3
Fiducia
Una goccia cadde a poca
distanza da lui. Poi un'altra e un'altra ancora. Quel suono ritmico,
snervante, monotono, era l’unico che sentiva da giorni, se si
escludevano i continui mormorii dei suoi carcerieri. Ledah
sollevò appena la testa, cercando nella
semioscurità in cui l’avevano confinato di
individuare l’ubicazione precisa di quel ticchettio liquido.
Tuttavia, perse la concentrazione quasi subito – gli capitava
spesso, di recente – e si riaccasciò con un
sospiro sulla fredda pietra. Ad un tratto, udì il cigolio
stridente dei cardini di una porta, seguito da un ordine sussurrato a
mezza voce. Poi ogni suono cessò e rimase solo quella specie
di maledetto ticchettio.
Non avrebbe saputo dire da quanto tempo era rinchiuso in quella
prigione, ma di sicuro tra poco lui sarebbe venuto a fargli visita.
Veniva sempre, tutti i giorni alla stessa ora, a volte accompagnato da
Lysandra, altre volte da solo, ma non mancava mai di fargli visita.
Ledah si era domandato a più riprese perché lo
facesse, perché non si limitava ad aspettare che passassero
quelle cinque settimane. Alla fine era giunto alla conclusione che
provasse un piacere perverso a vederlo in quello stato pietoso,
prostrato sulle ginocchia piagate, la testa a penzoloni e le braccia
sospese come in croce, senza più nessuna speranza se non la
dolorosa consapevolezza che la sua fine sarebbe giunta presto. Sorrise
e cercò di appoggiarsi al muro, ma le catene glielo
impedirono. Le afferrò e le strattonò senza
particolare enfasi, più per un riflesso incondizionato che
la vera convinzione di potersi realmente liberare. Le rune incise sugli
anelli, a quel debole atto di ribellione si illuminarono, stirando le
sue braccia ancora più alto, mentre la magia si riversava su
di lui come un’onda. Ledah digrignò i denti e
ingoiò le lacrime che premevano da dietro le ciglia, di
nuovo esausto, senza fiato.
- Dovresti aver capito che da qui non c’è via
d’uscita. -
L’elfo non dovette nemmeno alzare la testa. Sapeva chi era,
era l’unica altra voce che sentiva, oltre a quelle nella sua
testa.
- Però ti ammiro, sai? Molti si sarebbero arresi, invece tu
continui a lottare, anche se sai benissimo di non poter contrastare gli
incantesimi di contenimento di Elladan, o Lysandra, come le piace farsi
chiamare adesso. Sei davvero mio figlio, caparbio e arrogante. - si
abbandonò ad una risata roca e sorrise orgoglioso.
- Non chiamarmi così. -
- E come dovrei chiamarti? Ledah il Distruttore? - sbuffò
con scherno, - Nelle tue vene scorre anche il mio sangue. Per quanto tu
possa negare i fatti, la realtà è questa.
Accettala e basta. -
Avanzò a passi lenti fino al cerchio di rune e si
fermò ad osservare i simboli disegnati col sangue che
sfavillavano nell’oscurità. Ledah lo
squadrò con fierezza dal centro della sua prigione, quella
che sua madre aveva progettato apposta per non farlo fuggire. Dopo un
lungo momento, l’uomo fece un gesto noncurante della mano e
una fiamma si accese sul palmo. La luce improvvisa accecò
l’elfo, che di riflesso nascose il viso contro la spalla. Per
un lungo minuto rimase immobile, poi, quando le macchie davanti agli
occhi cominciarono a svanire, incontrò di nuovo le iridi
rosso brace del suo aguzzino.
