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Autore: Himenoshirotsuki    30/01/2017    6 recensioni
[Seguito di "Fuoco nelle Tenebre"] [La stori è un pausa un mesetto, ma non sospesa. Finisco Fighting Fire e riprendo ad aggiornare!]
Dopo gli ultimi eventi, il destino di Esperya sembra ancora più incerto. Lyssandra muove i fili da dietro le quinte, Mirya e i bambini sono rintanati ad Alabastria, mentre Ledah è stato catturato. Sembra che il ritorno di Aesir e della sua era dell'oscurità sia inevitabile, ma c'è ancora qualcuno che si oppone, qualcuno che ha pagato un prezzo di sangue per diventare ciò che è. Con un nuovo corpo e un solo anno a disposizione, Airis dovrà adempiere al suo compito di Guardiano affinchè i drow e il dio dell'oscurità non facciano di nuovo piombare Esperya in un caos di morte e distruzione.
Battaglia dopo battaglia, incontro dopo incontro, in un lungo viaggio attraverso lande desolate e città e regni meravigliosi, Airis scoprirà così i dettagli di una macchinazione destinata a cambiare le sorti del mondo, ma, soprattutto, la verità sul suo passato, una verità che potrebbe distruggerla.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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Fuoco 2

2

Notizie

Quel giorno il sole sembrava splendere meno del solito. Nascosto dietro una coltre di nubi che preannunciava neve, illuminava la valle con una luce tiepida, opaca, che si smorzava sul verde sfumato degli steli d’erba e sulle pietre bianche che punteggiavano quell’oceano frusciante.
Con un sospiro, Mirya tornò a guardare il libro che aveva posato in grembo. Da ore continuava a leggere sempre la stessa frase e, da altrettanto tempo, continuava a distrarsi guardando fuori.
Erano giunti ad Alabastria da poco più di una settimana e ancora non si era abituata alla sua nuova condizione.
Chiuse il libro e ne accarezzò la costa logora, perdendosi ancora una volta a osservare i disegni ormai quasi cancellati dall’usura del tempo. Spostò poi lo sguardo sulla stanza, sul tavolo in radica di noce, sul letto a baldacchino rifinito in oro rivolto verso la finestra, sullo specchio cesellato di gemme preziose abbracciato da pregiate stoffe di lampasso di seta gialla e blu.
Chiunque avrebbe invidiato la sua condizione, al sicuro, servita e riverita dal mercante più ricco della città. Da quando era stata costretta a lasciare Amount-vinya, aveva sognato spesso di vivere in pace, lontana dal sangue e dalla violenza, ma mai avrebbe pensato che il suo desiderio si sarebbe realizzato così in grande, per di più ad Alabastria, la roccaforte dei nani del nord, la città-fortezza che, dopo Lotka, aveva la fama di non essere mai stata espugnata. Le due però non potevano essere più diverse. La prima era stata fondata alle radici dei monti Eresse e si sviluppava interamente sottoterra. Solo la grande facciata del grande castello, scolpita direttamente nella roccia, vedeva la luce del sole. Mentre viaggiavano, Myria aveva scorto i tre portoni di ferro in lontananza, ma Baldur aveva optato per proseguire oltre: i nani di Lotka erano feroci, ostili e lui non conosceva nessuno lì in città che avrebbe potuto accoglierli. Alabastria era tutt'altra cosa, invece. Costruita su dei vecchi terrazzamenti, si inerpicava su una collina di quasi cento braccia, sviluppandosi in altezza con le sue case, le sue botteghe e i suoi palazzi fino alla vetta, dove, in tempi così remoti da perdersi nella memoria, era stato eretto il Castello di Ferro. Quando avevano scorto l’imponente portone di faggio, Myria e i bambini non erano riusciti a celare lo stupore, restando a bocca aperta. Mentre Baldur, a cavallo di Raiza, faceva loro strada, la donna si era domandata come avesse fatto un popolo così rozzo e burbero a costruire una città così bella ed elegante.
Le venne quasi da ridere quando ripensò allo scambio di battute tra il nano e le guardie che pattugliavano le mura, al modo così cameratesco di interagire tra di loro, come se fossero cugini o amici di vecchia data. Le aveva scaldato il cuore anche l’accoglienza di Nordri, l’amico di Baldur, il mercante di vino più ricco della città, che non aveva esitato ad offrire a degli umani sconosciuti, sporchi e cenciosi un tetto sopra la testa e una zuppa calda.
“Sono stati gentili, ma non possiamo rimanere qui per sempre.”
Sospirò ancora e spostò la tendina di raso sottile, osservando le spalle del figlio. Aveva giocato per ore con gli altri ragazzi, suoi coetanei o poco più grandi, ridendo e scherzando con loro mentre si affrontavano in un duello all’ultimo sangue. Ora che tutti erano tornati alle loro case, si godeva il vento del primo pomeriggio, seduto sulla balconata di pietra bianca con le gambe a penzoloni e la spada di legno che gli aveva intagliato Baldur poggiata in grembo. Gli piaceva starsene lì da solo o in compagnia di Melwen a osservare il paesaggio, con lo sguardo perso al di là dell’orizzonte e i capelli ormai lunghissimi e indomabili che ondeggiavano al vento.
