio di
giorni non l’aveva visto. Quando aveva chiesto a Nordri sue
notizie, il padrone di casa era stato molto evasivo. Sapeva qualcosa,
ma fino al ritorno del suo fidato amico e compagno non le avrebbe
rivelato nulla. Durante le lunghe giornate passate e leggere o a
parlare con le cameriere di casa, si era fatta un’idea su
quale potesse essere l’obiettivo di Baldur, ma non aveva
certezze. Almeno fino a quel momento.
- È stato un viaggio piuttosto faticoso, ma credo di aver
trovato quel che ci serve per fare un po’ di luce su Melwen. -
- Sei riuscito a trovare un mago? -
- Più o meno, oserei dire che è stato lui a
trovare me. Si chiama Nyi ed è un mago girovago.
All’inizio, come tutti i lancia-incantesimi che si
rispettano, non ne voleva sapere di collaborare, ma è
bastato che facessi il nome della bambina per fargli cambiare idea.
Chissà, forse la conosce addirittura. -
Myria trasse un respiro di sollievo. Quando l’accampamento
era stato attaccato, lei, Melwen e Zefiro si erano salvati
perché la figlia di Copernico, di punto in bianco, era
riuscita a rendere tutti invisibili. Non sapeva esattamente come avesse
fatto, era certa di non aver sentito nessuna parola magica uscire dalle
sue labbra, eppure quando il soldato che li stava inseguendo era
arrivato davanti a loro, si era limitato a guardarsi intorno smarrito,
per poi tornare indietro. Era stato solo grazie a quella magia che si
erano salvati, evitando la stessa fine di tutti gli altri sopravvissuti.
- È già in città? - domandò
infine.
- Sì, arriverà a breve assieme a Nordri. Non so
cdi cosa debbano parlare, ma dall’espressione di Nyi sembrava
qualcosa di molto importante. - disse, rigirandosi la coppa
d’argento tra le mani.
Myria sentiva che voleva aggiungere altro, così attese in
silenzio che continuasse. Quando Baldur si protese verso di lei, si
accorse che le lunghe trecce rossicce della barba celavano un viso
tirato, segnato dalla stanchezza, che si accumulava sulle profonde
occhiaie violacee.
- Mentre ero in viaggio, mi è sembrato di essere seguito. -
- Da chi? -
- Non lo so. Mi viene in mente solo un nome e spero di sbagliarmi. -
Lo sguardo di Baldur si rabbuiò, così come quello
di Myria, le dita intrecciate sul grembo scosse da un lieve tremito.
- Le mura di Alabastria sono le più resistenti di tutta
Esperya, i bambini non corrono alcun rischio. - la
tranquillizzò il nano, posando una mano tozza su quelle
della donna e stringendole appena, per confortarla, - Però
non dobbiamo abbassare la guardia. Appena Nordri e Nyi arriveranno,
vedremo di trovare una soluzione. Non ti capiterà
più nulla, né a te, né a Melwen,
né a Zefiro, vi proteggerò io. -
Myria annuì e poi lo abbracciò, affondando il
viso nella sua spalla. La sua pelle sapeva di sale, sudore e erba
bagnata, ma lei non ci fece caso, così come non
badò all’impercettibile irrigidimento del nano. Le
bastava che fosse lì, che fosse tornato. Non avrebbe
sopportato di perderlo, non dopo quello che aveva fatto per salvare lei
e i bambini. Nel suo cuore c’erano già troppe
lapidi.
- Grazie. - esalò.
- Sono un mercenario, Myria, ma ho un cuore anch'io. - le
batté una mano sulla schiena e sciolse
l’abbraccio, - Non sarò un prode cavaliere come
Airis, però posso assicurarti che non ti
abbandonerò, almeno finché non sarò
certo che tu sia al sicuro. - tossicchiò imbarazzato e si
guardò intorno, - Fa caldo qui dentro, comunque. -
- È un modo come un altro per chiedermi di far portare
qualcosa? -
- Per gli Avi, sì! Ho cavalcato in fretta e furia per
tornare e riferirti le mie scoperte e tu nemmeno mi offri qualcosa da
bere? Sei una pessima padrona di casa, lasciatelo dire. -
Ancora una volta, Myria non riuscì a trattenere un sorriso.
