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Autore: Tsukuyomi    01/06/2009    6 recensioni
Salve a tutti! Finalmente prendo coraggio e pubblico.
Questa fanfic mi ronza in testa da tanto di quel tempo che ormai si scrive da sola.
Per il momento avrete sotto agli occhi dei futuri Gold Saint, ancora bambini e innocenti (più o meno), alcuni ancora non si conoscono e altri sì, alcuni sono nati nel Santuario e altri no, alcuni dovranno imparare il greco e, di qualcuno, non si sa per quale recondito motivo, non si conosce il nome. Spero che apprezziate. La storia è ambientata ai nostri giorni, per cui, le vicende conosciute avranno luogo nel futuro.
Genere: Comico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 04 «Buongiorno ragazzi. Sempre indaffarati, eh? » trillò il gigante mentre si avvicinava ai compagni tenendo per mano il nuovo arrivato.
«Ciao João, come sempre! » rispose il ragazzo.
«Non è per caso che è avanzato qualcosa da mangiare per questo piccolo? »
«Un altro bambino? Due in una giornata, si stanno dando da fare con i reclutamenti. Oggi il Gran Sacerdote e il suo vice hanno pranzato con un bambino biondo biondo. Sembrava un bambolotto da quanto era bello. » mentre finiva la frase, la donna si allontanò verso le cucine per verificare che fosse rimasto qualcosa da mangiare.
«Sì, lo conosco. Sono andato io a prenderlo in Svezia. Non siamo ancora riusciti a scoprire il suo nome. »
«E questo piccolo chi è? » chiese incuriosito l’uomo.
«Shura. Saluda chico»
«Hola» alzando la mano
«Yàsu Shura» ricambiando il saluto.
João si era reso conto che il nuovo saluto aveva lasciato il piccolo spiazzato, si guardava intorno con aria interrogativa e lo fissava come se gli chiedesse chiarimentii. Gli spiegò che l’uomo con cui parlava aveva ricambiato il saluto, con una semplice frase.
«Yàsu es lo mismo que hola, en griego».
«Yàsu» ripetè lo spagnolo annuendo alla spiegazione del gigante e rinnovando il cenno.
«Allora – continuò il gigante – C’è qualcosa da mangiare per questo pargolo? Non ha ancora mangiato oggi e ha sprecato un mucchio di energie per morsicare Dioskoros.»
«Allora è lui la belva di cui parlava! Ma se è un angioletto. Ma dove lo ha fatto viaggiare quella bestia? E’ tutto sporco, povera creatura. Che sfortuna che ha avuto a fare il viaggio con quell’idiota. »
«Già, basta conoscere Dioskoros per immaginare il modo in cui  l’avrà trattato. E se tratti qualcuno come una bestia, questo qualcuno si comporterà come una bestia. Soprattutto se è un bambino di sei anni. »
«Il solito cazzone, insomma»
«Sì, il solito. » confermò il portoghese.
La  donna col volto coperto da una maschera si avvicinò a Shura e João portando con sé dei panini.
«Mi spiace João, non c’è altro. Tra un po’ verranno per iniziare a preparare la cena e potrò rimediare qualcos’altro. – porse i panini al compagno - Fai una cosa, portalo dietro le arene di combattimento degli apprendisti, c’è un grosso pesco pieno di frutti, non gli dispiacerà mangiarne qualcuno.»
«Grazie Akylina»
«Gracias señorita»
«Oh, che carino. Tieni – mentre porgeva al bambino una caramella portò l’indice dell’altra mano davanti al naso -  non dirlo a nessuno»
«Gracias» sollevò le braccia per tenerla ferma e stampò un grosso bacio su quella maschera tanto fredda.
«Oh oh! Akylina! Hai fatto colpo – la prese in giro João – qualcuno si è innamorato! »
Shura arrossì tremendamente, capì che si parlava di lui.
«Siete solo invidiosi perché a sei anni è più uomo di voi due messi insieme. E scommetto che tra qualche anno farà strage di cuori, mentre voi resterete buttati in un angolo a rosicchiarvi le falangi. – si inginocchiò e abbracciò forte il bambino che ricambio velocemente e con la stessa intensità – Ignorali Shura. »
«Non capisce quello che gli dici. Però capisce che se una donna ti abbraccia devi ricambiare di corsa, prima che lei cambi idea» João si divertiva a punzecchiare la giovane.
«Visto João? E’ arrivato un nuovo sfidante! »  disse l’altro uomo ridendo, continuando il gioco ormai iniziato.
«Già! Ma come dargli torto? »
«I bambini sono fortunati, ricevono un sacco di coccole da tante belle donne e non c’è bisogno che promettano qualcosa. Voglio tornare bambino così Akylina abbraccerà anche me» Leurak era partito. Il gioco sarebbe durato ore.
«Leurak, scommetto che eri antipatico anche da bambino. » lo rimbrottò lei.
«Dai Akylina, sto giocando. E poi secondo me sei anche brutta. »
«Visto? Simpatico come una porta in faccia. E poi mi hai già vista in faccia! Non fare il finto tonto. »
«Dai ragazzi, basta ora. Qualcuno deve mangiare. » fortunatamente João riuscì ad interrompere il battibeccare dei due amici, sperando che la pausa durasse abbastanza per far mangiare un boccone al bambino.
«Aspetta João, devi tradurmi una frase in spagnolo in modo che possa dire una cosa al bambino. »
«Se posso, non è la mia lingua. »
«Lo so, tu sei portoghese, no? Ma forse sei in grado di aiutarmi. Io ti dico la frase e tu me la traduci all’orecchio, in modo che non la senta da te. Ok? »
«Proviamo. »
«…»
«Posso aiutarti.» sorrise João avvicinandosi alla compagna d’armi e cominciando a bisbigliarle all’orecchio. Immediatamente lei cominciò a parlare al bambino.
«No te pares delante de los obstáculos, las estrellas te ayudaran en tu camino. Buena suerte. Mi avrà capito? – rivolgendosi all’amico – ho paura di avere una pessima pronuncia. »
Il bambino fece un passo avanti e la guardò. Disse poi, con tono solenne:
«No he entendido tus palabras, pero espero que no te defraudarè. »
«Che ha detto? »    
«Che non ha capito un tubo. Ma spera di non deluderti»
«Sono sicura che riuscirà a diventare cavaliere João, me lo sento» Akylina era sicura delle sue parole. Sapeva nel profondo del suo cuore che quel bambino era speciale.
«Lo spero per lui. Noi andiamo a mangiare ora. Ciao e buon lavoro»
«Ciao»fu la risposta in coro di Akylina e Leurak.
«¡Vàmonos chico! »
«¡Vale! »
Prima di voltarsi a seguire l’omone, Shura si voltò a guardare quei ragazzi che riprendevano pigramente a lavorare e cercò di riprodurre gli stessi suoni di João:
«Sciao buono lavor» e lo rincorse.

