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Autore: Ias    26/02/2017    1 recensioni
Hanno smesso di fare favori all’altro; non dopo che Galen se n’è andato, non dopo tutte le conseguenze provocate dalla sua decisione.
{ Galen/Orson | Raccolta | 11579 parole | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Galen Erso, Lyra Erso, Orson Krennic
Note: Missing Moments, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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X


Il vino blu fluisce nel bicchiere. Krennic lo versa generosamente, e lo versa per due persone.

 «Bevi ancora Toniray». Non è una domanda. Krennic gli porge il calice con un’allegria che si estende solo sulle labbra. Quando Galen non lo accetta, Krennic inclina la testa da un lato.

 «Andiamo, Galen. In onore dei vecchi tempi».

 Krennic mantiene fermo lo sguardo. Le sue dita reggono lo stelo con leggerezza, ma lui si tradisce con una contrazione nel muscolo della mandibola. Galen si chiede tra sé e sé cosa succederebbe se rifiutasse. Ormai la speranza è un’emozione troppo delicata per applicarla a Krennic, ma la tensione che gli si legge nell’espressione ne ha una vaga somiglianza. Galen la vuole vedere frantumata.

 Forse è solo per abitudine se prende il bicchiere. L’allegria sulle labbra di Krennic arriva per un attimo a sfiorargli gli occhi, come il guizzo della lingua di un serpente. Un momento di trionfo, o probabilmente solo sollievo.

 «Allora» dice Krennic, appoggiandosi allo schienale della sedia e portandosi il calice al sorriso fremente. «Parlami dei tuoi recenti progressi».

 Il vino è aspro nella bocca di Galen, ma lui lo inghiotte del tutto.






XI


Krennic lo trova in laboratorio: è la prima stanza che va a controllare. Ormai per loro è una costante.

 Le luci sono per la maggior parte spente, e Krennic si disinteressa dall’accenderle. Sul piano di lavoro c’è una bottiglia di liquore, mentre sotto il bancone rinviene Galen accasciato; quando alza la bottiglia, scopre che è praticamente vuota. L’odore di alcool nell’aria è talmente forte da farlo lacrimare. Con la punta di uno stivale dà una spintarella a Galen e viene premiato con un mormorio di protesta. Oggi la situazione è peggiore del solito. Krennic è perennemente ignaro del perché.

 In passato avrebbe fatto visita ai quartieri di Galen con una bottiglia di vino per discutere di lavoro, lasciando scorrere con lentezza le lunghe ore della giornata. Adesso Galen beve solo per raggiungere un unico scopo, un atto di violenza contro la propria mente.

 Krennic dovrebbe chiamare qualcuno – una squadra medica, forse, o giusto un paio di guardie per ricondurre Galen in camera sua. È quello che fa di solito. Stasera, invece, afferra la bottiglia sul bancone e si siede per terra accanto a Galen. Porta l’imboccatura alle labbra, sorseggia, e quasi sputa.

 «È whisky Dodbri?» domanda suo malgrado. Galen non è nelle condizioni di rispondere. «È da quando eravamo entrambi nel Programma Futuro che non ne bevo. Questa roba dovrebbe essere illegale». Krennic parla sia tra sé e sé che con Galen, riempiendo l’aria finora cadenzata solo dal respiro ansante dello scienziato.

 «Quelli sì che erano bei tempi» commenta ancora, e tracanna nuovamente il liquore.

 Quando guarda al suo fianco, incrocia gli occhi aperti di Galen che lo osservano. Aveva dato per scontato che l’altro non si sarebbe ridestato fino a tarda mattinata. Galen si allunga per agguantare la bottiglia e, scrutando lo sguardo che ha davanti, Krennic è mezzo tentato a passargliela. Quando invece si ritrae, le sopracciglia di Galen si aggrottano.

 «Per favore» biascica.

 «Ne hai avuto abbastanza». È una constatazione così ovvia che Krennic nel pronunciarla si sente uno stupido. Improvvisamente si rende conto che si tratta della prima volta dopo parecchio tempo che Galen gli chiede qualcosa. Hanno smesso di fare favori all’altro; non dopo che Galen se n’è andato, non dopo tutte le conseguenze provocate dalla sua decisione.

 Galen si affanna a raddrizzare la schiena contro la base del bancone. Adocchia la bottiglia tra le mani di Krennic, ma non compie ulteriori sforzi per prenderla. «Mi piace ricordare» asserisce. La sua voce è una soffice poltiglia di consonanti farfugliate e vocali protratte. «Ero… felice. All’epoca».

 Krennic ride, a dispetto della fitta tagliente come una costola incarnita che avverte nel petto. «Non avevi mai l’aria di esserlo» replica. «Eri serio, come del resto chiunque a scuola. Ti comportavi da adulto ed eri ossessionato dal tuo lavoro sin dal giorno in cui ti ho conosciuto».

 «Mi piaceva il lavoro» commenta Galen con un sospiro.