I modi bruschi di Baldur le ricordavano le giornate ad Amount-vinya,
quando il sole spandeva i suoi raggi caldi sulle pietre bianche della
città e Alan veniva a cena a casa sua per tenere compagnia a
lei e a Zefiro. Questo accadeva appena l’estate precedente,
pochi mesi, un secolo. Eppure il nano era ancora lì, con lei
e i bambini, un porto sicuro in un oceano in tempesta.
- Penso sia rimasta un po’ di birra doppio malto nelle
cantine. -
Baldur si strofinò le mani con aria soddisfatta: - Ho giusto
un po’ di sete, fai portare una pinta abbondante. Anzi,
meglio due, una sicuramente non basta. -
- Pensi di riuscire a sostenere un discorso sensato dopo? - lo prese in
giro Myria.
- Dubiti della mia resistenza, donna? -
- Diciamo che non vorrei che si aggiungesse qualche altro epiteto
accanto al tuo nome. -
Il nano grugnì qualcosa tra i denti e Myria, stavolta,
scoppiò a ridere di gusto, prima di suonare la campanella
per chiamare la servitù.
- Sei sicura che sia una buona idea? -
- Perché non dovrebbe? Stiamo andando ad esplorare la parte
vecchia della città, mica ci stiamo inoltrando fuori dalle
mura. -
Zefiro sospirò e, ancora una volta, forse la decima da
quando si erano infilati in quei cunicoli, si maledisse per aver dato
retta a Melwen. Era cominciato tutto quella mattina, quando, mentre
facevano colazione, la sua amica aveva proposto di fare una gita
esplorativa. Ovviamente lui le aveva detto di no e lei, ovviamente, non
l’aveva presa bene, ma non smaniava dalla voglia di ripetere
l’esperienza della volta scorsa, quando era finito in un
prato di ortiche. Purtroppo, Melwen non sapeva accettare i rifiuti.
Così, appena i suoi amici si erano ritirati nelle loro case
a mangiare, l’amica lo aveva raggiunto e, dopo un lungo
discorso intercalato da minacce, adulazioni, preghiere e promesse era
riuscita a convincerlo.
Armati, dunque, con due spade di legno, uno zainetto, una lanterna e un
sacchetto pieno di focaccine, avevano corso attraverso la
città, saltando gli scalini che collegavano i vari livelli e
lasciandosi alle spalle l’Alabastria alta, per inoltrarsi
nelle strade congestionate della parte più viva e popolosa,
gremita di persone, case, botteghe e carretti trainati da muli e
cavalli stanchi. Le nuvole si erano diradate e la luce abbacinante del
sole accarezzava le strade, risplendendo sui ciottoli, sulle teste dei
mercanti e sulle barbe bianche dei nani più anziani, assisi
su sedie di legno fuori dall'uscio delle loro dimore a fumare la pipa.
Quando finalmente giunsero a uno degli ultimi terrazzamenti, Melwen
tirò dritto fino a una stradina laterale che si immetteva in
un’altra viuzza ancor più piccola e claustrofobica
e la percorse fino alla fine. Da lì, il terreno declinava
verso un ampio spazio pianeggiante che i bambini sapevano estendersi
fino alle mura della città. Anche a quell'ora, era gremito
di nani, uomini e donne dai visi sporchi di terra e caligine che, come
formiche, facevano avanti e indietro dalle gallerie. Melwen si
fermò a guardarli, nascosta all'ombra dell'ultima casa, le
sopracciglia corrucciate e lo sguardo attento di chi cerca di fare
mente locale, mentre Zefiro attendeva sue istruzioni. Nessuno, nemmeno
i suoi amici, potevano affermare di conoscere bene le miniere di
Alabastria e, persino tra i minatori più anziani, erano
davvero pochi quelli che sapevano orientarsi con facilità in
quel labirinto di cunicoli e gallerie. Aveva sentito dire da Nordri che
i giacimenti di ferro erano stati il motivo che aveva spinto i nani nei
tempi remoti a buttare le fondamenta della città proprio su
quella collina e il bambino non aveva motivo di dubitarne, considerando
che i più grandi mastri armaioli risiedevano proprio
lì, ad Alabastria. Anche Lotka e Alcarin avevano delle vene
metallifere, ma da quello che sapeva era la roccaforte nanica del nord
a mantenere il primato.