Akylina e Leurak scoppiarono a ridere per la simpatia mostrata dal bambino nel suo maldestro tentativo di salutarli nella loro lingua.
«Certo che è proprio quello che noi in Mongolia chiamiamo ‘simpatica canaglia’! »
«Diciamo così anche qui in Grecia, Leurak.»
«Davvero?» si finse sorpreso.
«Sì, e lo sai bene»
«Non si può mai scherzare con te, stronza!»
« Ante gamisù!» rispose lei facendo la linguaccia che non poteva essere vista dal compagno, ma lui aveva imparato a conoscerla e sapeva quali smorfia facesse l’amica dal modo in cui si inclinava la maschera.
«Sì, stronza - e le restituì il verso – senti un po’, tanto per non perdere l’abitudine a farmi gli affari tuoi e del prossimo in generale, che hai detto al bambino? »
«Perché ti interessa?»
«Te l’ho detto, per non perdere l’abitudine.»
«Non te lo dico.»
«Ti vergogni?»
«Ma sei scemo!? – arrossì violentemente, ma lui non poteva vederla  – Di cosa dovrei vergognarmi?»
«Di quello che ti sei fatta tradurre. Ammettilo.»
«Volevo solo parlare al bambino»
«Sisì, dicono tutti così. La verità è che ci stavi provando con João»
«Leurak, che fai, studi da Dioskoros?»
«Non c’è bisogno di offendere, all’amore non si comanda.» dovette abbassarsi per schivare una sedia scagliatagli contro.
«Vedi che sono andato dritto a bersaglio? – salì su un tavolo brandendo la scopa come una spada – niente sfugge al grande Leurak»
«Grande tra una ventina di centimetri.»
«Vedi? Sei acida come uno yogurt al limone.»
«Non sono acida.»
«Sì che lo sei. Ogni volta che lo sei mi rinfacci di essere basso, e inoltre, dalla frequenza con cui mi fai notare la mia incredibile altezza direi che riesci ad essere acida quasi 23 ore al giorno.»
Akylina ignorò le parole dell’amico, si sentiva strana da qualche tempo e neanche la comicità dell’amico riuscivano a destarla da quello strano stato in cui era caduta. Disse solo una frase, a bassa voce.
«Hai iniziato tu.»
«Dai, scusa. E’ che mi diverte paurosamente prenderti in giro. Mi dici cosa ti sei fatta dire?»
«Scusa tu.»
«Allora, me lo dici o devo pregarti in qualche lingua dimenticata?»
«Gli ho detto di non fermarsi mai davanti agli ostacoli e che le stelle lo avrebbero aiutato a superarli. Infine gli ho augurato buona fortuna.»
«Ma perchè non gli hai detto solo buona fortuna? Potevi auguragli di divertirsi al limite.»
«Non credo che avrà mai l’opportunità di divertirsi. E’ un prescelto. Non avrà vita facile.»
«Lo so anche io questo, ma perché fasciargli la testa prima che se la rompa?»
«E’ bene che sappia a cosa va incontro»
«Non lo metto in dubbio, ma è appena arrivato al Santuario e il suo arrivo non è stato dei migliori. Fortuna che non ti ha capito. Secondo me pensa di essere finito in un manicomio.»
«Non dimenticherà quello che gli ho detto. Lo capirà in seguito.»
Leurak capì. Doveva mandare avanti la tesi dell’amica se  voleva sentire almeno una risata.
«Dai Akylina. Non essere triste. Lo capirà e sarà un grande uomo, un eroe. Le sue imprese finiranno nei libri di storia e tu potrai vantarti di essere stata baciata dal grande eroe, dal nuovo Eracle! Non è mica da tutti!»
«Non sono triste.»
«Infatti ti stai piegando in due dalle risate per le cazzate che ti racconto. Dai, sbrighiamoci a finire qui. Poi ti porterò in città e ti offrirò un gelato. Niente al mondo fa tornare il buon umore come un bel gelato!»
«Leurak, ci vuoi provare con me?»
«E come potrei, tu ormai sei fidanzata con un eroe! Non potrei mai reggere il confronto, per quanto sia molto più bello, simpatico e incredibilmente più alto di lui.»
«Peccato»
«Eh già … aspetta, ci staresti se ci provassi?»
«Lanciami la sedia»
«Donna! Rispondi!»
La ragazza iniziò a ridere, ignorando i lamenti del collega che era riuscito nel suo intento. Ripresero a lavorare continuando a scherzare tra loro. Si conoscevano da qualche anno ormai. Erano coetanei. A differenza di molti, loro due non parteciparono mai a nessun torneo di assegnazione di armatura. Avevano bisogno di sentirsi utili, e lo erano. Erano conosciuti in tutto il Santuario e apprezzati da tutti. Tra i due si era creata una forte amicizia e generalmente il loro ottimismo, anche davanti alle situazioni più tragiche, risollevava l’umore di tutti. Legarono in particolare con João e il suo coinquilino irlandese, con i quali cenavano spesso o comunque passavano delle serate piacevoli. Tutti sapevano che da lì a pochi anni Atena si sarebbe reincarnata e questo significava che il tempo dei giochi sarebbe finito. Avrebbero dovuto combattere anche loro, assieme ai futuri guerrieri dorati. Loro si auguravano solamente che tutti i bambini che arrivavano lì avrebbero avuto l’occasione di combattere e soprattutto di tornare a casa, vincitori o vinti, e poter condurre anche se per poco tempo delle vite apparentemente normali.
Akylina e Leurak era arrivati al Santuario seguendo amici che inseguivano la leggenda di Atena. Avevano semplicemente colto l’occasione per visitare la Grecia lui e Atene lei.
Leurak aveva 17 anni quando arrivò al Santuario tre anni prima. Si era introdotto di nascosto seguendo un ragazzo coi capelli rossi. Quando scoprì di essersi intrufolato in un luogo impregnato di mistero e leggenda chiese il permesso di restare, dimentico degli amici e di tutto il resto. Akylina arrivò l’anno successivo. Appena maggiorenne colse l’occasione di recarsi ad Atene e vedere il Partenone. Disse ai genitori che sarebbe rimasta via solo un fine settimana, ma non tornò mai più a casa. Aveva incontrato João che giocava con due gemelli fuori dal Santuario e rimase a guardarli. Quando loro si allontanarono per rientrare, lei li seguì come  in trance, e come Leurak espresse il desiderio di restare lì. Si rivelarono entrambi ottimi soldati.