Guardandolo, Myria si rese conto di quanto fosse cresciuto in così poco tempo. Certo, balbettava ancora e si faceva facilmente trascinare da Melwen nelle sue “avventure esplorative” nei luoghi più improbabili della città, ma era riuscito a integrarsi perfettamente nel gruppetto di ragazzi che vivevano nelle case vicine. Era difficile non volergli bene, riusciva a farsi amare da tutti.
Sorrise mesta, ripensando ai loro primi tempi lì. Melwen e Zefiro avevano trascorso più di quattro giorni in completo silenzio, e anche successivamente si erano limitati a rispondere solo a monosillabi. Myria, dopo i primi infruttuosi tentativi, aveva rinunciato. In fin dei conti, capiva il loro bisogno di solitudine: quello che era successo a Luthien, il sangue, la morte, quegli esseri mostruosi, doveva essere stato ancor più orribile e spaventoso dal loro punto di vista. Fino ad allora la guerra e tutto ciò che essa portava con sé era stata solo un fantasma, un evento lontano che era oggetto dei discorsi degli adulti e dei canti dei bardi. Quel giorno di due settimane prima, invece, era piombata loro addosso nel modo più brutale che potessero immaginare ed era diventata improvvisamente reale. Mentre a Melwen era stata strappata via tutta la sua famiglia, Zefiro aveva perso Alan, un padre, un amico fidato.
Myria si morse le labbra, ricacciando indietro le lacrime al ricordo del viso sorridente del soldato: tutti avevano perso qualcuno, quel giorno. Una parte del loro cuore era morta con i loro cari.
Riaprì il libro, cercando il punto su cui si era interrotta, anche se, in quel momento, sapeva che avrebbe fatto fatica a concentrarsi. La sua mente vagava altrove, persa tra ricordi che sapevano di sale. Le lacrime premettero prepotentemente da dietro le ciglia e, prima che se ne accorgesse, percepì la loro carezza umida sulle guance.
- Strei? -
Myria trasalì, non si era accorta che Skjaldi, la sua cameriera personale, era entrata nella stanza.
- Strei, avete visite. -
- Fatelo entrare. - rispose subito Myria, asciugandosi velocemente le lacrime.
Essere chiamata “signora” con quel tono reverenziale le faceva uno strano effetto e non si era ancora abituata.
La cameriera si inchinò e aprì di nuovo la porta per lasciar passare l'ospite.
- Baldur? -
- E chi altri, mea strei? - le sorrise il nano, prendendo posto su una sedia di rovere addossata alla parete, - Per tutti i martelli di Gurhavat, adesso per parlarti devo pure chiedere un’udienza! Tra poco ti troverò seduta sul trono di Alabastria. -
A quelle parole, Myria scoppiò a ridere: - Detto da te lo prendo come un complimento, Baldur Pugno d’Acciaio. -
- Come fai a conoscere il mio soprannome? -
- Oh, sai, la città sarà gigantesca, ma i pettegolezzi girano, soprattutto in una casa dove la maggior parte della servitù è costituita da donne. -
Skjaldi si portò una mano davanti alla bocca per nascondere un sorriso divertito, ma Baldur le rivolse comunque un’occhiataccia, prima di consegnarle il pesante mantello. Probabilmente avrebbe aggiunto anche un insulto, se la cameriera non si fosse defilata nell’immediato. Subito dopo, anche se Myria non li aveva chiamati, fecero il loro ingresso nella stanza Farl e Fili, i due camerieri più giovani della casa, e in completo silenzio allestirono il tavolo di faggio con brocche d’argento cesellato e piatti di dolcetti al miele, mandorle e zenzero. Le pastafrolle appena sfornate spandevano un delicato profumo zuccherino nell'ambiente.
- Avete bisogno d’altro, strei? -
- No, grazie. Lasciateci soli. - disse Myria e i due si accomiatarono subito.
Quando la porta si chiuse, Baldur si afflosciò sulla sedia, le guance più rosse delle tende di broccato nell’atrio.
- Maledette oche, sempre a spettegolare stanno. -
Myria ridacchiò: - Però è stato divertente ascoltare la storia di come hai tentato di picchiare quel povero asino. Mi hanno anche riferito che… -
- Va bene, va bene, non voglio sentire quante altre cose sai. - la interruppe brusco, - Come stanno i bambini? -
- Abbastanza bene. Non hanno più gli incubi e sono riusciti ad integrarsi. - si sedette anche lei e si lisciò la gonna della sopravveste color pesca, - Melwen a volte ricerca la solitudine, ma penso sia normale. Ha perso tutta la sua famiglia, credo non le passerà mai del tutto. -
- E Zefiro, invece? Mi ha chiesto di intagliargli una spada, ma non me ne ha voluto rivelare il motivo. -
- Non ne posso essere certa, ma penso che sia tutto legato a una vecchia discussione. Zefiro stava parlando del suo futuro con Alan e, a un certo punto, gli aveva chiesto perché avesse scelto di diventare una guardia cittadina. Non ricordo esattamente cosa gli rispose Alan, ero nella stanza accanto a parlare con un’amica che si era appena sposata, però… - sospirò e si morse le labbra, le lacrime che già le inumidivano gli occhi, - Non lo so, in certi momenti non lo capisco. -
- Quello che è successo a Luthien e ad Amount-vinya lo ha cambiato. Purtroppo, la guerra costringe i bambini a diventare adulti prima del tempo. -
- Lo so. - inspirò profondamente, inghiottendo il groppo che le serrava la gola, - Tu che mi racconti? Dove sei stato? Sono giorni che non sento parlare di te. -
Baldur prese una manciata di frutta candita e la masticò per un po’, prima di rispondere: - Diciamo che sono andato in giro a cercare una persona. -
Myria rimase in silenzio qualche istante. Da quando erano arrivati, il nano era andato a trovarla spesso, quasi ogni sera, ma per un paio di giorni non l’aveva visto. Quando aveva chiesto a Nordri sue notizie, il padrone di casa era stato molto evasivo. Sapeva qualcosa, ma fino al ritorno del suo fidato amico e compagno non le avrebbe rivelato nulla. Durante le lunghe giornate passate e leggere o a parlare con le cameriere di casa, si era fatta un’idea su quale potesse essere l’obiettivo di Baldur, ma non aveva certezze. Almeno fino a quel momento.