- Bene, noi dobbiamo andare di là. - Melwen si
inginocchiò e, dopo aver lanciato un'occhiata circospetta a
destra a sinistra, gli indicò un punto vicino a una
galleria, - Dobbiamo passare oltre quel tunnel. Ne seguiranno altri due
o tre e poi ci sarà uno spiazzo desolato dove ci sono alcuni
capanni degli attrezzi e vecchie carrucole. Nascosto dietro una pila di
legno, ci dovrebbe essere quello che interessa a noi. -
- Ma... non sarà sorvegliato? Se quella galleria conduce
alla città vecchia, ci sarà qualcuno che
controlli che nessuno ci vada. -
- Di solito, a quest'ora, le guardie vanno a mangiare, quindi in
realtà il passaggio dovrebbe essere libero, ma qualora le
trovassimo... - si mordicchiò l'interno della guancia e si
grattò l'orecchio arricciando le labbra, - Ci inventeremo
qualcosa. Dobbiamo essere positivi. -
Zefiro annuì, ma in cuor suo sperava che qualcuno li
fermasse. Ovviamente, la fortuna non fu dalla sua parte. Melwen, non
sapeva come, lo guidò fino al tunnel, dapprima passando per
le stradine della città, poi lungo un sentiero di terra
battuta che li condusse nello spiazzo dove, a parte loro e dei merli
accoccolati nel loro nido, non c'era nessuno né
lì intorno, né davanti all'entrata della
galleria. L'unico ostacolo che si frapponeva tra loro e la discesa
nella città vecchia, era una porta di legno marcita, chiusa
da spesse catene, ma che era bastato un semplice movimento della mano
di Melwen perché il grosso lucchetto si aprisse.
“Perchè tutte a me...”
- Sei davvero sicura di quello che stiamo facendo? - domandò
incerto Zefiro, - Ci sarà un motivo per cui nessuno viene
più qui, non credi? -
“Anche se non mi spiego perché non si siano dati
il cambio per la guardia.”
- Non ne ho idea e sinceramente non mi interessa. Insomma, pensaci: ci
stiamo inoltrando nelle viscere della terra per vedere la vecchia
Alabastria. Magari troveremo qualche tesoro! - cinguettò
contenta Melwen, che avanzava davanti all'amico con la lanterna accesa,
- Non sarebbe così strano. Tutti gli eroi, quando vanno ad
esplorare i ruderi di una qualche antica e prospera città,
trovano gioielli, diademi, spade magiche… -
- Vorrei farti presente che, l’ultima volta che hai detto
così, abbiamo trovato soltanto le carcasse di un gatto e di
un cane mummificati. E tu hai tentato di convincermi che fossero i
resti rispettivamente di un unicorno e di un cucciolo di drago. -
Melwen gli rivolse uno sguardo infuocato: - Era buio, non vedevo bene,
mica sono un elfo! -
- Hai continuato a ripeterlo anche il giorno dopo. - precisò.
- Beh, non è colpa mia se i disegni anatomici sui libri sono
tutti uguali. Ho sempre sostenuto che i maghi dovrebbero affidare la
tiratura dei loro tomi ai giovani che hanno ancora gli occhi buoni. -
Il bambino sbuffò, roteando gli occhi. Era impossibile
spuntarla quando Melwen voleva avere ragione.