La prima volta che era venuto a trovarlo, Ledah lo aveva fissato con
sgomento. Aveva letto moltissime cose sul suo conto, ma non era
preparato a vederlo sotto quelle sembianze: l’immagine di
Aesir, il dio oscuro con il fisico e la possanza di un guerriero, si
era sgretolata per lasciare il posto a un vecchio dall'aspetto fragile
e avvizzito. Aveva riconosciuto le fattezze di un Drow nei lineamenti
aggraziati del viso e nella pelle scura, anche se
dell’originaria bellezza non era rimasta che un lieve
accenno: la carnagione aveva assunto una malsana sfumatura violacea,
mentre le unghie non erano altro che un moncherino annerito e
scheggiato che lasciava scoperta la carne viva.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Aesir sogghignò e in
un attimo attraversò il cerchio di rune come se non
esistesse, la mano che reggeva il fuoco magico davanti a sé.
- Hai lo stesso spirito combattivo di tua madre. Ogni volta che ti
guardo, mi pare di vedere lei. Scommetto che piuttosto che piegarti al
mio volere, preferiresti farti spezzare. - gli sibilò in un
orecchio.
Ledah rise, una risata rauca che gli graffiò la gola.
Avvertì il sapore ferroso del sangue in bocca e, in seguito,
un rivolo denso e viscoso gli colò sul mento Ormai faticava
a parlare, persino mangiare e bere erano una tortura, a malapena
riusciva a trangugiare quella poltiglia di avena e chissà
cos’altro che gli portavano ogni giorno per mantenerlo in
vita. Eppure, nonostante tutto, non si sarebbe mai dichiarato sconfitto.
- Ti diverti a vedermi ridotto così? - sputò per
terra un grumo di sangue e saliva e tornò a sfidare il dio
con la sola forza dello sguardo.
- Non più di tanto. Magari all’inizio
sì, adesso mi urta quasi vedere il mio prossimo contenitore
trattato come una bestia da circo. Sarebbe più semplice se
accettassi questa situazione. Ti ricordo che potrei rigenerare il tuo
corpo in pochissime ore, se solo mi lasciassi entrare. Non sei stanco,
Ledah? Coraggio, accoglimi! Ti aiuterò, te lo prometto. Non
sentirai più alcun dolore. - lo blandì pacato,
proprio come avrebbe fatto un padre affettuoso con l'amato pargoletto.
Gli sollevò il mento e Ledah si tirò indietro
all’istante. Le manette attorno ai polsi si strinsero e le
catene gli torsero violentemente le braccia, mentre una scarica
elettrica gli scuoteva tutto il corpo. Solo facendo appello a tutta la
rabbia che provava riuscì a trattenere le lacrime. Faceva
male e il dolore ogni volta gli mozzava il fiato, ma non si sarebbe mai
arreso.
- Già, tu non mi tratteresti in questo modo, infatti. -
rispose sarcastico quando tornò a respirare, - Cosa vuoi da
me? - grugnì affaticato.
Aesir si alzò e cominciò a girargli attorno. Alla
luce tenue delle rune e della fiamma il suo viso appariva ancora
più scavato, spettrale come quello di un morto.
- Lysandra mi ha riferito una cosa e io ho pensato che potesse
interessare anche te. -
La sua voce rimbombò tra le pareti di pietra, fredda e
raschiante, un suono che a Ledah ricordò il ringhio di una
belva feroce.
- Se vuoi dirmi che il re degli umani è morto e che Lysandra
ha preso il comando di Sershet, non ti scomodare, le guardie non
parlano d’altro. Per quanto i vostri non-morti siano sempre
ligi al dovere, in questi ultimi giorni non fanno che discutere dei
piani della loro regina. -
Il sorriso sul viso del vecchio si allargò: - Eh,
già. Immaginavo che la notizia sarebbe giunta fino a qui.
D’altronde, nel regno degli umani tutto ciò che
succede a corte è motivo di pettegolezzo. Ma no, non era di
questo che volevo parlarti. Di' un po', sai che fine ha fatto la Morte
Bianca, il Generale Airis Lullabyon? -
Ledah si impietrì di colpo. Percepì il poco
sangue rimasto defluire dal volto e l'angoscia stritolargli il cuore in
una morsa d'acciaio. Un cattivo presentimento si fece strada nella sua
coscienza, tanto da bloccargli il respiro in gola. In quei giorni di
prigionia aveva pensato spesso ad Airis, alla promessa che si erano
scambiati prima di dividersi a Luthien. Anche mentre era in viaggio
verso la capitale, durante la notte si svegliava in preda ai tremori,
con quel pensiero troppo doloroso conficcato in testa. Aveva faticato
ad accantonarlo, ancora adesso tremava, eppure qualcosa doveva essere
successo, lo sentiva.