 «Ma adesso non lo sei più?» Oh, Krennic è consapevole di quanto sia ingiusto. Lui è sobrio; Galen è a malapena lucido, e la sua capacità di mentire non è mai stata tanto esigua. Krennic ha un netto margine di vantaggio e non può fare a meno di trarne profitto. «Potresti tornare a essere felice, in qualche modo?»

 La testa di Galen cade all’indietro appoggiandosi contro il bancone, ma lui persiste a tenere le palpebre sollevate. Fissa il vuoto con un’espressione assente. «Sono solo» bisbiglia. È poco più che un sussurro. Krennic è obbligato a piegarsi in avanti per coglierlo, e una volta avvicinatosi non riesce a costringersi ad allontanarsi.

 «Tu hai me». Dice quelle parole con tutta la gentilezza di cui è capace. Lentamente, come se Galen fosse un animale selvatico che lui rischia di spaventare, Krennic posa una mano sulla spalla dell’uomo.

 Galen si volge a squadrarlo. Le sue iridi sono due luci splendenti nell’oscurità. «No, non è vero» ribatte. «Non più».

 Dopodiché Krennic chiama le guardie. Quelle scortano Galen fuori dalla stanza e devono praticamente portarlo in braccio. Krennic rimane indietro ancora per un po’ a ispezionare ogni armadietto e ogni cassetto, fino a quando non raduna insieme tutto l’alcool presente nel laboratorio. Ha intenzione di versarlo nel tubo di scarico, ma una bottiglia gli sfugge di mano e va in frantumi contro il muro, e presto la imitano le seguenti. Lascia a Galen il compito di ripulire il disordine la mattina dopo.

 Nessuno dei due fa alcun cenno al riguardo. È un favore reciproco.






XII


Galen sedeva sul lato sbagliato della scrivania e fissava il muro alla sinistra dell’orecchio di Krennic. Quest’ultimo aveva lo sguardo indirizzato verso il datapad in fronte a sé ma, a giudicare dall’insolita immobilità del suo volto, stava in realtà esaminando una pagina vuota. Galen sapeva che lo faceva solo per lasciarlo in attesa. Krennic si abbassava costantemente a capricci del genere. In effetti ormai erano uno dei tratti che lo caratterizzavano.

 Sebbene fosse un abile bugiardo, Krennic tradiva fin troppo palesemente le proprie emozioni. Un lieve tic sotto l’occhio. Le dita che tamburellavano sulla scrivania. Le labbra che si contraevano involontariamente, per poi appianarsi con rapidità. Krennic aspettava che Galen si spazientisse, parlasse per primo e perdesse il suo vantaggio. Lui però si rifiutava di concedergli tale soddisfazione, non quando stava per dargliene una maggiore. Per la prima volta dopo parecchio tempo, Galen aveva bisogno di un favore. Stringeva le mani a pugni alla sola idea. Si costrinse a rilassarle. Era da un pezzo che non entrava in quella stanza e vedeva Krennic dal vivo e non attraverso un olovideo. Per quanto riguardava il lavoro, normalmente doveva compilare una serie di moduli d’ordine impersonali e spedirla al dipartimento di Krennic senza la necessità di conversare con il direttore. Krennic interveniva solo se i materiali su cui Galen operava erano incredibilmente rari o costosi. Ma stavolta… stavolta era diverso. E Galen non poteva più attendere.

 «Allora» iniziò Krennic, spegnendo il datapad e posandolo finalmente via. Si appoggiò allo schienale della sedia e inclinò la testa da un lato. «Come posso aiutarti, Galen?»

 Galen aveva scelto le sue parole con cura quando si era reso conto di cos’avrebbe domandato a Krennic. Quelle gli riposavano sulla lingua come una cucchiaiata di trementina. Prima era stato facile promettere a se stesso che non avrebbe mai più chiesto niente all’altro. Ma a seguito degli sforzi instancabili di Krennic, com’era rapidamente sfumato il suo giuramento!

 «La prossima settimana saranno trascorsi tre anni dal funerale di Lyra» spiegò Galen. «Voglio andare a farle visita».

 Un breve attimo di stasi assoluta calò sul viso di Krennic. Da una parte sorrise e girò il capo come per constatare l’assurdità della proposta di Galen, dall’altra i suoi occhi rimasero freddi dalla rabbia. «Non dirai sul serio».

 L’espressione di Galen non cambiò. Krennic si ritrasse ulteriormente e lo inchiodò con una faccia incredula che tuttavia non riusciva a nascondere l’amareggiato sussulto della sua bocca. «Siamo a un punto cruciale nello sviluppo delle nuove strutture di cristalli. Non posso fare a meno di te».

 «Puoi» ribatté Galen, «e lo farai».

 Un rischio calcolato, inimicarsi Krennic in quella maniera. Quest’ultimo deglutì e distolse lo sguardo, tirandosi nervosamente i bordi dei guanti. Il suo malcontento si manifestava attraverso una catena di azioni interconnesse tra loro, che danzavano lungo i nervi della parte superiore del suo corpo, muovendolo come una marionetta.