- Va bene, va bene. - si passò una mano tra i capelli e
sospirò rassegnato, - Hai per caso una mappa della
città sotterranea? Vorrei evitare di perdermi. -
- Ho anche di più. Mentre girovagavo per la biblioteca di
Nordri, ho trovato un libro vecchissimo dove non c’era un
disegno decente, ma ho notato delle didascalie a piè di
pagina molto interessanti. -
- Capisci il dwarvish antico? -
- Più o meno. Mio… mio padre mi aveva insegnato i
rudimenti della lingua. -
Quell’ultima frase le rotolò fuori dalle labbra in
un sussurro strozzato e Zefiro sentì l’impellente
bisogno di abbracciarla, ma si trattenne. Doveva essere lei a cercarlo
e, anche se era straziante vederla in lacrime, non poteva fare altro
che trasmetterle conforto con la sua presenza. Fino a quel momento
aveva preferito lasciare le cose come stavano, non aveva mai provato a
insistere né a parlare di quello che era successo. Ricordava
ancora i discorsi vuoti che sua madre e Alan gli avevano propinato per
consolarlo, quando aveva appreso che suo padre non sarebbe
più tornato. Adesso, a distanza di tempo, capiva quanto si
erano sentiti impotenti vedendolo chiudersi in se stesso, nel suo
dolore, senza poter fare nulla se non aspettare.
Rimasero in silenzio per un lungo minuto. La pietra, resa scivolosa
dell’azione erosiva del tempo e dell’acqua che
sgocciolava dal soffitto, era stata invasa dal muschio e da una pianta
rampicante simile all'equiseto i cui steli si allungavano fino al
soffitto, costituendo una ragnatela fitta e impenetrabile quasi come il
buio umido che li avvolgeva man mano che proseguivano. Mentre
continuavano la loro discesa, con la scusa di evitare brutte cadute,
Zefiro le strinse la mano, intrecciando le loro dita. Ci fu un momento
in cui temette che la sua amica lo avrebbe respinto, ma poi i loro
palmi aderirono e una sensazione di sollievo lo pervase.
Proseguirono per un tempo che Zefiro non seppe calcolare. Potevano
essere ore o minuti, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ombre
danzavano sulle pareti di roccia, allungandosi e appiattendosi in un
ondeggiare frenetico che ricordava quello dei tentacoli di un mostro
marino. La luce della lanterna si spandeva in un cerchio aranciato
attorno a loro, riuscendo appena a squarciare lo spesso velo nero che
li circondava come un sudario. Girarono a destra, poi a sinistra,
seguendo un percorso che solo Melwen sembrava conoscere. Più
di una volta, la lanterna disegnò il profilo di alcune rune
incise nella pietra, segni che Zefiro interpretò come delle
specie di antiche indicazioni. A un certo punto, infilarono una
galleria che terminava con una rampa di scale che si approfondava
nell'oscurità. Con il cuore che batteva a mille, Zefiro
sfiorò con la mano libera il profilo della spada di legno:
se mai si fossero imbattuti in un cane randagio, si sarebbero potuti
difendere.
- Quanto pensi che manchi? -
- Non molto. -
La voce incerta di Melwen suonò ben poco convincente, ma il
bambino decise di non insistere. Prima o poi, si disse, sarebbero
arrivati.
“Tutte le scale portano da qualche par…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che dovette fermarsi di
colpo per non andare a sbattere contro la sua amica. Grugnì
contrariato, ma qualsiasi imprecazione gli morì in gola,
soffocata da un sussulto stranito.
Davanti a loro si estendeva una grande piazza ortogonale, circondata
dai contorni di quelle che Zefiro intuì essere le vecchie
abitazioni di Alabastria. Al centro, circondata da massi e ricoperta da
una ragnatela di rampicanti, giaceva la statua bronzea di Gurhavat, Dio
Artigiano, creatore dei nani.
- Oh dei, Zefiro, ma è meravigliosa! - l'esclamazione
emozionata di Melwen rimbalzò sulle pareti di pietra, mentre
si addentrava nella piazza tenendo alta la lanterna, - Questa doveva
essere la piazza del mercato, quindi lì, da qualche parte,
ci dovrebbe essere il quartiere dei pellicciai e degli armaioli.