-

All’ombra del gigantesco ulivo il piccolo svedese sognava la sua terra e i suoi genitori. I ricordi più dolci che aveva gli si manifestavano sottoforma di sogni.
Dormiva un sonno beato, turbato solamente da piccoli scatti muscolari.
Sognava come se stesse rivivendo i momenti che tanto lo avevano reso felice. Le tenere carezze materne e i sonori baci paterni.
Correva inseguito dai genitori per la calda e umida serra, costruita con tanti sacrifici, tra le decine di piantine esotiche che sembravano non voler crescere per timore del freddo. Un attimo dopo riposava tra le braccia dei genitori, l’attimo successivo ancora ingaggiava una finta lotta col il padre che gli sorrideva.
Aiutava poi il padre a piantare i semi nella terra, avendo cura di non sporcarsi, cercava di spostare i grossi sacchi di terriccio finendo sempre con le gambe per aria. Non demordeva e ritentava.
Il sogno era vivido. Sorrideva mentre Hypnos continuava a tenerlo tra le braccia, lo cullava e lo esortava a continuare nella visione.
Ma i sogni dolci lasciavano irrimediabilmente spazio agli incubi.

Si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte. Una sensazione di oppressione gli pesava sul torace e il cuore pompava a tutta forza. Dormiva dalla vicina di casa quella notte. Lui e i genitori erano stati quasi adottati da quella buffa signora alla quale la vita non aveva concesso figli e che l’aveva lasciata sola troppo presto. Il marito era morto da tanti anni. Quando la giovane famigliola si trasferì nella casetta accanto alla sua storse il naso. Immaginava già il rumore che l’avrebbe tenuta sveglia e che l’avrebbe disturbata. I bambini piccoli sono  troppo rumorosi. Non si mostrò gentile verso di loro.
Un giorno, il piccolo si rese conto di essere osservato dalla donna, mentre giocava in giardino. Era estate e le rigide temperature invernali avevano lasciato spazio al tiepido sole di luglio. Si avvicinò al piccolo steccato che separava le due proprietà.
«Ciao signora, perché sei arrabbiata?»
La donna sussultò nell’udire il bambino che le rivolgeva la parola, ma continuò nel suo ostinato silenzio e gli volse le spalle. Il piccolo non demorse, si fiondò in casa e prese una rosa da un vaso in cucina, sapeva che la mamma non lo avrebbe sgridato per quel gesto. Tornò di corsa dalla signora, ma lei era tornata in casa. Non si perse d’animo e si fece strada nel giardino fino ad arrivare alla porta d’ingresso. Bussò e quando venne aperta la porta porse il fiore accompagnato da un gran sorriso. Da quel momento l’anziana donna cambiò il suo comportamento nei confronti di Åsa, di Alex e soprattutto verso il loro bambino. La famiglia s’ingrandì.