 «Avresti dovuto compilare una richiesta di…»

 «Tu l’avresti respinta» replicò Galen.

 Krennic non lo contraddisse. Invece si alzò dalla sedia e si diresse verso la finestra, le stelle incorniciate da un rettangolo metallico. Fuori si vedeva la prua bellica di un caccia stellare che si faceva strada nello spazio esterno. Krennic unì le mani davanti a sé, il volto fuori dal campo visivo di Galen. In momenti come questi, Galen non era in grado di indovinare i pensieri di Krennic.

 «Permettimi di venire con te, Galen». Non si volse quando annunciò la sua decisione. «Non dovresti affrontare tutto questo da solo».

 C’era una nota pungente nell’offerta di Krennic, così inquieta da parer quasi derisoria. Obbligare Galen a supplicarlo perché gli fosse elargita la possibilità di visitare la tomba di sua moglie non era abbastanza. Nemmeno strappargliela via era stato abbastanza. Pur di fargli un dispetto, Krennic voleva addirittura intrufolarsi nello struggimento di Galen; come se potesse cancellare l’esistenza di sua moglie negandogli l’opportunità di stare in compagnia del suo ricordo.

 Eppure era questo il prezzo da pagare.

 Quando Krennic si girò nuovamente, Galen annuì.




Faceva freddo a Coruscant. Per questo la sua ferita alla spalla aveva cominciato a pulsare. Doveva costringere di continuo le sue dita a fermarsi a metà strada pur di non toccarla, un impulso infantile che lo spingeva a stuzzicare la sorgente del male che provava. Ogni qualvolta che sorprendeva se stesso a farlo, si sforzava di abbassare le mani e di ricongiungerle mollemente, mentre aspettava che Galen finisse di studiare la lapide di sua moglie. Non aveva previsto che sarebbero rimasti tanto a lungo al cimitero, ma avrebbe accordato a Galen tutto il tempo che gli serviva: gli doveva quella gentilezza.

 Quando Galen alla fine si ingobbì e si allontanò dalla tomba nera, non incrociò lo sguardo di Krennic. Sembrava pronto a passargli davanti senza rivolgergli una parola, tuttavia all’ultimo si fermò al suo fianco. Krennic incontrò gli occhi accanto a sé e serrò le labbra alla vista del dolore nell’espressione di Galen.

 «Grazie».

 La gratitudine di Galen era rigida e senza sentimento, ma fornì a Krennic una scusa per stendere il braccio e stringergli la spalla. Non allentò la presa finché non misero abbastanza distanza tra loro e la lapide di Lyra, silenziosa e incapace di fermarli.






XIII


«Sei furioso. Rispetto le tue ragioni».

 Krennic non è avvezzo a simulare la solidarietà. Malgrado abbia tentato ripetutamente di essere gentile con lui, l’insofferenza nella sua voce è per Galen come veleno versato in gola: se la sente fluire dentro di sé come dita che strisciano in direzione delle sue viscere.

 Fissa i guanti di Krennic, anziché rischiare di rivelare le sue carte scrutando l’altro negli occhi. Krennic è seduto sullo spigolo della scrivania, mentre davanti a essa è accomodato Galen su una poltrona; con le mani si riaggiusta l’orlo dei guanti come se la pelle aderisse male al suo scheletro. Non ottenendo una risposta, Krennic sospira. «Non c’è bisogno di fare il broncio. Se fosse di peso a me, ti concederei tutto il tempo che ti occorre. Ho le mie disposizioni, però, così come tu hai le tue. Capirai di certo».

 Galen si morde la lingua e protrae il silenzio. «Quello che comprendo» ribatte alla fine, «è che mi chiedi di fare i tuoi comodi sacrificando le due settimane che mi servono per i test di sicurezza».

 Nel pronunciare quelle parole, alza il mento. Krennic sporge il busto in avanti, il gomito posato sulla coscia per esaminare l’espressione di Galen. Con la luce penetrante dell’ufficio, le rughe intorno alla bocca e le zampe da gallina gli intagliano il volto come molteplici cicatrici.

 «Bene». Le iridi di Krennic sono vuote. «Allora sai cosa devi fare».

 Galen serra le mani. Il suo gesto non sfugge all’attenzione di Krennic. Le labbra del direttore si distorcono e si arricciano e assomigliano a un sottile filo di fumo. «Sei in collera, Galen?» Si piega ulteriormente in avanti – la sua voce si fa bassa e da essa scaturisce una compassione artificiosa. «Sono stato indulgente con te. Non hai mai imparato a seguire davvero gli ordini, e guarda dove ti ha condotto questo tuo difetto».

 «Indulgente?» Galen si alza in piedi prima ancora di realizzarlo, la sedia spinta indietro che cade per terra. «È così che descriveresti il trattamento che mi hai riservato?»

 Krennic, a proprio onore, non sussulta nemmeno. È solo quando corregge la sua postura che Galen si rende conto di quanto gli è vicino, delle sue inesistenti speranze di potersi ritrarre.