Chissà se è rimasto qualcosa, magari una spada o
uno scudo con il primo stemma… -
- Ferma, ferma, ferma! Stai parlando troppo in fretta e io non sto
capendo. Siamo venuti qui per cercare qualche vecchio cimelio? -
- No, non proprio. Tieni la lanterna, ti faccio vedere. -
Zefiro obbedì. Melwen poggiò la borsa a terra,
tirò fuori un libro dalla copertina spessa e lo
aprì. Le pagine in pergamena erano sottilissime e ingiallite
dal tempo. Illuminate dalla fievole luce della lanterna, scorrevano
frusciando sotto le dita delicate di Melwen, dando
l’impressione che si sarebbero potute sbriciolare da un
momento all’altro. Il cinguettio eccitato della sua amica lo
avvisò che aveva trovato ciò che cercava.
- È la mappa? -
- Sì. - accarezzò il disegno con un sorriso
sognante, passando i polpastrelli sul tratto sfumato
dell’inchiostro, - Vedi questa casa? Ecco, leggendo la
didascalia e qualche paragrafo più in là, ho
scoperto che corrisponde alla biblioteca personale del re. -
- Aspetta, quella che si dice contenere pergamene con incantesimi per
distruggere intere città? -
La bambina alzò gli occhi al cielo: - Quelle sono
semplicemente dicerie, per di più infondate. I nani non sono
mai stati amanti della magia, men che mai di quella proibita. Solo uno
sciocco crederebbe davvero a una storiella del genere. -
Zefiro storse le labbra e incassò in silenzio.
- In ogni caso, - riprese Melwen, - l’autore di questo libro
sostiene che il re dell’epoca, tale Urgavat V, teneva una sua
personale collezione di libri storici. In particolare dovrebbe
possedere una delle versioni più belle e preziose della
Mablung Ringëril. -
- Il libro sacro degli elfi? E perché un nano dovrebbe
tenere quella roba nella sua biblioteca? -
- La tua ignoranza a volte è imbarazzante. -
- Scusami, sono solo un povero guerriero zuccone. Io sono il braccio e
tu la mente, ricordi? -
La bambina sbuffò divertita: - Non è una storia
che conosco molto bene, ma papà mi ha raccontato che
all’inizio tutte le razze avevano un unico libro di
riferimento. Poi, dopo la guerra del centesimo solstizio e la firma dei
vari trattati di pace, questa unità religiosa è
andata perduta, anche se i nomi degli dei e i testi di riferimento non
hanno subito sostanziali modifiche. Ora, non possiamo spingerci fino al
palazzo reale, è troppo all’interno della
città e non penso sia una buona idea, viste le condizioni in
cui versano le case qui intorno. -
- Perché spingerci fino alla biblioteca sarebbe meno
pericoloso? -
- Ci stavo arrivando, se la smettessi di interrompermi… -
- Scusami, vai pure avanti. -
- Dicevo… la biblioteca è molto più
vicina. Basterà oltrepassare la piazza e proseguire sempre
dritto lungo la strada. Se ci teniamo al centro, dovremmo evitare
qualsiasi problema. - dichiarò decisa, - Allora, che ne
pensi? -
Zefiro si mordicchiò le labbra nervoso.
- Non lo so, non mi sembra comunque una buona idea. Insomma, pensavo
fossimo venuti qui per vedere qualche muro crollato, invece adesso mi
dici che vuoi andare a esplorare un’antica biblioteca dove
pensi di trovare chissà che libro. Ma poi, se è
davvero così prezioso, non dovrebbero averlo già
trovato? - le fece notare.
- No, altrimenti sarebbe conservato da qualche parte. Ascolta, prometto
che, se non troveremo niente di interessante o vedessimo qualcosa si
sospetto, scapperemo a gambe levate. Però non rinunciamo a
quest’occasione, proviamoci almeno. -
L'amico esitò. Da una parte era curioso di inoltrarsi nelle
rovine della città e, anche se non l’avrebbe mai
ammesso davanti a Melwen, il pensiero di andare alla ricerca di questo
prezioso libro lo elettrizzava; dall’altra aveva paura di
quello che poteva nascondersi nelle lunghe ombre dei palazzi distrutti.