A dicembre, Åsa e Alex avevano affidato il loro piccolo alla cura della “nonna”, curiosi di vedere l’aurora boreale. Il viaggio verso la Finlandia era stato lungo e il loro pensiero, che costantemente si poggiava sul figlioletto, lo rese ancora più lungo. Sarebbero mancati cinque giorni. Non lo avevano mai lasciato da solo per tanto tempo e partirono con rammarico.
Durante il viaggio di ritorno, la strada ghiacciata rese impossibile mantenere il controllo dell’auto, che uscì fuori strada con una vorticosa serie di capriole. Nel momento esatto in cui il cuore di Åsa smise di battere venne raggiunto da quello del marito e il piccolo si destò di colpo sicuro che il suo cuore avesse saltato un battito. Respirava affannosamente e gli venne naturale lasciarsi andare ad un pianto consolatore. Scese dal letto e si diresse verso la stanza in cui riposava la nonna. La svegliò con le lacrime agli occhi.
Lei lo fece salire sul letto e tentò di consolare quel pianto, chiedendogli di raccontarle l’incubo che aveva disturbato il suo sonno. Il piccolo non riusciva a parlare, la voce, strozzata dal pianto e spezzata dai forti e profondi respiri, restava inchiodata nella gola. Aveva un attacco di panico.
Dopo aver raccomandato al bambino di non muoversi, si alzò per portargli un po’d' acqua. Accese la luce delle scale e iniziò a scenderle. Inciampò in un lembo della camicia da notte. Alla perdita di equilibrio seguì rapidamente una violenta caduta, bloccata dalla porta d’ingresso. Pochi minuti dopo raggiunse la coppia che aveva avuto il cuore di adottare “un’insopportabile vecchia”, come diceva lei. Esalò l’ultimo respiro fissando la sagoma del piccolo che correva verso di lei e chiuse gli occhi.
Lui la chiamò con tutta la voce che aveva, ma  non ottenne risposta. Sembrava che dormisse nonostante la posizione scomposta. Era notte fonda. Il bimbo non sapeva come comportarsi in quella situazione e uscì di casa, con solo il pigiama addosso. Corse per le strade di Luleå, con le lacrime agli occhi e col fiatone. Doveva trovare soccorso, ma dove? L'aria notturna invernale era gelida, il vento gli sferzava la delicata pelle del viso come se fosse fatto di lame, sentiva i piedi e le mani formicolare ma non arrestò la corsa. Doveva trovare aiuto a tutti i costi. Quando esaurì il fiato si poggiò ad un lampione, il suo pianto disperato, colmo di inadeguatezza e insicurezza,  somigliava ad un urlo di dolore e svegliò un barbone che dormiva poco distante. La figura dell'uomo comparve davanti al bambino e con la voce ancora impastata dal sonno, ormai interrotto, gli disse:
«Che hai da urlare tanto moccioso?»
Non lo degnò di attenzione. Cercava con lo sguardo una macchina della polizia, qualcuno che potesse davvero aiutarlo. Inoltre non doveva rivolgere la parola agli sconosciuti. Continuava a singhiozzare mentre prendeva atto che era impotente, non avrebbe potuto fare nulla.
«Ehi. Smettila. Dovresti essere a letto a dormire, che accidenti ci fai in giro a quest’ora? I tuoi genitori sanno che sei scappato?»
Genitori, non fu una parola accolta con gioia e scatenò nel bambino una nuova crisi di pianto, isterico.
Il barbone si rese conto che il bambino non si sarebbe calmato facilmente, tornò al suo giaciglio e arraffò una coperta consunta. Lo avvolse in quel telo sudicio con fatica e lo prese in braccio, cullandolo a lungo. Quando il piccolo decise di potersi fidare, con calma fece scemare la foga delle lacrime e si addormentò tra le braccia dell’uomo.
L’uomo rimase col bambino per qualche ora, tornando al suo lurido giaciglio. Quando si fece l'alba si diresse, col piccolo sempre stretto tra le braccia verso il bar che lo accoglieva tutte le mattine. Era diventato amico del proprietario e lo aiutava come poteva in cambio della colazione.
Una volta dentro il locale parlò col proprietario, sperando che conoscesse il bambino almeno di vista.
«No, mai visto. Ma sveglialo che facciamo mangiare anche lui.»
Consumarono la colazione in silenzio, il bimbo non proferì parola. Si era chiuso in una sorta di mutismo, dal quale si sarebbe riscosso solo qualche mese dopo.
Il barbone lo condusse davanti al portone dell’orfanotrofio e prima di lasciarlo di nuovo solo gli disse:
«Appena mi allontano bussa. Ti faranno entrare e ti tratteranno bene. Dimentica la mia faccia e dimentica il nostro incontro, noi non ci siamo mai visti. Lycka till, lilleman
Gli sorrise e gli rivolse un ultima carezza prima dii voltarsi e incamminarsi verso un dedalo di vicoli che si trovavano dalla parte opposta della strada. Il pargolo, avvolto nel lercio sudario,  guardò l’uomo sparire tra le case e poi, obbediente, fece quello che gli era stato detto di fare. Ma non scordò mai quel volto.
Il sonno del piccolo si era fatto agitato. Ancora non aveva superato il trauma della separazione dai genitori e dalla nonna, benché si mostrasse abbastanza sicuro di sé. Purtroppo il suo subconscio, spesso e volentieri, proiettava le sue paure e i suoi dolorosi ricordi nei sogni. Dopo qualche scatto e qualche calcio tirato all’aria, si immerse nuovamente nella tranquillità. Di nuovo sognava i suoi giochi con la mamma, il papà e la nonna.

-

Galgo e Angelo salirono sull’aereo. Il moccioso era estasiato dalle dimensioni del mezzo.
«Cavolo, quant’è grande! Come fa a volare?»
«Eh già» rispose Galgo distratto
«Pianeta Terra chiama...com’è che ti chiami tu?»
«Galgo»
«Ah già, mi ero già dimenticato il tuo nome, eppure mi sei simpatico.»
«Ti sono simpatico? E a cosa devo questa simpatia?»
«Non mi hai ancora sgridato»
«Aspettavi che ti sgridassi?» chiese stupefatto.
«Si» annuì con veemenza il bambino.
«Perché?»
«Perché ho cercato di farti arrabbiare in tutti i modi, soprattutto con tutte le domande cretine dov’è questo, cos’è quello, come funziona, dove si compra, dove finisce, dove inizia, a cosa serve, perché esiste e tu non mi hai sgridato ma hai risposto a tutto.»
«Pensavo che se chiedevi era perché non sapessi» Galgo stava per rimangiarsi i pensieri complimentosi rivoltigli poco prima a proposito della sua curiosità.
«Certo che lo sapevo, o almeno, non tutto. Alcune cose le ho chieste perché non le sapevo, come dove si trovano l’Irlanda e la Grecia, che lingua si parla in Irlanda e altro, ma altre cose le sapevo, come cosa misura il chilometro».
Si rimangiò di volersi rimangiare i pensieri e con lentezza cerco i posti che gli erano stati assegnati. Quando si sedettero si ricordò di rispondere al piccolo viaggiatore.
«Ah – rispose – va bene. Posso farti qualche domanda io, ora?»
«Dopo che cominciamo a volare. Voglio vedere quello che succede.»
«Va bene, vieni, siediti al posto mio – si alzò cedendo il posto vicino al finestrino al bambino – da qui vedrai meglio»
«G-grazie» borbottò leggermente imbarazzato.