 «Sì» replica piano Krennic. «Ho cercato di accontentarti in tutti i modi, Galen, che ti piaccia ammetterlo o no. Ti ho dato tutto: il tuo laboratorio, la tua squadra, i tuoi libri, il tuo appartamento. Non c’è niente che io non ti abbia dato senza badare a spese». Krennic inclina la testa da un lato, il viso falsamente afflitto. «L’unica cosa che ti domando è di ricevere qualcosa in cambio».

 «Io non ho voluto niente di tutto questo» prorompe Galen. Ai suoi fianchi ha le mani strette a pugno, ma questa volta Krennic non lo nota. «Prima che ti decidessi a essere una persona generosa, mi hai tolto tutto».

 L’esasperazione invade lentamente i tratti della faccia di Krennic, fremente mentre la mascella si irrigidisce. Non c’è alcun cenno di benevolenza nel suo sguardo, solo il disprezzo. Galen vorrebbe afferrargli i bulbi oculari e strapparglieli dalle orbite. «Oh, Galen, non dirmi che per te la felicità è grattare la terra su quell’ammasso di roccia che chiamavi casa. Ti ho salvato da quella vita, e il minimo che potresti fare è dimostrarmi la tua gratitudine…»

 Il pugno di Galen lo colpisce con una forza tale da farlo voltare. Le dita di Krennic si reggono gravi alla superficie della scrivania, urtando e rompendo sul pavimento un datapad. A Galen la mano inizia quasi subito a pulsare. Lui a stento la riconosce come sua. Nella stanza regna il silenzio, salvo i respiri ansanti di entrambi.

 Osserva Krennic che raddrizza la schiena sfiorandosi la gota, la bocca schiusa per lo shock o per il male che prova o ambedue, il rosso che sboccia dal suo labbro nel punto in cui la pelle si è spaccata a causa dei suoi denti e del pugno di Galen. L’ira brucia nei suoi occhi: il suo volto ne è ricolmo. Tuttavia, mentre Krennic si scioglie in un sorriso insanguinato, dietro a esso qualcosa viene giù come una valanga, che si muove e si avvicina sempre più.

 «Ebbene» dice, strofinandosi con le dita inguantate la bocca e tracciando un segno rosso sulla guancia, «se è così che vuoi procedere».

 Krennic lo ghermisce per l’uniforme. Galen è in attesa di essere colpito a sua volta; Krennic lo strattona a sé e lo bacia.

 Si sente travolto da troppe sensazioni al contempo. La stretta di corpi e denti, il sapore del ferro e il calore delle labbra di Krennic – per un attimo Galen è solo capace di immobilizzarsi, i pensieri che si innalzano verso il caos e che paiono una schiera di storni che oscura il cielo. E in quel momento Krennic gli si preme addosso maggiormente, gli inclina la testa all’indietro, gli offre la carezza della sua lingua. Galen si apre a Krennic senza riflettere, aspettando di ritornare in sé, aspettando che il suo senso del disgusto e della rabbia si concretizzi in azioni, consapevole di dover mettere freno alla situazione, farla finita immediatamente – ma i suoi denti graffiano il labbro spaccato di Krennic, e Galen li affonda con più insistenza dopo che l’altro caccia un lieve gemito di dolore proveniente dalla gola. Quando poggia le mani sulle spalle di Krennic, c’è un istante in cui non sa come proseguire. Alla fine, però, trionfa il suo istinto moralista. Urta Krennic con l’intenzione di spintonarlo via; tuttavia, le dita di Krennic gli si aggrappano salde all’uniforme, e la sua ritirata di pochi centimetri subisce una battuta d’arresto.

 Per qualche secondo si limitano a fissarsi a vicenda. Lo sguardo di Krennic luccica dall’eccitazione, le labbra gonfie, tuttora insanguinate; Galen lecca impulsivamente le sue, e assapora il rame. Quando Krennic si avvicina a lui una seconda volta, lo fa lentamente, deliberatamente, così da dare a Galen la scelta di allontanarsi. Galen non ci riesce, così come non riesce a districarsi dalla presa di Krennic sulla sua divisa.

 «Ti accordo una settimana per eseguire i tuoi test» sussurra Krennic, la bocca che si unisce piano a quella di Galen nell’annunciare il compromesso, un mezzo bacio amaro.

 Galen si rende a lui malleabile senza pensarci, la mente che è un turbinio di gusti e calore e suoni. Tra pochi minuti le cose riprenderanno a essere come prima. Sarà allora che potrà odiare se stesso con tutto il cuore. Per ora, però, «Una settimana e mezzo».

 Krennic ride delicatamente contro il suo respiro, unendo le loro fronti. «Una settimana, Galen. Nulla di più». L’ultimo bacio sulle labbra di Galen è a stampo ma nient’affatto casto. Poi Krennic rilascia l’uniforme di Galen e indietreggia, la mano alla bocca come per strofinarsi via il resto del sangue, o forse per assaporarlo. Volge le spalle a Galen mentre si dirige verso l’altro lato della scrivania.