- È stato un viaggio piuttosto faticoso, ma credo di aver trovato quel che ci serve per fare un po’ di luce su Melwen. -
- Sei riuscito a trovare un mago? -
- Più o meno, oserei dire che è stato lui a trovare me. Si chiama Nyi ed è un mago girovago. All’inizio, come tutti i lancia-incantesimi che si rispettano, non ne voleva sapere di collaborare, ma è bastato che facessi il nome della bambina per fargli cambiare idea. Chissà, forse la conosce addirittura. -
Myria trasse un respiro di sollievo. Quando l’accampamento era stato attaccato, lei, Melwen e Zefiro si erano salvati perché la figlia di Copernico, di punto in bianco, era riuscita a rendere tutti invisibili. Non sapeva esattamente come avesse fatto, era certa di non aver sentito nessuna parola magica uscire dalle sue labbra, eppure quando il soldato che li stava inseguendo era arrivato davanti a loro, si era limitato a guardarsi intorno smarrito, per poi tornare indietro. Era stato solo grazie a quella magia che si erano salvati, evitando la stessa fine di tutti gli altri sopravvissuti.
- È già in città? - domandò infine.
- Sì, arriverà a breve assieme a Nordri. Non so cdi cosa debbano parlare, ma dall’espressione di Nyi sembrava qualcosa di molto importante. - disse, rigirandosi la coppa d’argento tra le mani.
Myria sentiva che voleva aggiungere altro, così attese in silenzio che continuasse. Quando Baldur si protese verso di lei, si accorse che le lunghe trecce rossicce della barba celavano un viso tirato, segnato dalla stanchezza, che si accumulava sulle profonde occhiaie violacee.
- Mentre ero in viaggio, mi è sembrato di essere seguito. -
- Da chi? -
- Non lo so. Mi viene in mente solo un nome e spero di sbagliarmi. -
Lo sguardo di Baldur si rabbuiò, così come quello di Myria, le dita intrecciate sul grembo scosse da un lieve tremito.
- Le mura di Alabastria sono le più resistenti di tutta Esperya, i bambini non corrono alcun rischio. - la tranquillizzò il nano, posando una mano tozza su quelle della donna e stringendole appena, per confortarla, - Però non dobbiamo abbassare la guardia. Appena Nordri e Nyi arriveranno, vedremo di trovare una soluzione. Non ti capiterà più nulla, né a te, né a Melwen, né a Zefiro, vi proteggerò io. -
Myria annuì e poi lo abbracciò, affondando il viso nella sua spalla. La sua pelle sapeva di sale, sudore e erba bagnata, ma lei non ci fece caso, così come non badò all’impercettibile irrigidimento del nano. Le bastava che fosse lì, che fosse tornato. Non avrebbe sopportato di perderlo, non dopo quello che aveva fatto per salvare lei e i bambini. Nel suo cuore c’erano già troppe lapidi.
- Grazie. - esalò.
- Sono un mercenario, Myria, ma ho un cuore anch'io. - le batté una mano sulla schiena e sciolse l’abbraccio, - Non sarò un prode cavaliere come Airis, però posso assicurarti che non ti abbandonerò, almeno finché non sarò certo che tu sia al sicuro. - tossicchiò imbarazzato e si guardò intorno, - Fa caldo qui dentro, comunque. -
- È un modo come un altro per chiedermi di far portare qualcosa? -
- Per gli Avi, sì! Ho cavalcato in fretta e furia per tornare e riferirti le mie scoperte e tu nemmeno mi offri qualcosa da bere? Sei una pessima padrona di casa, lasciatelo dire. -
Ancora una volta, Myria non riuscì a trattenere un sorriso. I modi bruschi di Baldur le ricordavano le giornate ad Amount-vinya, quando il sole spandeva i suoi raggi caldi sulle pietre bianche della città e Alan veniva a cena a casa sua per tenere compagnia a lei e a Zefiro. Questo accadeva appena l’estate precedente, pochi mesi, un secolo. Eppure il nano era ancora lì, con lei e i bambini, un porto sicuro in un oceano in tempesta.