- Vedi, un paio di giorni fa Lysandra ha mandato alcuni esploratori a
cercare il corpo del Generale. Sai, alcune voci sostenevano di averla
scorta per le strade di Luthien prima dell’attacco del drago
e degli elfi. Oh, non fare quella faccia inorridita, Ledah! A qualcuno
dovevamo pur dare la colpa di quello che è accaduto e quale
capro espiatorio migliore se non gli eterni nemici degli umani? -
- Voi… -
- Noi cosa? Siamo dei mostri? No, siamo solo degli attimi attori,
migliori della maggior parte delle pedine che si muovono sulla
scacchiera. - replicò, continuando a girare in cerchio.
- Gli elfi non farebbero mai una cosa simile! - ruggì Ledah.
Intuì che Aesir era alle sue spalle, vicinissimo, quando
avvertì il suo fiato gelido sulla nuca.
- Gli umani hanno tutt’altra opinione del tuo popolo. -
bisbigliò il dio, fintamente dispiaciuto, - Hanno
dimenticato le antiche alleanze, ciò che una volta
rappresentavate l’un per l’altro. Nei loro cuori
sopravvive soltanto il ricordo del male che avete compiuto, mentre le
gesta eroiche giacciono sotto cumuli d’ossa e cenere. -
I suoi occhi divennero ancora più rossi. Si portò
di fronte a Ledah in un lampo e incatenò i loro sguardi.
- È in memoria di tali pregiudizi che continuerà
questa guerra fratricida. Llanowar è caduta, Luthien
è stata distrutta e molte altre la seguiranno. Varestei e
Alfeir, gli amati figli di Yggrasill, zittiscono il loro dolore
versando altro sangue, perpetrando le atrocità per cui hanno
pianto, e combattono per i loro morti senza rendersi conto che ormai
sono succubi della loro natura assassina, della voluttà che
l'atto di togliere una vita porta con sé. Ma
c’è anche un altro sentimento che li consuma e
alimenta la loro fame di morte. - gli mise le mani sulle spalle e lo
fissò con un'intensità tanto forte che Ledah si
sentì schiacciare, - Parlo della disperazione, quella
lacerante sofferenza che deriva dall'aver perso qualcuno di caro.
È nella disperazione più nera che la follia
pianta le sue radici. È questo il segreto, figlio mio. -
L’elfo scosse il capo con veemenza, incurante del dolore che
quel gesto gli provocò. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie,
urlare, fuggire, ma le catene glielo impedivano.
- Airis Lullabyon, il Cavaliere del Lupo, è morta. Hanno
trovato il suo cadavere in un burrone, si è tolta la vita
per sfuggire a un’imboscata dei tuoi amati fratelli. Felther
ha riportato la sua spada a corte qualche giorno fa. -
dichiarò Aesir senza altri indugi, godendosi l'espressione
sbigottita e cerea di Ledah.
Quelle parole aleggiarono nell’aria, rimbalzarono sulle mura
di pietra in un’eco impossibile da ignorare. La paura gli
attorcigliò le viscere, il dolore lo trafisse nel petto alla
stregua di una lama arroventata e l'incredulità gli chiuse
la gola come un cappio. Le voci che a lungo lo avevano tormentato
tornarono ad assalirgli le orecchie, sibili suadenti che nulla avevano
di umano.
Morta. Airis è morta. Sei solo, ora.
- No... non è vero… non può essere...
- rantolò.