 «Se mi colpisci nuovamente, ne subirai le conseguenze». E all’improvviso Galen è congedato.

 Galen è lì lì per chiedere quali saranno le conseguenze. Bloccato sul posto, per un momento è tentato a farlo. Ma per farsi un’idea, gli bastano il tremore che ha alle gambe e l’umidità sulle sue labbra.

 Si gira e se ne va senza aggiungere una parola, prima che ceda alla tentazione e scopra le ragioni esatte per cui le sue mani strette a pugno si struggono tanto per tornare da Krennic.






XIV


«Non è niente, Galen, smetti di starmi addosso…»

 «Eri a un metro di distanza dal trasmettitore di cristalli quando è esploso. Non è una cosa da poco». Galen pronuncia queste parole con il tono più monotono del suo repertorio; come se, tenendo ferma la voce, potesse mascherare il modo con cui le sue dita continuano a serrarsi attorno al braccio di Krennic.

 Al reparto medico sono già stati portati due tecnici con ferite causate dai frammenti surriscaldati, ma Krennic, naturalmente, ha sbraitato contro chiunque avesse suggerito l’idea che anche lui avesse bisogno delle attenzioni di un dottore. Rimanendo al laboratorio per il lasso di tempo necessario per assicurarsi che l’operazione di smaltimento dei materiali procedesse, la sua uniforme si è striata di bruciature e di linee vermiglie. Adesso, nell’intimità del suo ufficio, Krennic sembra solo esausto. Le tracce di rosso risaltano sul bianco della divisa. Lui sostiene che il sangue è di qualcun altro.

 Galen comincia a dubitarlo.

 «Quel sangue è tuo» constata. Non è una domanda e Krennic non lo nega. Invece si scuote di dosso il braccio di Galen e affonda nella sedia, i movimenti giusto un po’ troppo cauti, un po’ troppo sofferenti.

 «I calcoli del sifone di calore e dei sistemi di raffreddamento non erano errati» dice tra i denti. Allunga il braccio sinistro per prendere il suo datapad, fa una smorfia, e poi lo afferra con la mano destra. «Li ho controllati io stesso. Può darsi che si sia trattato di un difetto delle sostanze adoperate. Forse abbiamo sbagliato a usare i pilastri in trirame, se sottoposti a vampate intense diventano friabili…»

 «Non era il metallo il problema. Il cristallo non ha retto al consumo energetico». Galen si dirige verso il pannello di comunicazione sulla parete. «Richiamo la squadra medica».

 Krennic ride. La sua allegria apparirebbe caustica e disinvolta, se non fosse per il successivo colpo di tosse. «Mi sottoporrò alle loro cure non appena scopriamo cosa è andato storto».

 Galen esita con il dito posato sul pulsante di collegamento. «Hai un kit medico nel tuo ufficio?»

 «Il cassetto più in basso».

 Galen si allontana dal quadro di controllo per pescare il kit dalla scrivania di Krennic. «Ricontrolla i miei calcoli. Mi accerterò che tu non muoia dissanguato».

 Le sue parole sono affilate. Probabilmente è perché suonano troppo vere. È trascorso diverso tempo dall’ultima volta che Galen ha permesso a se stesso di provare alcunché per Krennic. Dopo settimane di furia, mesi di odio e anni di fredda cooperazione, la preoccupazione che prova per la salute dell’altro gli pesa sul petto come un macigno. Eppure è come se fosse quello il suo posto.

 Apre la fibbia sinistra del mantello di Krennic e fruga nel kit per trovare qualcosa che gli consenta di tagliare via la parte rovinata della divisa. Recidendo la stoffa dalla spalla al collo, Galen denuda la pelle sporca di fuliggine e del color rosso; c’è un taglio profondo grande quanto una nocca che gronda ancora di sangue. È meglio di quanto avesse sperato. Ma i suoi occhi sono attratti da un groviglio di tessuto cicatrizzato a pochi centimetri più in là, una vecchia ferita fatta guarire velocemente, non in modo naturale. Lui riconosce il segno del colpo di un blaster. Non si chiede come Krennic se lo sia procurato: ha assistito alla scena. Vedere la testimonianza di quel giorno su Lah’mu è come avere di fronte a sé un fantasma, e Galen si sente agghiacciato.

 «I tuoi calcoli sono giusti» sentenzia Krennic, lanciando il datapad sulla scrivania. «Dev’essere stata la struttura del cristallo. Dovremmo sperimentare altre tecniche per tagliare…»

 Krennic sibila tra i denti mentre Galen gli fascia la spalla. La benda ricopre sia la nuova che la vecchia lesione. Per un attimo due uomini coesistono nello stesso corpo: l’assassino e il visionario, il mostro e l’amico. Quando Galen solleva lo sguardo, però, l’unica cosa che vede è Krennic, che racchiude in sé tutte quelle etichette. L’amore e l’odio sono due emozioni spaventosamente simili.