- Penso sia rimasta un po’ di birra doppio malto nelle cantine. -
Baldur si strofinò le mani con aria soddisfatta: - Ho giusto un po’ di sete, fai portare una pinta abbondante. Anzi, meglio due, una sicuramente non basta. -
- Pensi di riuscire a sostenere un discorso sensato dopo? - lo prese in giro Myria.
- Dubiti della mia resistenza, donna? -
- Diciamo che non vorrei che si aggiungesse qualche altro epiteto accanto al tuo nome. -
Il nano grugnì qualcosa tra i denti e Myria, stavolta, scoppiò a ridere di gusto, prima di suonare la campanella per chiamare la servitù.
 
- Sei sicura che sia una buona idea? -
- Perché non dovrebbe? Stiamo andando ad esplorare la parte vecchia della città, mica ci stiamo inoltrando fuori dalle mura. -
Zefiro sospirò e, ancora una volta, forse la decima da quando si erano infilati in quei cunicoli, si maledisse per aver dato retta a Melwen. Era cominciato tutto quella mattina, quando, mentre facevano colazione, la sua amica aveva proposto di fare una gita esplorativa. Ovviamente lui le aveva detto di no e lei, ovviamente, non l’aveva presa bene, ma non smaniava dalla voglia di ripetere l’esperienza della volta scorsa, quando era finito in un prato di ortiche. Purtroppo, Melwen non sapeva accettare i rifiuti. Così, appena i suoi amici si erano ritirati nelle loro case a mangiare, l’amica lo aveva raggiunto e, dopo un lungo discorso intercalato da minacce, adulazioni, preghiere e promesse era riuscita a convincerlo.
Armati, dunque, con due spade di legno, uno zainetto, una lanterna e un sacchetto pieno di focaccine, avevano corso attraverso la città, saltando gli scalini che collegavano i vari livelli e lasciandosi alle spalle l’Alabastria alta, per inoltrarsi nelle strade congestionate della parte più viva e popolosa, gremita di persone, case, botteghe e carretti trainati da muli e cavalli stanchi. Le nuvole si erano diradate e la luce abbacinante del sole accarezzava le strade, risplendendo sui ciottoli, sulle teste dei mercanti e sulle barbe bianche dei nani più anziani, assisi su sedie di legno fuori dall'uscio delle loro dimore a fumare la pipa.
Quando finalmente giunsero a uno degli ultimi terrazzamenti, Melwen tirò dritto fino a una stradina laterale che si immetteva in un’altra viuzza ancor più piccola e claustrofobica e la percorse fino alla fine. Da lì, il terreno declinava verso un ampio spazio pianeggiante che i bambini sapevano estendersi fino alle mura della città. Anche a quell'ora, era gremito di nani, uomini e donne dai visi sporchi di terra e caligine che, come formiche, facevano avanti e indietro dalle gallerie. Melwen si fermò a guardarli, nascosta all'ombra dell'ultima casa, le sopracciglia corrucciate e lo sguardo attento di chi cerca di fare mente locale, mentre Zefiro attendeva sue istruzioni. Nessuno, nemmeno i suoi amici, potevano affermare di conoscere bene le miniere di Alabastria e, persino tra i minatori più anziani, erano davvero pochi quelli che sapevano orientarsi con facilità in quel labirinto di cunicoli e gallerie. Aveva sentito dire da Nordri che i giacimenti di ferro erano stati il motivo che aveva spinto i nani nei tempi remoti a buttare le fondamenta della città proprio su quella collina e il bambino non aveva motivo di dubitarne, considerando che i più grandi mastri armaioli risiedevano proprio lì, ad Alabastria. Anche Lotka e Alcarin avevano delle vene metallifere, ma da quello che sapeva era la roccaforte nanica del nord a mantenere il primato.
- Bene, noi dobbiamo andare di là. - Melwen si inginocchiò e, dopo aver lanciato un'occhiata circospetta a destra a sinistra, gli indicò un punto vicino a una galleria, - Dobbiamo passare oltre quel tunnel. Ne seguiranno altri due o tre e poi ci sarà uno spiazzo desolato dove ci sono alcuni capanni degli attrezzi e vecchie carrucole. Nascosto dietro una pila di legno, ci dovrebbe essere quello che interessa a noi. -
- Ma... non sarà sorvegliato? Se quella galleria conduce alla città vecchia, ci sarà qualcuno che controlli che nessuno ci vada. -
- Di solito, a quest'ora, le guardie vanno a mangiare, quindi in realtà il passaggio dovrebbe essere libero, ma qualora le trovassimo... - si mordicchiò l'interno della guancia e si grattò l'orecchio arricciando le labbra, - Ci inventeremo qualcosa. Dobbiamo essere positivi. -
Zefiro annuì, ma in cuor suo sperava che qualcuno li fermasse. Ovviamente, la fortuna non fu dalla sua parte. Melwen, non sapeva come, lo guidò fino al tunnel, dapprima passando per le stradine della città, poi lungo un sentiero di terra battuta che li condusse nello spiazzo dove, a parte loro e dei merli accoccolati nel loro nido, non c'era nessuno né lì intorno, né davanti all'entrata della galleria. L'unico ostacolo che si frapponeva tra loro e la discesa nella città vecchia, era una porta di legno marcita, chiusa da spesse catene, ma che era bastato un semplice movimento della mano di Melwen perché il grosso lucchetto si aprisse.