- Puoi non credermi, ma sai che non ho alcun motivo per mentire. Vedi,
per quanto ti ammiri, quando mi svestirò delle spoglie di
questo mio servo, preferirei non dover intraprendere una lotta contro
la tua anima per il controllo del mio nuovo corpo. Questi incantesimi,
quelli che Lysandra ha inciso su queste catene, sono potenti, ma non
abbastanza. - accarezzò uno degli anelli con la punta delle
dita, le labbra distorte in un sorriso crudele, - So che provavi
qualcosa per Airis, lo so per certo, è così
chiaro che non è mai stato necessario entrare nella tua
mente. Ma vedi, Ledah, l’amore è quanto di
più effimero e stupido esista, persino mio padre lo sapeva.
Eppure, quando è arrivato il momento di fare la scelta
giusta, non è riuscito a rinchiudermi. Mi ha esiliato a
camminare nelle Profondità, illudendosi che gli anni e i
secoli passati nelle ombre avrebbero cancellato la rabbia che provavo
per lui e i miei fratelli. Invece questa è maturata,
è diventata disperazione, accecante e cupa disperazione, per
poi tramutarsi in odio. -
- Stai zitto! -
- Sarebbe molto più semplice se accettassi la sua morte.
L’amore non fa per noi, non ci appartiene. Il dolore e la
disperazione che stai provando non hanno senso, non ne avranno mai.
Prendi atto della realtà, figlio mio, ti prometto che
diventerà tutto più facil… -
- Io non sono tuo figlio! - urlò, le unghie affondate nei
palmi nelle mani, il verde muschio ormai bruciato da un rosso denso,
ardente.
Strattonò le catene, tirandole con tutta la forza che aveva
in corpo, incurante delle scariche elettriche che lo scuotevano fin
nelle ossa. Alzò lo sguardo, incontrando il ghigno beffardo
del dio, e si sentì sommergere da quell’oceano di
voci assordanti, che ripetevano sempre la stessa cosa.
Airis è morta. Morta. Sei solo.
Si protese verso Aesir, allungò un braccio per afferrarlo,
ma le catene lo tirarono violentemente indietro, sollevandolo da terra
fino a quando non rimase solo la punta di un piede a contatto con la
pietra. Si dimenò in preda alla furia nel vano tentativo di
scappare, mentre Aesir lo guardava inespressivo. Infine rimase
immobile, schiacciato dalla sofferenza, senza più forze e
con solo la compagnia di quei sussurri nelle orecchie.
Il dio schioccò la lingua e sorrise: - Era questo che volevo
vedere. -
Poi gli diede le spalle e uscì.
- Generale? Generale, vi sentite bene? -
La voce di Arghail interruppe il suo sonno leggero. Mentre apriva
lentamente gli occhi, Airis percepì l’odore
selvatico della pelliccia e la consistenza ruvida di una coperta di
lana. Fece perno sui gomiti e, non senza fatica, si mise a sedere. La
luce del sole filtrava attraverso il tessuto madido
dell’umidità notturna in lame luminose, delineando
l’ambiente spartano di una tenda. Vide i tizzoni anneriti nei
bracieri e un supporto in ferro occupato da un pettorale e una cotta di
maglia familiari.
“La mia armatura?”
- Generale. - la richiamò il soldato e Airis si accorse che
la stava scrutando.
- Arghail. - esalò, prima di prendersi la testa tra le mani,
- Dove siamo? -
- Nella mia tenda, nell’accampamento provvisorio. -
- In quanti ti hanno visto portarmi qui? -
- Solo i miei compagni che facevano la ronda ieri notte, ma per ora non
hanno fatto molte domande. Credo stiano semplicemente aspettando una
spiegazione che io, al momento, non posso dare. - intrecciò
le dita sotto il mento e scosse la testa, - Stento a credere che siate
viva. Perché vi stavate nascondendo nella foresta? -
Airis trasse un profondo respiro e incrociò lo sguardo di
Arghail. Adesso che lo osservava da vicino, riconobbe i tratti
dell’uomo che aveva incrociato nella Casa della Cenere.
Stessi capelli biondo-rossicci, stessa mascella volitiva, stesse labbra
sottili. Era come se avesse davanti la medesima persona con una decina
d’anni in meno. Di sicuro avevano qualche legame di sangue,
anche se dubitava fossero padre e figlio.