Angelo era sconcertato da quella gentilezza. Nessuno era mai gentile con lui. All’inizio soffriva per quei comportamenti di ripugnanza mista a paura che gli erano riservati. All’orfanotrofio le suore si erano dimostrate cattive nei suoi confronti, ne aveva sentite alcune dire che lui era il figlio del diavolo, che quegli occhi non erano umani et similia. Quanto aveva pianto quando aveva capito che la discriminazione che subiva era dovuta tutta al suo aspetto. Non aveva deciso lui di nascere con gli occhi rossi e i capelli bianchi. Anzi, secondo quello che dicevano le suore era nato così per volere di Dio quando cercavano di consolarlo, anche se senza troppo interesse. E se Dio l’aveva voluto così, perché pensare che fosse il diavolo? Aveva deciso che non gli interessava più quello che pensavano gli altri di lui. Non aveva mai fatto del male a niente e a nessuno, era un bambino tranquillo e ben’educato quando, due anni prima, era stato portato all’orfanotrofio. Si era dimostrato solamente un po' asociale e apatico. Inoltre  non era sereno a causa dei brutti sogni che faceva  tutte le notti. Sognava i morti e col tempo cominciò a vederli anche da sveglio. Gli incubi notturni non gli permettevano di dormire che poche ore a notte, con risultato che si stancava facilmente durante il giorno, tanto da risultare apatico, e che aveva delle vistose occhiaie nere sotto gli occhi. Era un bambino buono quello di due anni prima, obbediente e gentile. Peccato che il suo aspetto bizzarro gli avesse precluso ogni tipo di relazione sociale con gli altri bambini e gli adulti. Venne emarginato da subito ed fu vittima di brutti scherzi da parte degli altri bambini. Un giorno due bambini, che come lui erano orfani, ridussero a brandelli  l’unica foto dei genitori che aveva, sotto il suo sguardo. Angelo impazzì di rabbia e si avventò su quei due bambini con una furia paragonabile solo all’eruzione di un vulcano.  Si era premurato tempo prima di portarsela appresso, quando quel vicino di casa fece irruzione a casa sua e lo portò via. Stette per qualche mese da lui, finché le figlie non convinsero il padre a portar via ‘il mostro’. 
Inutile dire che la colpa di quell’evento  ricadde solo ed esclusivamente su di lui. Quello fu l’inizio della distruzione. Diventò violento, strafottente e perse tutta l’educazione dimostrata in precedenza. Era il figlio del demonio dopotutto e, quindi, perché non comportarsi come tale?

Ora era lì, pieno di gioia nel vedere come la città si allontanava e diventava piccola mentre l’aereo si alzava in volo. Che spettacolo meraviglioso!
«Galgo! Galgo, hai visto? »
«Cosa?»
«Com’è tutto piccolo da quassù? Il mare però è più grande»
«Le cose cambiano in base alla prospettiva»
«Prospettiva?»
«Sì, l’angolo da cui osservi, per farti un esempio stupido: guardami – si mise di profilo – tu ora mi vedi così, ma se tu ti sposti – si girò a guardarlo dritto negli occhi – mi vedi in modo diverso»
«Prospettiva … sembra interessante...»
Galgo sorrise nel vederlo assorto in chissà quale pensiero. Fece per mettersi a sfogliare una rivista che trovata nella tasca del sedile che aveva di fronte quando Angelo gli tirò la manica della camicia.
«Che c’è?» chiese dolcemente, voltandosi a guardare il bambino negli occhi; profondi e  particolari. Tristi e colmi di odio e frustrazione. Non erano gli occhi di un bambino. Era seduto con le gambe incrociate sul sedile e con le mani si teneva le caviglie.
«Galgo, posso farti una domanda?»
«Certo che puoi, chiedimi quello che vuoi»
«Secondo te io sono brutto?»
«Brutto?» strabuzzò gli occhi, chiedendosi se avesse sentito bene.
«Sì, brutto … come il demonio.» Rispose lui come se fosse una cosa ovvia. Cosa c'era di più brutto del demonio?
«Ma che stupidaggini vai dicendo? E comunque no, non sei brutto. Sei particolare.»
«Perché son particolare?»
«Perché hai i capelli bianchi come la neve, gli occhi rossi come il fuoco più caldo e la pelle ambrata. Sei unico. Tutto ciò che è unico è bello.»
«Io sono bello?»
«Sì, anche se non mi intendo molto di uomini. Son più bravo con le donne.»
«Mi piaci …  ed è strano, perché non mi piace mai nessuno. Devo andare in bagno.» Angelo interruppe il discorso, cercando di esporsi il meno possibile. Aveva imparato che far trapelare troppe cose portava a mostrare cose che era meglio nessuno sapesse: le debolezze.
«Ehm … ti devo accompagnare?»
«Ma sei scemo? So far pipì da solo.»
«Calmo calmo, non volevo offenderti. Intendevo se devo accompagnarti fino alla porta...»
«No, so camminare con le mie gambe, dimmi solo dov’è il bagno, altrimenti lo chiedo a quella tizia con il culone»
Galgo arrossì violentemente, mentre la coppia che sedeva accanto a loro sulla linea centrale dell’aereo si mise a ridere rumorosamente.
«E’ quella porta lì, la vedi?»
«Sì.»  Il bambino si diresse sicuro verso la porta ed entrò.

Galgo si trovava a pensare cosa potesse aver passato quel bambino. Si promise che gli avrebbe chiesto tutto quando il bambino sarebbe tornato dal bagno. Certo che era davvero particolare. Gli faceva una tenerezza immensa vedere come quel bambino cercasse di nascondere i suoi comportamenti infantili, cercando di comportarsi come gli adulti che aveva conosciuto fino a quel momento.