Certo, probabilmente, a parte loro e la muffa, non c’era
niente di vivo lì sotto, ma non riusciva a non sentirsi
intimidito. Strinse l’elsa della spada per farsi forza e
respirò a fondo.
- Va bene, ma alla prima minaccia… -
- Sapevo che avresti accettato! - esclamò briosa Melwen, -
Dai, su, muoviamoci. La curiosità mi sta mangiando viva. -
Oltrepassarono la piazza e, dopo aver superato un arco trionfale
crollato, si inoltrarono lungo una strada silenziosa, costellata di
detriti e macerie distrutte.
Zefiro si guardava intorno con circospezione, la mano serrata sulla sua
arma di legno. Non sapeva da quanto tempo la città fosse
stata abbandonata, ma gli steccati degli orti mangiati dai tarli e le
ragnatele di crepe che ricoprivano i muri delle case gli suggerivano
che fossero passati molti, moltissimi anni. Gli edifici sembravano
ammassarsi gli uni sugli altri, blocchi di pietra pieni di fenditure e
crolli che non avevano conservato nemmeno l’ombra
dell’eleganza e maestosità di un tempo. Un
silenzio denso come melassa aleggiava intorno a loro, permeando
l’aria satura del soffocante odore di chiuso e morte. Zefiro
rabbrividì non appena scorse le ossa di una mano schiacciate
da un blocco di marmo e non riuscì a trattenere un sussulto
quando rischiò di calpestare un teschio spaccato, fin troppo
piccolo per appartenere ad un adulto.
“Cosa è successo qui?”
Come se gli avesse letto nel pensiero, Melwen sussurrò: -
Tempo fa, i nani vivevano sottoterra. Un giorno una forte scossa di
terremoto fece crollare tutto. Non ci sono stati moltissimi morti,
però… -
- Però nessuno è voluto tornare dopo. -
La bambina assentì e scavalcò i resti di una
colonna.
- Quindi questa città, la vecchia Alabastria…
è un cimitero? -
- Non ufficialmente. -
Zefiro deglutì e affrettò il passo.
Passarono davanti a un edificio sventrato, lasciandosi alle spalle una
piazza dove, sotto le tracce nere degli incendi, si celavano delle
profonde fenditure, squarci che sfregiavano la pavimentazione simili
alle artigliate di un mostro. Melwen osservò meravigliata la
facciata divorata dalle fiamme di un altro edificio, che
spiegò al suo compagno essere stata la Casa del Ferro, una
delle più grandi e famose armerie di tutta Esperya. Poi
rimase catturata dai bassorilievi in avorio che decoravano il pozzo di
un patio scoperto. Di tanto in tanto, un’ombra di turbamento
le offuscava lo sguardo quando nei suoi occhi si rifletteva
l’immagine delle ossa bianche e degli scheletri dei morti
insepolti, distrutte, frantumate.
Nel momento in cui scorse il profilo imponente della biblioteca, Zefiro
trasse un respiro di sollievo. Si affiancò a Melwen e, senza
nessuna esitazione, la prese per mano. Vedendo l’espressione
spaesata della bambina, un sorriso incerto gli arcuò le
labbra.
- È solo per precauzione. Tu sei lenta a correre, se
qualcosa ci attaccasse ti trascinerei via più velocemente. -
In risposta ricevette un’occhiata non molto convinta, ma alla
fine optò per non dire nulla. Salirono i tre scalini che li
separavano dall’entrata e, con una lieve spinta, Melwen
aprì la porta. Fece un solo passo all’interno
prima di bloccarsi, mentre il suo mormorio sorpreso, assieme al cigolio
dei vecchi cardini, si perse nell’aria satura
dell’odore di carta e inchiostro.