- È una storia un po’ complicata. - rispose con un
sospiro, si spostò una ciocca e fece per aggiungere
qualcosa, quando i suoi occhi catturarono un dettaglio che
l’allarmò, - Mi… mi hai per caso
svestita tu? -
Il soldato scoppiò a ridere di gusto, ma davanti
all’espressione minacciosa Cavaliere del Lupo si ricompose
subito.
- No, non mi sarei mai permesso. Ho chiesto a una mia compagna di
occuparsi di voi, la tunica che avete addosso è la sua. Io
ero impegnato a convincere Ferul e Garth a non parlare con nessuno di
quello che avevano visto. -
Airis lo scrutò in cerca di una ruga, qualsiasi segno che le
comunicasse se le stesse mentendo, ma le parve sincero, quasi quanto la
smorfia risentita che gli storceva le labbra.
- Mi credete davvero un uomo capace di approfittare di una donna
svenuta? - strinse i pugni e scosse la testa, - Ho fatto un giuramento,
Generale, io non… -
- Lo so. Ma la guerra cambia le persone e toglie sacralità
ai giuramenti. - si alzò e poggiò la mano sul
petto, all’altezza del cuore, - Ti sono grata per avermi
salvato e anche per aver mantenuto celata la mia identità ai
tuoi compagni, eppure non posso dire di fidarmi di te. -
Arghail sospirò e annuì comprensivo.
- Chi devo ringraziare per avermi dato degli abiti puliti? -
domandò, sfiorando un lembo della semplice tunica in lana
azzurra.
- La incontrerete oggi. Si chiama Hallende, è la cerusica.
Dovrebbe passare a controllare le vostre condizioni a momenti. -
Il fruscio della tenda che si apriva richiamò la loro
attenzione. Entrò una donna con
l’estremità della sopravveste blu raccolta sul
braccio destro, la tunica dorata le accarezzava la punta dei piedi ad
ogni passo, stretta in vita da una fusciacca purpurea. Non appena la
vide, Arghail si affrettò ad alzarsi per lasciarle posto.
Lei si sedette e nel farlo i pendagli d’argento che le
agghindavano le trecce emisero un leggero tintinnio.
- Come vi sentite stamattina, Generale? Vedo che vi siete ripresa e che
la tunica vi calza a meraviglia. - le si rivolse con un sorriso gentile.
Airis notò gli occhi leggermente a mandorla e
l’incarnato scuro del volto, tratti tipici dei
Chàyl, il popolo che viveva nei deserti dell’Oquea
del sud.
Inspirò profondamente e spostò le ciocche ribelli
dietro la testa: - Mi sento meglio, sì. Grazie per avermi
dato qualcosa di pulito. -
- Non merito nessun ringraziamento per aver svolto il mio dovere.
Piuttosto, sono molto sorpresa di vedervi… viva. -
scambiò un’occhiata veloce con Arghail, - Il
Cavaliere del Drago ha riportato la vostra spada alla capitale e meno
di una settimana fa si sono svolti i funerali vostri e di Ignus.
Pensavamo tutti foste morta durante l’esplosione di Llanowar.
-
- No, sono riuscita a salvarmi, anche se per pura fortuna. - si
passò una mano sul viso, riportando alla mente gli eventi
accaduti dopo che quella luce accecante aveva distrutto tutto.
Il viso di Ledah riemerse con prepotenza dalla sua memoria, assieme a
tutti i momenti che avevano condiviso e alla promessa che si erano
fatti prima che lei fuggisse con i cittadini sopravvissuti.
- A parte me, qualcun altro è scampato all'esplosione? -
domandò speranzosa.
Hallende scosse la testa: - No, nessuno, a quanto sembra. Soltanto
Felther è tornato vivo da Llanowar. -
- E al campo? -
- Ho mandato i miei uomini in perlustrazione mezz’ora fa. -
intervenne Arghail, le labbra atteggiate in una smorfia amara che
già lasciava presagire cosa avrebbe aggiunto, - Ma dubito
che troveranno qualcuno di vivo. -
Airis annuì. Erano davvero tutti morti. Contrasse la
mascella e si morse le labbra, abbassando lo sguardo sulle mani strette
a pugno. Sussultò quando percepì una presenza al
suo fianco. Le dita di Hallende si chiusero sulle sue, delicate e
premurose.