“Perchè tutte a me...”
- Sei davvero sicura di quello che stiamo facendo? - domandò incerto Zefiro, - Ci sarà un motivo per cui nessuno viene più qui, non credi? -
“Anche se non mi spiego perché non si siano dati il cambio per la guardia.”
- Non ne ho idea e sinceramente non mi interessa. Insomma, pensaci: ci stiamo inoltrando nelle viscere della terra per vedere la vecchia Alabastria. Magari troveremo qualche tesoro! - cinguettò contenta Melwen, che avanzava davanti all'amico con la lanterna accesa, - Non sarebbe così strano. Tutti gli eroi, quando vanno ad esplorare i ruderi di una qualche antica e prospera città, trovano gioielli, diademi, spade magiche… -
- Vorrei farti presente che, l’ultima volta che hai detto così, abbiamo trovato soltanto le carcasse di un gatto e di un cane mummificati. E tu hai tentato di convincermi che fossero i resti rispettivamente di un unicorno e di un cucciolo di drago. -
Melwen gli rivolse uno sguardo infuocato: - Era buio, non vedevo bene, mica sono un elfo! -
- Hai continuato a ripeterlo anche il giorno dopo. - precisò.
- Beh, non è colpa mia se i disegni anatomici sui libri sono tutti uguali. Ho sempre sostenuto che i maghi dovrebbero affidare la tiratura dei loro tomi ai giovani che hanno ancora gli occhi buoni. -
Il bambino sbuffò, roteando gli occhi. Era impossibile spuntarla quando Melwen voleva avere ragione.
- Va bene, va bene. - si passò una mano tra i capelli e sospirò rassegnato, - Hai per caso una mappa della città sotterranea? Vorrei evitare di perdermi. -
- Ho anche di più. Mentre girovagavo per la biblioteca di Nordri, ho trovato un libro vecchissimo dove non c’era un disegno decente, ma ho notato delle didascalie a piè di pagina molto interessanti. -
- Capisci il dwarvish antico? -
- Più o meno. Mio… mio padre mi aveva insegnato i rudimenti della lingua. -
Quell’ultima frase le rotolò fuori dalle labbra in un sussurro strozzato e Zefiro sentì l’impellente bisogno di abbracciarla, ma si trattenne. Doveva essere lei a cercarlo e, anche se era straziante vederla in lacrime, non poteva fare altro che trasmetterle conforto con la sua presenza. Fino a quel momento aveva preferito lasciare le cose come stavano, non aveva mai provato a insistere né a parlare di quello che era successo. Ricordava ancora i discorsi vuoti che sua madre e Alan gli avevano propinato per consolarlo, quando aveva appreso che suo padre non sarebbe più tornato. Adesso, a distanza di tempo, capiva quanto si erano sentiti impotenti vedendolo chiudersi in se stesso, nel suo dolore, senza poter fare nulla se non aspettare.
Rimasero in silenzio per un lungo minuto. La pietra, resa scivolosa dell’azione erosiva del tempo e dell’acqua che sgocciolava dal soffitto, era stata invasa dal muschio e da una pianta rampicante simile all'equiseto i cui steli si allungavano fino al soffitto, costituendo una ragnatela fitta e impenetrabile quasi come il buio umido che li avvolgeva man mano che proseguivano. Mentre continuavano la loro discesa, con la scusa di evitare brutte cadute, Zefiro le strinse la mano, intrecciando le loro dita. Ci fu un momento in cui temette che la sua amica lo avrebbe respinto, ma poi i loro palmi aderirono e una sensazione di sollievo lo pervase.
Proseguirono per un tempo che Zefiro non seppe calcolare. Potevano essere ore o minuti, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ombre danzavano sulle pareti di roccia, allungandosi e appiattendosi in un ondeggiare frenetico che ricordava quello dei tentacoli di un mostro marino. La luce della lanterna si spandeva in un cerchio aranciato attorno a loro, riuscendo appena a squarciare lo spesso velo nero che li circondava come un sudario. Girarono a destra, poi a sinistra, seguendo un percorso che solo Melwen sembrava conoscere. Più di una volta, la lanterna disegnò il profilo di alcune rune incise nella pietra, segni che Zefiro interpretò come delle specie di antiche indicazioni. A un certo punto, infilarono una galleria che terminava con una rampa di scale che si approfondava nell'oscurità. Con il cuore che batteva a mille, Zefiro sfiorò con la mano libera il profilo della spada di legno: se mai si fossero imbattuti in un cane randagio, si sarebbero potuti difendere.
- Quanto pensi che manchi? -
- Non molto. -
La voce incerta di Melwen suonò ben poco convincente, ma il bambino decise di non insistere. Prima o poi, si disse, sarebbero arrivati.
“Tutte le scale portano da qualche par…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che dovette fermarsi di colpo per non andare a sbattere contro la sua amica. Grugnì contrariato, ma qualsiasi imprecazione gli morì in gola, soffocata da un sussulto stranito.
Davanti a loro si estendeva una grande piazza ortogonale, circondata dai contorni di quelle che Zefiro intuì essere le vecchie abitazioni di Alabastria. Al centro, circondata da massi e ricoperta da una ragnatela di rampicanti, giaceva la statua bronzea di Gurhavat, Dio Artigiano, creatore dei nani.