Davanti a loro si apriva un’ampia stanza poligonale, con alte
scaffalature che si innalzavano verso l’alto, confondendosi
nell’ombra del soffitto a cassettoni. Un antico lampadario
sormontava il pavimento a mosaico, dove un tempo le tessere componevano
le due asce di ferro e lo scudo di legno, simbolo e stemma della
città di Alabastria. Il profilo dei tavoli, carichi di libri
dalle copertine rilegate in cuoio e di pergamene arrotolate, si
intravedeva appena e la luce della lanterna bastava giusto ad
illuminare uno stretto cerchio attorno a loro.
- Accidenti… - Melwen si guardò intorno
meravigliata, - Ti rendi conto del posto in cui ci troviamo? Delle
conoscenze che sono nascoste qui dentro? -
Zefiro annuì distrattamente, troppo concentrato a
perlustrare la zona in cerca di eventuali pericoli. Intravide alcuni
mozziconi di cera a pochi passi da lui. Di certo non era una mossa
saggia aggirarsi in quel luogo pieno di carta secca e facilmente
infiammabile con delle candele.
“Dovremo accontentarci di quello che abbiamo.”
Seguì Melwen, che si era infilata in mezzo ai corridoi tra
le scaffalature.
- Secondo te che ore sono? - le domandò a bassa voce.
- Non lo so e adesso non mi importa. - prese dei volumi e, dopo aver
dato una rapida occhiata ai titoli, li impilò per terra, -
Tu guarda se c’è qualcosa d’interessante
qui in mezzo, magari qualcosa che possiamo portare su. -
- Tu… tu vuoi davvero portare via qualcosa da qui? Sul
serio? -
- Mi sembra ovvio. - Melwen parve stupita.
- Ma… ma non sarebbe una specie di profanazion… -
- Ascolta, già per il fatto che siamo venuti qui
è come se avessimo profanato questo luogo. Se ci fossero dei
fantasmi o delle presenze, penso che si sarebbero già
manifestate, no? -
- Potrebbe essere, non ho mai incontrato un fantasma. -
La bambina sbuffò spazientita: - Allora muoviamoci. -
Zefiro notò un tremolio nella sua voce, che gli fece intuire
che quella spavalderia era solo una maschera: Melwen aveva molto
più coraggio di lui, ma quel luogo la metteva molto
più in soggezione di quanto volesse far vedere.
Con un sospiro, aprì il primo libro e cominciò a
sfogliarlo. Era scritto in dwarwish antico e la maggior parte delle
lettere erano state cancellate. Riuscì a dedurre che era una
biografia di un qualche vecchio re solo perché
trovò una cronologia in fondo, accompagnata da vari ritratti
di un uomo basso e tozzo che veniva incoronato davanti a una folla di
altri uomini bassi e tozzi.
Andò avanti così per un po’, con Melwen
che continuava a mettergli libri in mano e lui che tentava di capire di
cosa parlassero. La maggior parte erano scritti in lingue che non
conosceva, idiomi così arcaici da costituire solo le radici
fondamentali dell’elfico, del dwarwish e della lingua comune
attuale. L’unica cosa che poteva fare era guardare le figure
o i disegni per cercare di intuire quantomeno l’argomento di
cui trattavano. Più volte tentò di far notare a
Melwen che sarebbe stato meglio se fosse stata lei a controllare i
volumi, ma la bambina era troppo assorbita dalla sua ricerca per dargli
realmente retta. Così, Zefiro si rassegnò a
proseguire quell’infruttuoso lavoro, anche se, in cuor suo,
era contento di vedere la sua amica così piena di
entusiasmo, di quell’allegria contagiosa e trascinante che
aveva conosciuto a Luthien.
Durante tutta l’ora successiva si spostarono spesso,
scivolando da un corridoio all’altro in completo silenzio.
Controllavano ogni scaffale, scandagliando con attenzione tutti i
volumi, dapprima quelli con le pagine decorate in foglia
d’oro e la copertina istoriata con pietre dure e gemme
preziose, in seguito si limitarono a quelli con il titolo scritto con
le lettere allungate ed eleganti tipiche della lingua elfica.