- Non oso immaginare quanto abbiate patito in questi mesi. Persino per
un Generale navigato come voi dev’essere stato orribile. Se
posso fare qualcosa… -
- No, è solo... doloroso. - scrollò la testa e si
scostò, - Ma immagino che non siate venuti qui per
consolarmi. -
Hallende e Arghail non risposero. Ancora una volta i loro sguardi si
cercarono e Airis colse nei loro occhi la domanda che non avevano
ancora avuto il coraggio di porle.
- Volete sapere cosa so di Luthien, giusto? - li prevenne.
- Sì, se possibile. Abbiamo visto l’esplosione da
porto Eamone e ci siamo subito diretti qui. Abbiamo marciato
più in fretta che potevamo, ma non siamo arrivati in tempo.
- disse il soldato con un fil di voce, gli occhi viola pieni di dolore,
- Sono stati gli elfi ad attaccarvi? -
Airis spostò la sua attenzione su un braciere
all’angolo della tenda, sfuggendo lo sguardo di Arghail, che
interpretò quel gesto come un’esitazione dettata
dalla sofferenza di ricordare quello che era accaduto. Si
avvicinò e prese posto sulla sedia di fronte a lei con un
impeto tale che per poco questa non cadde. Aprì la bocca per
dire qualcosa, ma un’occhiata ammonitrice da parte di
Hallende fu più che sufficiente a fargli capire che non era
il caso d’insistere, o così Airis si
augurò, perché non avrebbe saputo come
rispondere. La soluzione più logica sarebbe stata rivelare
che erano gli elfi i colpevoli di quel massacro, ma la
verità era un'altra.
- Purtroppo non vi posso aiutare. Ho vagato a lungo per la foresta di
Llanowar, e quando finalmente sono riuscita a uscirne era
già tutto distrutto. Anche quando sono arrivata al campo, la
notte scorsa, non ho trovato altro che cadaveri. -
Al pensiero di aver depredato quei corpi insepolti, la vergogna le
incendiò le guance. Percepì il calore della mano
di Hallende a un pollice dalla guancia, ma si ritrasse in fretta.
- C’è altro che dovete chiedermi? -
- Sì. - rispose Arghail dopo un breve silenzio, sembrava
quasi cercare le parole adatte per continuare, - Hallende, puoi
lasciarci soli? -
La donna esitò, ma poi, vedendo che il soldato non sembrava
intenzionato a cambiare il suo ordine, si alzò, fece un
rapido inchino e uscì fuori dalla tenda.
Rimasti soli, Arghail si concesse ancora del tempo. Fissava Airis con
un’espressione che non lasciava trapelare nulla, lo sguardo
perso in chissà quali riflessioni. Quando finalmente
parlò, aveva un tono gentile ma fermo.
- Perché quando mi sono annunciato vi siete nascosta? -
La guerriera si irrigidì, presa in contropiede.
- Dovresti sapere che sono cieca, soldato, non potevo vedere lo stemma
sul tuo pettorale. Erano settimane che non incontravo anima viva, non
potevo di certo immaginarmi di essermi davvero imbattuta in un mio
alleato. - spiegò nervosa.
- In altre circostanze, Generale, vi crederei, tuttavia non sembrava
che vi mancasse la vista, anzi, correvate come se sapeste con chiarezza
quali ostacoli avevate davanti. Tutti eravamo convinti che usaste
qualche artificio magico per combattere, ma quando Hallende vi ha
spogliata non vi ha trovato niente addosso, né tatuaggi,
né artefatti, né strane gemme.
Inoltre… - le indicò gli zigomi, - non avete
più le cicatrici attorno agli occhi, quelle che si dice vi
siate procurata quando vi è stata tolta la vista. -
Airis non seppe come ribattere. Pensò rapidamente a una
scusa che potesse giustificare quell’improvvisa guarigione,
ma non le venne in mente nulla di convincente.