- Oh dei, Zefiro, ma è meravigliosa! - l'esclamazione emozionata di Melwen rimbalzò sulle pareti di pietra, mentre si addentrava nella piazza tenendo alta la lanterna, - Questa doveva essere la piazza del mercato, quindi lì, da qualche parte, ci dovrebbe essere il quartiere dei pellicciai e degli armaioli. Chissà se è rimasto qualcosa, magari una spada o uno scudo con il primo stemma… -
- Ferma, ferma, ferma! Stai parlando troppo in fretta e io non sto capendo. Siamo venuti qui per cercare qualche vecchio cimelio? -
- No, non proprio. Tieni la lanterna, ti faccio vedere. -
Zefiro obbedì. Melwen poggiò la borsa a terra, tirò fuori un libro dalla copertina spessa e lo aprì. Le pagine in pergamena erano sottilissime e ingiallite dal tempo. Illuminate dalla fievole luce della lanterna, scorrevano frusciando sotto le dita delicate di Melwen, dando l’impressione che si sarebbero potute sbriciolare da un momento all’altro. Il cinguettio eccitato della sua amica lo avvisò che aveva trovato ciò che cercava.
- È la mappa? -
- Sì. - accarezzò il disegno con un sorriso sognante, passando i polpastrelli sul tratto sfumato dell’inchiostro, - Vedi questa casa? Ecco, leggendo la didascalia e qualche paragrafo più in là, ho scoperto che corrisponde alla biblioteca personale del re. -
- Aspetta, quella che si dice contenere pergamene con incantesimi per distruggere intere città? -
La bambina alzò gli occhi al cielo: - Quelle sono semplicemente dicerie, per di più infondate. I nani non sono mai stati amanti della magia, men che mai di quella proibita. Solo uno sciocco crederebbe davvero a una storiella del genere. -
Zefiro storse le labbra e incassò in silenzio.
- In ogni caso, - riprese Melwen, - l’autore di questo libro sostiene che il re dell’epoca, tale Urgavat V, teneva una sua personale collezione di libri storici. In particolare dovrebbe possedere una delle versioni più belle e preziose della Mablung Ringëril. -
- Il libro sacro degli elfi? E perché un nano dovrebbe tenere quella roba nella sua biblioteca? -
- La tua ignoranza a volte è imbarazzante. -
- Scusami, sono solo un povero guerriero zuccone. Io sono il braccio e tu la mente, ricordi? -
La bambina sbuffò divertita: - Non è una storia che conosco molto bene, ma papà mi ha raccontato che all’inizio tutte le razze avevano un unico libro di riferimento. Poi, dopo la guerra del centesimo solstizio e la firma dei vari trattati di pace, questa unità religiosa è andata perduta, anche se i nomi degli dei e i testi di riferimento non hanno subito sostanziali modifiche. Ora, non possiamo spingerci fino al palazzo reale, è troppo all’interno della città e non penso sia una buona idea, viste le condizioni in cui versano le case qui intorno. -
- Perché spingerci fino alla biblioteca sarebbe meno pericoloso? -
- Ci stavo arrivando, se la smettessi di interrompermi… -
- Scusami, vai pure avanti. -
- Dicevo… la biblioteca è molto più vicina. Basterà oltrepassare la piazza e proseguire sempre dritto lungo la strada. Se ci teniamo al centro, dovremmo evitare qualsiasi problema. - dichiarò decisa, - Allora, che ne pensi? -
Zefiro si mordicchiò le labbra nervoso.
- Non lo so, non mi sembra comunque una buona idea. Insomma, pensavo fossimo venuti qui per vedere qualche muro crollato, invece adesso mi dici che vuoi andare a esplorare un’antica biblioteca dove pensi di trovare chissà che libro. Ma poi, se è davvero così prezioso, non dovrebbero averlo già trovato? - le fece notare.
- No, altrimenti sarebbe conservato da qualche parte. Ascolta, prometto che, se non troveremo niente di interessante o vedessimo qualcosa si sospetto, scapperemo a gambe levate. Però non rinunciamo a quest’occasione, proviamoci almeno. -
L'amico esitò. Da una parte era curioso di inoltrarsi nelle rovine della città e, anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti a Melwen, il pensiero di andare alla ricerca di questo prezioso libro lo elettrizzava; dall’altra aveva paura di quello che poteva nascondersi nelle lunghe ombre dei palazzi distrutti. Certo, probabilmente, a parte loro e la muffa, non c’era niente di vivo lì sotto, ma non riusciva a non sentirsi intimidito. Strinse l’elsa della spada per farsi forza e respirò a fondo.
- Va bene, ma alla prima minaccia… -
- Sapevo che avresti accettato! - esclamò briosa Melwen, - Dai, su, muoviamoci. La curiosità mi sta mangiando viva. -
Oltrepassarono la piazza e, dopo aver superato un arco trionfale crollato, si inoltrarono lungo una strada silenziosa, costellata di detriti e macerie distrutte.