Dopo qualche minuto tornò dal bagno, grattandosi la nuca.
«Ti sei lavato le mani?» azzardò Galgo.
«No – rispose sarcastico - ho deciso di lavarmele passandotele sulla faccia. Ma che razza di domande fai? Tu non te le lavi le mani dopo?»
«Scusa, ho pensato che essendo piccolo ci fosse bisogno di ricordarti alcune cose. Ho sbagliato. Colpa mia, scusami.» Il giovane aveva capito che la gentilezza lo spiazzava. Non c’era abituato. Non sarebbe stato un grosso problema mostrarsi remissivo al bambino.
Angelo rimase senza parole. Era stato sgarbato con Galgo, ma aveva imparato a fare così per essere lasciato in pace.
«Scusami, tu. Ti ho risposto male.»
«Fa niente. Toglimi una curiosità però, dove hai imparato tutte quelle parolacce?»
«Me le ha insegnate il tizio che consegnava la frutta all’orfanotrofio. Io lo aiutavo a scaricare le cassette e lui mi dava sempre qualcosa»
«Ti dava soldi?»
«No, frutta. Non mi servivano i soldi. Non potevo uscire dall’orfanotrofio io. Neanche per le gite. La gente aveva paura di me secondo le suore. Avevo solo il permesso di uscire per aiutare il tizio della frutta.»
«Come mai sei finito in orfanotrofio?» Galgo colse al volo l’occasione di farsi raccontare qualcosa della sua vita.
«Mi ci ha portato il vicino di casa» rispose Angelo con nonchalance.
«Il vicino di casa?»
«Si, i miei genitori sono spariti. Sono rimasto un sacco di tempo a casa da solo, ma non sapevo come, cosa e dove mangiare una volta finite le cose che erano in casa e mi son ricordato che mio padre andava nel pollaio a prendere le uova e le portava a mia madre. Ma non sapevo cosa ci faceva mia madre, io le mangiavo cotte con loro, ma come si cuoce un uovo? Tu lo sai?»
«Si, se vuoi ti insegnerò»
«Sì grazie, non mi piacciono crude, hanno un cattivo sapore e sono viscide.»
«Già, ma forse dovrai mangiarle crude ogni tanto, sono un concentrato di proteine e fanno crescere i muscoli»
«Allora io sono diventato una proteina. Ne ho mangiate un sacco crude»
Galgo si lasciò andare ad una risata di cuore, com’era ingenuo quel bambino ora, sembrava davvero un bambino, forse per la prima volta da quando lo aveva conosciuto.
«Perché ridi?»
«Niente, hai fatto una faccia buffa quando hai detto che eri diventato una proteina, ma scusami. Continua a raccontare. Ma forse prima è meglio se ci beviamo qualcosa. – le hostess stavano offrendo da bere ai passeggeri e Galgo colse l’occasione - Come lo vedi un bel succo di frutta fresco?»
«Lo vedo bene. Ho caldo.»
 Si voltò a guardare  la hostess, che lentamente si avvicinava, e si accorse con stupore che tutti i passeggeri vicini avevano ascoltato il racconto del bambino. Erano basiti e nei loro occhi si poteva chiaramente leggere la pena che provavano per lui. Anche Angelo se ne accorse e tornò adulto di colpo.
«Quest’aereo è pieno di gente che non si fa gli affari suoi. Cos’è, non vi sembro io? » mise su un’espressione minacciosa e accigliata. Che avevano da guardare?
«Tranquillo piccolo, continueremo a voce bassa in modo che non ci possano sentire»
«Va bene. Dov’è la culona?»
«Qui dietro. Tra un po’ arriva. Ma non dirlo ad alta voce, potrebbe offendersi»
«Tu sei un mito» gli disse il bambino, mostrandogli un sorriso che mostrava gratitudine e adorazione.
«U-u..un mito? Io? Perché?»
«Perché non mi hai rigirato la faccia con una sberla. In orfanotrofio ero già in punizione da almeno un’ora per aver detto ‘culona’ due volte. Magari la prima passava liscia, ma la seconda era uno scapaccione se andava bene. »
«Non sei più in orfanotrofio adesso, anzi stiamo andando in un posto dove non si bada troppo alle parole che si usano, almeno tra di noi. Ovviamente al Gran Sacerdote ci si riferisce con le giuste parole. Sai che ti dico? Ti insegnerò anche le parolacce in greco.» Galgo aveva capito: le parolacce gli piacevano.
«Wow, ci sto!» rise Angelo, pregustandosi il momento in cui le avrebbe usate.

Galgo era un ragazzo estremamente timido e non usava mai parolacce, se non raramente in casi disperati. Ma quella promessa doveva essere l’inizio di un’amicizia con un bambino che, a sei anni, aveva preso la stessa quantità di porte in faccia che una persona normale prende in tre vite. Voleva aiutarlo. Magari, una volta ad Atene, avrebbe potuto prenderlo sotto la sua ala, essere il suo primo maestro.

«Desidera qualcosa da bere,signore?» disse sorridendo la ragazza, mostrando il carrello con le varie bevande. Era interessata a quel giovane con i capelli rossi e lunghi.
«Volentieri, cosa avete da proporre? Succo di frutta?»
«Certo, purtroppo come succo ho solo pesca e pera, come lo vuole?»
«Angelo, – disse voltandosi verso il bambino -  come lo vuoi?»
«Alla pesca»
«Due alla pesca, grazie»
La hostess rimase impietrita nel rendersi conto che quel ragazzo che si apprestava a corteggiare fosse accompagnato da un bambino. Non poteva chiedergli se era il figlio. Semplicemente rinunciò all’idea di passare del tempo con lui una volta ad Atene. Anche se lui avesse accettato le sue avances non aveva la minima intenzione di trascorrere anche un solo minuto in compagnia di quel bambino, le incuteva paura. Avrebbe continuato a guardarsi intorno, l’aereo era pieno di uomini dopotutto. Prese la grossa caraffa di plastica e riempì un bicchiere a metà e uno fino all’orlo. Era chiaro che il bicchiere pieno fosse per l’adulto e quello a metà per il bambino. Li porse entrambi a Galgo, che diede al bambino quello pieno. La ragazza accennò una smorfia di disappunto per quel gesto, poi continuò il suo lavoro, passando ai passeggeri dei sedili davanti.