Davanti al suo silenzio, Arghail incalzò: - Ascoltate,
qualsiasi cosa vi sia accaduta, qualsiasi cosa abbiate fatto per
sopravvivere io non vi giudicherò. Il vostro esercito
è stato spazzato via da un’esplosione, avete
vagato per più di un mese in una foresta distrutta e poi
rivissuto lo stesso incubo quando siete passata da Luthien. Per quanto
sangue e devastazione abbiate visto, alla morte non ci si abitua mai.
Vi prometto che quello che mi direte rimarrà tra me e voi. -
- Mi stai chiedendo di fidarmi di te? -
- So che è difficile e non posso pretendere che mi riveliate
tutto, però voglio che sappiate che vi ammiro, Generale. Non
avete niente di cui vergognarvi, non con me. -
Quella parola aveva un suono meraviglioso: fiducia. La guerriera se la
ripeté ancora e ancora, assaporandola nella mente. Guarda
caso l’ultima persona su cui aveva fatto affidamento era la
stessa che adesso avrebbe dovuto salvare. Con Ledah però era
stato diverso, era stata un’alleanza dettata dal bisogno di
sopravvivenza, che in seguito si era evoluta in qualcosa di
più, qualcosa che ancora non riusciva a capire. E ora
qualcuno la pregava di buttarsi di nuovo, così come aveva
fatto la prima volta che aveva incontrato Cyril.
Incrociò gli occhi con quelli di Arghail e lo
studiò in silenzio per capire cosa gli passasse per la
testa. Lui sostenne il suo sguardo senza avvicinarsi, senza muovere un
muscolo.
- Non posso rivelarti quello che è successo, non ora. Quello
che so è troppo importante e non posso permettermi errori. -
allungò la mano e gliela posò sulla spalla, - Per
favore, non farmi ulteriori domande e mantieni il segreto sulla mia
identità. È importante che nessuno sappia che
sono ancora viva. Quando arriverà il momento, quando
sarò certa che potrò fidarmi di te, prometto di
spiegarti ogni cosa. -
- Me lo state chiedendo? -
- No, soldato. È un ordine. -
Arghail annuì e abbozzò un sorriso: - Mi sembra
un buon inizio. -
- Diciamo di sì, ne ho avuti di peggiori. -
- Allora spero che un giorno me li racconterete. Bene, è
giunto il momento di andare. Riferirò ad Hallende di non
parlare con nessuno di quello che sa. - disse alzandosi in piedi.
- E ai tuoi compagni? Cosa dirai? E all’ufficiale superiore? -
- Ai miei compagni dirò che ieri notte ho trovato una
sopravvissuta e che la nostra cerusica ha rinvenuto i sintomi della
febbre rossa. Nessuno oserà avvicinarsi. Per quel che
riguarda la seconda domanda… - il sorriso sulle sue labbra
si allargò, - Sappiate che siete al cospetto del capitano
della guarnigione, ho una certa influenza. -
Ammiccò gentile, poi spostò il lembo della tenda
e la lasciò sola. Airis tornò a stendersi sulla
brandina e si tirò la coperta fino al petto. Era tornata in
vita in un corpo che non era il suo, senza niente, disarmata e con una
missione impossibile da portare a termine. Realizzò con
amarezza che l’unica cosa che ora poteva fare era sperare di
aver riposto bene la sua fiducia, che quell’atto di fede non
le si sarebbe rivoltato contro.
“Meno di sei settimane all’eclissi, prima che
Lysandra compia il rito e che Ledah diventi Aesir.”
Si toccò la bocca con una mano. Le labbra erano fredde e il
gelo era sceso anche sul cuore. Sarebbe riuscita ad abituarsi in tempo?
La luce del sole calante indorava la tenda e l’orchestra
della foresta si preparava ad accogliere la notte, ma Airis non
poté cedere alle lusinghe del sonno, il pensiero che volava
a Ledah e alle parole che non le aveva mai detto.