Quando alla fine Melwen cominciò a guardare i tomi che
ingombravano uno dei tavoli ancora in piedi, lo sguardo di Zefiro venne
calamitato da un libricino che giaceva sotto la semisfera di un
mappamondo rotto. Posò la pergamena che aveva in mano e lo
raccolse da terra, sfogliandolo rapidamente fino a metà.
Osservò il disegno di un castello di cristallo, dipinto
sullo sfondo di un cielo terso solcato da un arcobaleno. Sotto di esso,
spiccava il verde acceso di un giardino in fiore, dove fate e folletti
vestiti con abiti colorati e sgargianti giocavano, rincorrendosi in un
labirinto di siepi e rose.
“Ma che bello! Che sia un libro di favole?”
Con incredibile delicatezza, girò la pagina con la punta del
dito. A fianco di un lungo paragrafo scritto con una calligrafia fitta
e incomprensibile, trovò un altro disegno, stavolta di un
salone in festa, dove gli stessi nobili che erano stati rappresentati
prima ballavano sotto un luminoso soffitto a volta. I loro visi,
tratteggiati con una minuzia quasi maniacale, mostravano delle
espressioni felici, divertite. I due troni in fondo alla sala erano
vuoti, così come lo sguardo dell’uomo che
osservava le coppie ballare da una balconata in penombra.
- Che leggi? -
La voce di Melwen lo spaventò. Era arrivata da dietro senza
che lui se ne accorgesse.
- N-niente, un semplice libro di favole. - col cuore che rischiava di
scoppiargli nel petto, si girò e glielo porse, - Ho solo
guardato due pagine, però, a giudicare da quello che ho
visto, non credo si tratti di quello che stiamo cercando. -
- No, infatti, ma è interessante. - aprì il libro
alla prima pagina e lesse il titolo, - Landiel’id Oberon an
Titania… sì, questo è il
libro che
racconta la tragica storia d’amore del re e della regina
delle fate. -
- Ah, sì, ho capito, quello dove… -
Non fece in tempo a finire la frase che tutta la struttura
tremò e un paio di scaffali caddero a terra con un rumore
assordante. Alcuni pezzi del soffitto precipitarono al suolo,
sbriciolandosi all’impatto. Seguì
un’altra scossa e un’altra ancora e piano piano
l'ambiente intorno a loro cominciò a collassare su se stesso.
Senza pensarci due volte, Zefiro afferrò la lanterna e
Melwen e si mise a correre verso l’uscita. Non sapeva
cos’era accaduto, né chi o cosa avesse generato il
terremoto, ma dovevano andarsene. Infilò la porta e
saltò gli scalini che lo separavano dalla strada dissestata,
per poi darsi lo slancio e gettarsi in una folle corsa verso l'uscita.
La terra sotto i loro piedi continuava a tremare, così come
i colonnati, le case, gli archi. In un istante tutto iniziò
a cadere a pezzi.
- Melwen! -
Un pezzo della facciata di un palazzo per poco non li
schiacciò. Melwen cacciò un urlo e Zefiro la
strattonò con ancora più forza.
- Non ce la faccio! - gridò la bambina.
La sua voce era spezzata dal pianto, copiose lacrime ora le rigavano il
viso. Zefiro strinse i denti e aumentò l’andatura,
i muscoli dei polpacci tesi per lo sforzo, il fiato che gli bruciava in
gola. Saltò un masso, ne evitò un altro,
tirò via la sua compagna prima che il capitello di una
colonna le crollasse addosso. Dovevano farcela, la piazza del mercato
era poco più avanti, già riusciva a vedere il
profilo della statua di Gurhavat in lontananza.
In quel momento, la facciata di un palazzo cedette e i detriti
travolsero quello adiacente. Nell’aria polverosa, Zefiro
distinse nitidamente quell’enorme massa di pietra, mattoni e
legno che si piegava, chiudendosi lentamente sopra di loro. Un attimo
dopo, una luce accecante lo avvolse.