«Buono?»
«Si, ma non è fresco. Grazie.»
«Di cosa?»
«Di avermi dato il bicchiere con più succo»
«Figurati, sei più piccolo ma scommetto che sei più assetato di me»
«Segui la storia del ‘dai da mangiare agli affamati e da bere agli assetati’?»
«Solo se chi ha sete e fame mi sta simpatico – mentì – tu?»
«No. Io ho sempre dovuto cavarmela da me. Se ci son riuscito io ce la può fare chiunque, anche il più stupido degli scemi.»
«Tu ce l’hai fatta da solo perché sei forte e non ti sei lasciato sconfiggere dalle circostanze. Altri non hanno la stessa forza.»
«Allora dovrebbero morire.»
«Morire? Addirittura?»
«Conta solo la forza. E’ l’unica cosa che fa in modo che tu sia rispettato e che nessuno cerchi di darti fastidio e metterti i piedi in testa. Se mi comportavo bene all’orfanotrofio sarei rimasto il giocattolo degli altri.» Angelo si era incupito, forse si era resoconto che il suo non era un comportamento giusto, ma era l’unico che gli permetteva di essere lasciato in pace.
«Non confondere il rispetto con la paura»
«Perché c’è differenza?» chiese svogliato.
«Sì.»
«Me lo insegnerai?» chiese il bambino alzando lo sguardo a cercare gli occhi del suo interlocutore.
«Certo, ti insegnerò tutto quello che so, se tu vorrai.» sorrise il rosso.
«Voglio.»
«Allora sarai mio discepolo. Angelo Salvatore, discepolo di Galgo!»
«No, troverò un altro nome. Non mi piace il mio nome.»
«Te lo svelo un segreto?»
Segreto è la parola magica capace di focalizzare l’attenzione dei bambini, anche se Angelo pendeva già dalle labbra di Galgo.
«Sì!»
«Galgo non è il mio vero nome. E’ un soprannome.»
«Un soprannome? E che significa?»
«E’ una parola portoghese. Significa ‘levriero’.»
«E perché ti chiamano levriero?»
«Perché sono veloce.» Gonfiò il petto e vi battè sopra il pugno.
«Poi facciamo una gara?»
«Certo, appena ti sarai sistemato andiamo a fare una corsa»
«Ti straccerò cane!» lo stuzzicò Angelo
«Vedremo - sorrise accomodante - ragazzino.»
I due si misero a ridere e continuarono a scherzare per un po’, finché il discorso non tornò sul passato del  bambino.
«Senti Angelo, mi dicevi che sei rimasto da solo a casa per un mucchio di tempo. Come mai il tuo vicino di casa non si è accorto prima che eri solo?»
«Perché casa sua era lontana, vicino per modo di dire»
«Ah, ma vivevi in campagna?»
«Sì, avevamo le galline, i maiali e anche le pecore e le capre. Avevamo un mucca ma ce la siamo mangiata, era vecchia. Lo sai che avevo un cane?»
«E come si chiamava?»
«Cane»
«Cane? Il tuo cane si chiamava ‘cane’?»
«Si, lo chiamavo ‘cane’.»
«E che cane era?»
«Un cane pastore. Era tutto bianco e gigante. Era bello, mi ci divertivo un sacco»
«Che fine ha fatto?»
«L’hanno avvelenato»
«Mi dispiace»
«Per cosa?»
«Per il cane»
«Poco male, è morto da tanto, poco prima che sparissero i miei»
«Ah…e, il tuo vicino di casa cosa fece?»
«Io dormivo nel letto dei miei genitori, lui è entrato in casa e mi ha portato via. Mi aveva detto di prendere qualche vestito e quello che ritenevo importante e presi una foto con me e i miei genitori. Poi mi ha portato a casa sua e son rimasto con lui e la sua famiglia per qualche mese, poi mi ha accompagnato all’orfanotrofio cercando di spiegarmi che non potevano più prendersi cura di me. Però la moglie non era molto d’accordo, si era messa a piangere un sacco quando il marito mi portava via. »
«Ce l’hai ancora la foto? »
«Si, la porto sempre con me. La vuoi vedere? »
«Certo, se per te va bene»
«Sì, così vedi che bella era mamma»
Angelo infilò un mano in tasca e tirò fuori dei pezzi di carta stropicciati, li stirò ad uno ad uno e li dispose ordinatamente sul tavolino che fuoriusciva dal bracciolo della poltrona finché l'immagine non prese forma. Era uno squarcio di vita familiare classico, i genitori e il loro bambino ai piedi di un grosso albero. Angelo era abbarbicato sulle spalle del padre e teneva stretta la mano della madre. Non si chiese chi fu a scattare quella foto, ma chiese solamente il motivo per cui era ridotta in tanti pezzi.
«Perché è tutta rotta?»
«Perché due bambini dell’orfanotrofio l’hanno strappata per farmi arrabbiare»
«E ci sono riusciti? A farti arrabbiare, intendo.»
«Sì»
«Cosa gli hai fatto?»
«Li ho picchiati, non avevo mai picchiato qualcuno.»
«E ti è piaciuto picchiarli?»
«Sì. Volevo ridurli come loro avevano ridotto la foto. Non ho altro dei miei genitori.»
«Ti capisco, li avrei picchiati anche io» gli disse Galgo.
«Sono stato punito. Mi hanno picchiato con una corda sulle gambe. Fa male la corda.»
«Lo immagino» sorrise comprensivo.
«Non ti hanno mai picchiato?» Angelo voleva sapere se le botte facevano parte dell’educazione di tutti.
«Non con la corda»
«Io non ero mai stato picchiato prima. I miei genitori non mi hanno mai picchiato. E’ stato brutto, ma sono stato bene dopo.»
«Come bene?»
«Era un modo per essere considerato. »