 «Ci penseremo più avanti» risponde piano Galen.

 Si alza per chiamare la squadra medica. Dalle sue dita cola il sangue di Krennic.






XV


Non aveva senso andarci. Lo sapeva; già ne era consapevole all’incrocio nel corridoio mentre svoltava nella direzione opposta alle sue abitazioni, per poi bussare alla porta ed entrare senza invito. Avviandosi verso la camera da letto, i suoi sospetti furono subito confermati.

 Galen scoccò un’occhiata all’uomo e sospirò. «Va’ in infermeria».

 Krennic lo fissò con occhi malevoli e contornati di rosso. «No» gracchiò.

 «No, non devi, oppure no, non vuoi? Se è la prima posso offrirti una lista di ragioni per cui hai torto, e la seconda può essere risolta inviando una veloce comunicazione a un dottore».

 Krennic si limitò a lanciargli uno sguardo truce, il cui effetto era però un po’ rovinato dall’aspetto patetico del suo proprietario. Probabilmente era persino troppo stanco per litigare.

 Galen lo aveva visto di rado trasandato a tal punto: aveva i capelli appiccicati alla fronte in volute umide, le borse sotto gli occhi tese come ombre al tramonto. La pelle luccicava di sudore freddo. Era difficile credere che qualche ora prima fosse in piedi a sbraitare comandi. Galen gli aveva praticamente ordinato di riposarsi un po’, ma Krennic lo aveva sbeffeggiato e si era precipitato fuori alla ricerca di qualcun altro su cui sfogare la propria frustrazione. Era realistico presumere che, prima di collassare a letto, avesse diffuso il suo virus in mezza stazione.

 Galen non riusciva a spiegarsi il motivo che lo aveva condotto negli appartamenti di Krennic. Lui non era preoccupato. Anche in laboratorio gli era stato lampante l’imminente crollo fisico di Krennic. Se Krennic fosse morto di febbre e testardaggine, il compito di Galen si sarebbe reso solo più difficile. Qualunque supervisore imparziale avrebbe ormai da tempo notato il suo complotto. Lui contava sull’affetto e sulla cecità dell’altro per non venire scoperto. Krennic gli serviva vivo.

 Si sedette sul bordo del letto; l’altro fece una smorfia, come se trovasse dolorosa ogni impercettibile scossa del materasso. Prima che potesse opporsi, Galen si protese in avanti e premette il palmo sulla fronte dell’uomo. Proprio come ipotizzato, la pelle di Krennic ardeva di calore.

 «Mi terranno in infermeria per una settimana» lamentò il malato con voce roca. «Il progetto non può aspettare tanto a lungo».

 «Sopravvaluti la tua importanza. Il lavoro può proseguire senza di te… per almeno una settimana».

 La mascella di Krennic si contrasse. «Se sei qui per dirmi che sono superfluo allo sviluppo…»

 «Orson. Sta’ zitto».

 Come previsto, quella piccola informalità troncò le proteste di Krennic, i cui occhi erano appannati, e Galen finì per scostargli i capelli dalla fronte sudata, protraendo il contatto.

 «Se ti porto dell’acqua, la berrai?» Krennic annuì. Galen tornò subito dopo con un bicchiere pieno e un panno fresco da poggiargli sulla fronte. Nel posarlo, un mormorio penoso sfuggì dalle labbra dell’altro.

 «Ho solo bisogno di dormire» borbottò. Le sue palpebre si abbassarono. Forse si era già addormentato. Tuttavia, quando Galen ritrasse la mano, Krennic allungò le dita per toccargli il polso. Con i polpastrelli vagò sulla pelle di Galen e lui, per un momento, glielo permise.






XVI


La navetta è pronta a partire. Atterra sulla piattaforma come un enorme uccello nero, le ali ripiegate, il tettuccio di vetro vuoto. Una vista nauseante. Krennic preferisce fissarla, piuttosto che rivolgere lo sguardo verso l’uomo che gli è di fronte; Galen Erso è paziente come sempre e attende il suo inevitabile congedo.

 Krennic non ha ragioni per non salutare Galen strada facendo. Non può nemmeno affermare di star cercando di rimandare la partenza: è ciò che sta facendo da settimane, sin dal giorno in cui Galen gli ha detto che aveva intenzione di supervisionare personalmente la raffineria di cristalli a tempo indeterminato. Ha già fatto tutto quanto era in suo potere per ritardare questo momento. Adesso ciò che gli rimane è quel minuto scarso che può raschiare rifiutandosi di aprire bocca. A quel pensiero gli angoli delle sue labbra hanno un tic, sorridendo con amarezza. Raramente permette a se stesso di essere petulante. È una novità che lo allieta.

 «Ne sei sicuro?» È una domanda opinabile e Krennic gliela pone senza guardarlo. Se Galen non lo fosse, loro non sarebbero lì.

 «Sì, sono sicuro».