Zefiro si guardava intorno con circospezione, la mano serrata sulla sua arma di legno. Non sapeva da quanto tempo la città fosse stata abbandonata, ma gli steccati degli orti mangiati dai tarli e le ragnatele di crepe che ricoprivano i muri delle case gli suggerivano che fossero passati molti, moltissimi anni. Gli edifici sembravano ammassarsi gli uni sugli altri, blocchi di pietra pieni di fenditure e crolli che non avevano conservato nemmeno l’ombra dell’eleganza e maestosità di un tempo. Un silenzio denso come melassa aleggiava intorno a loro, permeando l’aria satura del soffocante odore di chiuso e morte. Zefiro rabbrividì non appena scorse le ossa di una mano schiacciate da un blocco di marmo e non riuscì a trattenere un sussulto quando rischiò di calpestare un teschio spaccato, fin troppo piccolo per appartenere ad un adulto.
“Cosa è successo qui?”
Come se gli avesse letto nel pensiero, Melwen sussurrò: - Tempo fa, i nani vivevano sottoterra. Un giorno una forte scossa di terremoto fece crollare tutto. Non ci sono stati moltissimi morti, però… -
- Però nessuno è voluto tornare dopo. -
La bambina assentì e scavalcò i resti di una colonna.
- Quindi questa città, la vecchia Alabastria… è un cimitero? -
- Non ufficialmente. -
Zefiro deglutì e affrettò il passo.
Passarono davanti a un edificio sventrato, lasciandosi alle spalle una piazza dove, sotto le tracce nere degli incendi, si celavano delle profonde fenditure, squarci che sfregiavano la pavimentazione simili alle artigliate di un mostro. Melwen osservò meravigliata la facciata divorata dalle fiamme di un altro edificio, che spiegò al suo compagno essere stata la Casa del Ferro, una delle più grandi e famose armerie di tutta Esperya. Poi rimase catturata dai bassorilievi in avorio che decoravano il pozzo di un patio scoperto. Di tanto in tanto, un’ombra di turbamento le offuscava lo sguardo quando nei suoi occhi si rifletteva l’immagine delle ossa bianche e degli scheletri dei morti insepolti, distrutte, frantumate.
Nel momento in cui scorse il profilo imponente della biblioteca, Zefiro trasse un respiro di sollievo. Si affiancò a Melwen e, senza nessuna esitazione, la prese per mano. Vedendo l’espressione spaesata della bambina, un sorriso incerto gli arcuò le labbra.
- È solo per precauzione. Tu sei lenta a correre, se qualcosa ci attaccasse ti trascinerei via più velocemente. -
In risposta ricevette un’occhiata non molto convinta, ma alla fine optò per non dire nulla. Salirono i tre scalini che li separavano dall’entrata e, con una lieve spinta, Melwen aprì la porta. Fece un solo passo all’interno prima di bloccarsi, mentre il suo mormorio sorpreso, assieme al cigolio dei vecchi cardini, si perse nell’aria satura dell’odore di carta e inchiostro.
Davanti a loro si apriva un’ampia stanza poligonale, con alte scaffalature che si innalzavano verso l’alto, confondendosi nell’ombra del soffitto a cassettoni. Un antico lampadario sormontava il pavimento a mosaico, dove un tempo le tessere componevano le due asce di ferro e lo scudo di legno, simbolo e stemma della città di Alabastria. Il profilo dei tavoli, carichi di libri dalle copertine rilegate in cuoio e di pergamene arrotolate, si intravedeva appena e la luce della lanterna bastava giusto ad illuminare uno stretto cerchio attorno a loro.
- Accidenti… - Melwen si guardò intorno meravigliata, - Ti rendi conto del posto in cui ci troviamo? Delle conoscenze che sono nascoste qui dentro? -
Zefiro annuì distrattamente, troppo concentrato a perlustrare la zona in cerca di eventuali pericoli. Intravide alcuni mozziconi di cera a pochi passi da lui. Di certo non era una mossa saggia aggirarsi in quel luogo pieno di carta secca e facilmente infiammabile con delle candele.
“Dovremo accontentarci di quello che abbiamo.”
Seguì Melwen, che si era infilata in mezzo ai corridoi tra le scaffalature.
- Secondo te che ore sono? - le domandò a bassa voce.
- Non lo so e adesso non mi importa. - prese dei volumi e, dopo aver dato una rapida occhiata ai titoli, li impilò per terra, - Tu guarda se c’è qualcosa d’interessante qui in mezzo, magari qualcosa che possiamo portare su. -
- Tu… tu vuoi davvero portare via qualcosa da qui? Sul serio? -
- Mi sembra ovvio. - Melwen parve stupita.
- Ma… ma non sarebbe una specie di profanazion… -
- Ascolta, già per il fatto che siamo venuti qui è come se avessimo profanato questo luogo. Se ci fossero dei fantasmi o delle presenze, penso che si sarebbero già manifestate, no? -
- Potrebbe essere, non ho mai incontrato un fantasma. -
La bambina sbuffò spazientita: - Allora muoviamoci. -
Zefiro notò un tremolio nella sua voce, che gli fece intuire che quella spavalderia era solo una maschera: Melwen aveva molto più coraggio di lui, ma quel luogo la metteva molto più in soggezione di quanto volesse far vedere.
Con un sospiro, aprì il primo libro e cominciò a sfogliarlo. Era scritto in dwarwish antico e la maggior parte delle lettere erano state cancellate. Riuscì a dedurre che era una biografia di un qualche vecchio re solo perché trovò una cronologia in fondo, accompagnata da vari ritratti di un uomo basso e tozzo che veniva incoronato davanti a una folla di altri uomini bassi e tozzi.