Galgo sbiancò. A quattro anni, si comportava volutamente male per illudersi di avere un po’ di attenzione. Quanta pena gli faceva quel bambino. Non aveva fatto nulla di male e si era trovato ad affrontare una situazione che alla lunga avrebbe fatto cedere anche un adulto. Si trovò a pensare che non avevano  niente in comune. Galgo aveva avuto una vita perfetta. I genitori vivevano in Irlanda e periodicamente andava a trovarli, certo, non sapevano che aveva ripudiato il Dio che gli avevano insegnato a venerare da quando era piccolo, non sapevano che non faceva l’archeologo ad Atene, ma tutte le foto che lui spediva loro con uno sfondo di vestigia di templi antichi  spingevano a credergli. Non gli piaceva mentire, soprattutto ai genitori, ma la segretezza era fondamentale. Si trattava di un culto morto da secoli per chi non ne faceva parte. Loro avrebbero visto la loro dea. Non avrebbero creduto alla sua esistenza sulla fiducia. Avrebbero potuto vederla incarnata, parlarle e guardarla negli occhi. Sarebbe successo presto, mancavano pochi anni.

«Comunque tua mamma era davvero bella, un bel viso … dolce …»
«Oh sì, era dolce, mi faceva un sacco di coccole»
«E tuo padre?»
«Mio padre mi faceva sempre il solletico e giocavo alla lotta con lui. Era fortissimo! Mi sollevava con una mano sola sopra la sua testa. Ora la metto via però, non voglio perderne un pezzo.»
«Quando arriviamo ad Atene te la rimetto insieme e magari cerchiamo una cornice. Ti va?»
«Davvero puoi aggiustarla?»
«Sì, non sarà come nuova, si vedranno gli strappi ma sarà un pezzo unico»
«Grazie! Davvero. E’ importante.»
«Di niente, ci si aiuta tra amici.»
«Amici? -  gli occhi di Angelo si aprirono dalla meraviglia. - Siamo amici?»
«Certo! »
Galgo gli porse la mano e Angelo batté il cinque. Era il suo primo amico.

Dopo aver ufficializzato la nuova amicizia, Angelo si voltò a guardare il mondo sotto di loro e Galgo rigirò in mano la rivista che avrebbe voluto sfogliare all'inizio del volo. Pochi minuti di silenzio si frapposero tra loro prima che un gioioso Angelo si mostrasse eccitato per la vista di una città.

«Ehi Galgo, guarda fuori» -  si spostò in modo che il ragazzo potesse vedere fuori dal finestrino.
«Quella è Atene. Siamo quasi arrivati»
«Così possiamo fare la gara»
«Sì, vero. Ma prima conoscerai il Gran Sacerdote»
«Com’è il Gran Sacerdote?»
«E’ alto, ha gli occhi viola e i capelli verdi e le sopracciglia a pallino dello stesso colore degli occhi. E’ un uomo particolare.»
«Capelli verdi? Ma son veri?»
«Sì»
«Non ho mai visto uno coi capelli verdi»
«E io non avevo mai visto nessuno con gli occhi rossi.»
«Vero, neanche io. Solo io ce li ho. E quando scendiamo dall’aereo?»
«Tra pochi minuti»


Un po' di spagnolo:
*Saluda chico = Saluta.
*Yàsu es lo mismo que hola, en griego =Yasù è la stessa cosa di hola, in greco.

*Gracias
señorita =Grazie signorina.
*No te pares delante de los obstáculos, las estrellas te ayudaran en tu camino. Buena suerte.
= Non fermarti davanti agli ostacoli, le stelle ti aiuteranno nel tuo cammino. Buona fortuna.
*¡Vàmonos chico! = Andiamo piccolo!
*¡Vale! = Va bene!

Un po' di greco (parolacce, ovviamente)
*
Ante ghamisù!= Vai a quel paese ^_^ ma con una connotazione leggermente più volgare.

Un po' di svedese
*Lycka till, lilleman = Buona fortuna, ometto.

Ecco il nuovo capitolo del passato dei piccoli Gold!
Ringrazio vivamente shura 4 ever che ha aggiunto la fic tra i preferiti, e tutti coloro che hanno lasciato una recensioncina al precedente capitolo:
roxrox. Grazie per le tue gentilissime parole, mi hai fatto arrossire ^///^! Sono felice di averti fatto innamorare di Death, è il mio Saint preferito, seguito a ruota dal focoso Shura. Ci tengo a farlo amare XD
Gufo_Tave. Sono felice che tu abbia solo rischiato la vita, Death Mask ha sempre un effetto letale
stantuffo. Ciao! Grazie mille per la recensione e per i complimenti, mi fa davvero piacere che ti sia piaciuta. E di questo nuovo capitolo che ne pensi? ^_^
RedStar12. Carissima, in questo capitolo, come avrai già letto se sei arrivata a leggere i ringraziamenti (:P) tu e whitesary avete una sfidante! Sarà una dura lotta, ma cercherò di affidarti almeno Milo, e ovviamente Shura a whitesary! Death Mask continuo a tenerlo io anche se legato in un angolo, a momenti davvero non lo si sopporta ^_^ Che ne pensi di come la storia va avanti? A giorni ti manderò un'e-mail con un elenco di frasi da tradurre a dir poco vergognoso, per cui preparati! Un bacione!
Camus. Anche io la penso esattamente come te, anche se Kurumada, alla fine dei conti, non ha caratterizzato quasi nessuno dei suoi personaggi. L'idea per la fic l'ho avuta mentre riguardavo per l'ennesima volta la saga di Asgard, creata per dare a Kurumada il tempo necessario affinché potesse mandare avanti la saga di Poseidon. Tutti i cavalieri di Odino hanno un passato che viene mostrato a chi guarda in modo da capire il perchè dei loro comportamenti. Fammi sapere che ne pensi di questo nuovo capitolo ^_^

   
 
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