 Krennic congiunge le mani davanti a sé e inclina la testa da un lato, la faccia che si contorce in un’espressione simile a una risata o a un ringhio. «Bene».

 Finalmente Krennic incontra gli occhi di Galen. Non ha idea di cosa si aspetti di vedere; sa solo che non ottiene tale cosa. Tutte le notti che ha trascorso camminando su e giù nella stanza centrale dei quartieri di Galen lungo il corso delle scorse settimane – discutendo e poi litigando e poi ancora urlando – aleggiano nell’aria. Forse Galen vorrebbe aggiungere altro. Ma qui hanno un pubblico: i tecnici navali, le guardie, gli ingegneri che Galen ha scelto per accompagnarlo. Occhi e orecchie vaganti dappertutto. A loro due rimane solo il tempo necessario per scambiare i propri saluti. Krennic è quasi tentato di negare il suo a Galen.

 Gli tende rigidamente la mano. «Mi aspetto un resoconto via HoloNet entro una settimana dal tuo arrivo». Nessuna cordialità tra lui e Galen. Non più.

 Galen accetta la stretta. «Lo riceverai».

 Krennic prova a discernere l’esistenza di una specie di scusa seppellita sotto quelle due parole. Riesce quasi a convincere se stesso di sì, prima di lasciar scivolare via le dita di Galen dal suo palmo.

 Aveva in mente di avviarsi non appena Galen si fosse girato, ma invece si ritrova a scrutare l’uomo mentre sale sulla rampa della navetta e scompare. Si trattiene nell’hangar anche quando i motori vengono accesi, le ali affilate color carbone si dispiegano e la navetta decolla, dirigendosi nello spazio nero oltre il meraviglioso mondo di metallo che lui e Galen hanno costruito insieme. Krennic la osserva fino a quando non sparisce nell’oscurità.






XVII


Ai pannelli negli appartamenti personali di Galen sembrava soddisfacente la prospettiva di assomigliare a delle finestre, anziché esserle per davvero. Il vetro era sottile, ma comunque abbastanza robusto da sopravvivere al martellio dei diluvi più feroci, regalando allo spettatore solo una visuale offuscata del paesaggio di Eadu. In ogni caso, fuori non c’era niente da osservare.

 «Qui non smette mai di piovere?»

 Le lenzuola gli frusciarono dietro. «Ancora aspetto che succeda».

 Krennic allungò un dito e tracciò sagome nel vapore condensato sulle lastre traslucide. «Ti sei esiliato in un mondo commiserevole».

 «Sono venuto qui per il bene del nostro lavoro, Krennic. Non sono in esilio».

 «Allora torna».

 Krennic si voltò. Dalle finestre giungeva l’unica fonte di luce nella stanza, la quale, sfocata dalle nuvole e dall’acqua e dal vetro resistente agli urti, era poco più che una sfumatura blu scuro in mezzo alle ombre. Galen si sedette sul letto, le mani sulle cosce; aveva un’aria stanca, confusa, il petto nudo che si alzava e si abbassava e che faceva intuire che stava mentalmente tenendo il conto di ogni suo respiro.

 «Qui hanno bisogno di me» rispose sommessamente.

 «No, non è vero» sbottò Krennic, incapace di reprimere l’irritazione nella sua voce. «Sei troppo qualificato per un compito del genere e lo sai bene. C’è bisogno di te dove la tua mente può essere usata al pieno delle sue potenzialità. Con me».

 «Mi auguro che non ti stia facendo intralciare dai tuoi sentimenti».

 Una risata amara sgorgò dalla gola di Krennic e si tenne in equilibrio sulla sua lingua, contorcendogli silenziosamente le labbra. «Ricordo di averti detto qualcosa di simile diversi anni fa. Eppure hai abbandonato tutto quello che avevamo creato assieme».

 Il lato del viso di Galen contenuto nel suo campo visivo era inespressivo. Gli era sempre stato così difficile capire cosa provava? Krennic avanzò un passo, ma guardando le ombre, quelle si limitarono a inscurirsi ulteriormente. «Sono di nuovo qui a tua disposizione».

 Se ci fosse stata una nota di disgusto nel tono di Galen, forse lui lo avrebbe sfidato. La voce di Galen era mite, però, dissimilmente dalle implicazioni che le sue parole contenevano. Krennic si sistemò sul bordo del letto con un sospiro. Non ricordava più l’ultima volta che lui e Galen avevano potuto godere della catarsi di un litigio. Persino quello che facevano a letto era solo un sollievo temporaneo, il sostituto della liberazione che entrambi cercavano ma non trovavano.

 «Resta pure per tutto il tempo che ritieni opportuno» capitolò Krennic. «Non mi impiccerò».

 La pioggia tempestava contro il vetro spesso delle finestre come il suono dei disturbi elettronici in un canale di comunicazione. «Rifletterò sulla tua proposta» replicò Galen, con un tocco del vigore necessario affinché ambedue potessero far finta che lui parlasse sul serio.