Andò avanti così per un po’, con Melwen che continuava a mettergli libri in mano e lui che tentava di capire di cosa parlassero. La maggior parte erano scritti in lingue che non conosceva, idiomi così arcaici da costituire solo le radici fondamentali dell’elfico, del dwarwish e della lingua comune attuale. L’unica cosa che poteva fare era guardare le figure o i disegni per cercare di intuire quantomeno l’argomento di cui trattavano. Più volte tentò di far notare a Melwen che sarebbe stato meglio se fosse stata lei a controllare i volumi, ma la bambina era troppo assorbita dalla sua ricerca per dargli realmente retta. Così, Zefiro si rassegnò a proseguire quell’infruttuoso lavoro, anche se, in cuor suo, era contento di vedere la sua amica così piena di entusiasmo, di quell’allegria contagiosa e trascinante che aveva conosciuto a Luthien.
Durante tutta l’ora successiva si spostarono spesso, scivolando da un corridoio all’altro in completo silenzio. Controllavano ogni scaffale, scandagliando con attenzione tutti i volumi, dapprima quelli con le pagine decorate in foglia d’oro e la copertina istoriata con pietre dure e gemme preziose, in seguito si limitarono a quelli con il titolo scritto con le lettere allungate ed eleganti tipiche della lingua elfica.
Quando alla fine Melwen cominciò a guardare i tomi che ingombravano uno dei tavoli ancora in piedi, lo sguardo di Zefiro venne calamitato da un libricino che giaceva sotto la semisfera di un mappamondo rotto. Posò la pergamena che aveva in mano e lo raccolse da terra, sfogliandolo rapidamente fino a metà. Osservò il disegno di un castello di cristallo, dipinto sullo sfondo di un cielo terso solcato da un arcobaleno. Sotto di esso, spiccava il verde acceso di un giardino in fiore, dove fate e folletti vestiti con abiti colorati e sgargianti giocavano, rincorrendosi in un labirinto di siepi e rose.
“Ma che bello! Che sia un libro di favole?”
Con incredibile delicatezza, girò la pagina con la punta del dito. A fianco di un lungo paragrafo scritto con una calligrafia fitta e incomprensibile, trovò un altro disegno, stavolta di un salone in festa, dove gli stessi nobili che erano stati rappresentati prima ballavano sotto un luminoso soffitto a volta. I loro visi, tratteggiati con una minuzia quasi maniacale, mostravano delle espressioni felici, divertite. I due troni in fondo alla sala erano vuoti, così come lo sguardo dell’uomo che osservava le coppie ballare da una balconata in penombra.
- Che leggi? -
La voce di Melwen lo spaventò. Era arrivata da dietro senza che lui se ne accorgesse.
- N-niente, un semplice libro di favole. - col cuore che rischiava di scoppiargli nel petto, si girò e glielo porse, - Ho solo guardato due pagine, però, a giudicare da quello che ho visto, non credo si tratti di quello che stiamo cercando. -
- No, infatti, ma è interessante. - aprì il libro alla prima pagina e lesse il titolo, - Landiel’id Oberon an Titania… sì, questo è il libro che racconta la tragica storia d’amore del re e della regina delle fate. -
- Ah, sì, ho capito, quello dove… -
Non fece in tempo a finire la frase che tutta la struttura tremò e un paio di scaffali caddero a terra con un rumore assordante. Alcuni pezzi del soffitto precipitarono al suolo, sbriciolandosi all’impatto. Seguì un’altra scossa e un’altra ancora e piano piano l'ambiente intorno a loro cominciò a collassare su se stesso.
Senza pensarci due volte, Zefiro afferrò la lanterna e Melwen e si mise a correre verso l’uscita. Non sapeva cos’era accaduto, né chi o cosa avesse generato il terremoto, ma dovevano andarsene. Infilò la porta e saltò gli scalini che lo separavano dalla strada dissestata, per poi darsi lo slancio e gettarsi in una folle corsa verso l'uscita. La terra sotto i loro piedi continuava a tremare, così come i colonnati, le case, gli archi. In un istante tutto iniziò a cadere a pezzi.
- Melwen! -
Un pezzo della facciata di un palazzo per poco non li schiacciò. Melwen cacciò un urlo e Zefiro la strattonò con ancora più forza.
- Non ce la faccio! - gridò la bambina.
La sua voce era spezzata dal pianto, copiose lacrime ora le rigavano il viso. Zefiro strinse i denti e aumentò l’andatura, i muscoli dei polpacci tesi per lo sforzo, il fiato che gli bruciava in gola. Saltò un masso, ne evitò un altro, tirò via la sua compagna prima che il capitello di una colonna le crollasse addosso. Dovevano farcela, la piazza del mercato era poco più avanti, già riusciva a vedere il profilo della statua di Gurhavat in lontananza.
In quel momento, la facciata di un palazzo cedette e i detriti travolsero quello adiacente. Nell’aria polverosa, Zefiro distinse nitidamente quell’enorme massa di pietra, mattoni e legno che si piegava, chiudendosi lentamente sopra di loro. Un attimo dopo, una luce accecante lo avvolse.


  
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