 Krennic si protese in avanti per premere le sue labbra sulla guancia di Galen, sfiorando la barba corta e l’odore di sapone economico. Tuttavia Galen girò il capo per incontrare la bocca di Krennic con la propria, e in quell’istante Krennic gli credette completamente: che Galen un giorno avrebbe scacciato via i fantasmi che lo seguivano in qualunque stanza entrava Krennic, che si sarebbe ricordato di tutte le imprese che avevano compiuto assieme, che sarebbe tornato. Lasciò che il bacio si protraesse per un po’, caldo e lento. Una specie di promessa. Una che era stata stretta senza parole.

 Quando Krennic si ritrasse, gli occhi di Galen si ridussero a due punti luminosi nell’oscurità, e gli fu facile convincersi che il baluginio di colpa che vi scorse non era altro che uno scherzo della luce dovuto al temporale.

 In un secondo momento Krennic si rese conto che Galen gli aveva dato un bacio d’addio. Successivamente, e fin troppo tardi.






XVIII


Sulla navetta che si allontanava da Eadu, Krennic ripensò all’ultima volta che aveva visto il suo capolavoro. Eclissata dall’ombra di Jedha, la Morte Nera era caratterizzata dall’assenza piuttosto che dalla presenza – un buco scavato tra le stelle, circondato unicamente da un anello grigio, la luce accecante sui suoi contorni che suggeriva l’esistenza di una massa fisica. Krennic l’aveva guardata rimpicciolirsi fino a diventare così minuscola da poterla nascondere con il pollice, e si era girato prima che la stazione scomparisse del tutto.

 Dopodiché: la piattaforma. Il fumo acre dello sparo di un blaster e poi il bagliore dell’esplosione. La pioggia flagellante e le mani che lo avevano trascinato al sicuro. Le sagome spiegazzate distese per terra dietro di sé. Già fuori dalla sua portata.

 Adesso che era seduto nella navetta e si toglieva i guanti con mani tremanti, mentalmente si aggrappava, come se ce l’avesse davanti, a quel fantasma della Morte Nera. La poteva esaminare, mentre sondava con le dita nude i punti dove la sua uniforme era stata bruciata e strappata, i lividi che avevano già cominciato a formarsi quando il suo corpo era stato gettato al suolo. I corridoi disposti sotto la superficie come vene, i canali di energia che si avvolgevano attorno al loro nucleo, il cuspide scintillante nel cratere principale: ripercorrere i dettagli lo aiutava a non provare sofferenza. In quel momento fu talmente conscio della sua perfezione che nel petto si sentì gravare un peso doloroso.

 Galen era morto. Era morto da traditore, e aveva vissuto come tale per qualche istante prima del suo decesso. Krennic non riusciva a ignorare quelle considerazioni, tuttavia era quasi in grado di sopportarle se immaginava la sua bellissima Morte Nera sospesa a mezz’aria. Lentamente, mestamente, si sfilò di dosso l’uniforme rovinata per sostituirla con degli abiti puliti.

Meriti molto più di… questo.

 Nelle sue orecchie suonò il ricordo della voce di Galen, che lo attraversò con la fitta improvvisa e la limpidezza di un colpo di blaster. La visione della Morte Nera tremò. Qualcos’altro la rimpiazzò: lampi del viso di Galen, e poi una memoria così offuscata che Krennic stentò a capire che gli apparteneva.

 L’immagine sospesa nella sua testa era in sfumature baluginanti color blu e tracciava una lenta orbita: un complesso studiato nei minimi dettagli, le camere per la sincronizzazione dei cristalli e i nodi per la raccolta dell’energia. Krennic era tornato nel suo ufficio assolato su Coruscant nel quartier generale del Corpo degli Ingegneri, un giovane Galen che sedeva sul lato opposto della scrivania e che gli chiedeva senza malizia alcuna di abbandonare tutto ciò su cui aveva lavorato per scappare con lui e realizzare insieme un progetto folle che gli stava a cuore. Una nuova risorsa nel campo della produzione dell’energia, un’opera senza precedenti a quell’epoca.

 Il candore con cui Galen gli aveva domandato – no, si era aspettato – di lasciarsi tutto alle spalle! Certo, non era al corrente dei piani a cui Krennic avrebbe rinunciato. Ma se avesse saputo, di sicuro avrebbe insistito ulteriormente. Krennic si era reso conto che Galen era stato posseduto dalla dissennata convinzione di doverlo salvare, anche se Krennic non aveva mai compreso da cosa dovesse essere salvato.

 Adesso iniziava a farlo.

 Malgrado gli anni trascorsi, Krennic poteva figurarsi ogni singolo particolare della struttura che lui e Galen avrebbero costruito. La scienza di Galen avrebbe provveduto all’energia, ma la struttura architettonica sarebbe stata disegnata da Krennic stesso. I corridoi sarebbero stati molto più ampi rispetto a quelli della Morte Nera, e le pareti più leggere, più ariose, disseminate di finestre per lasciar entrare la luce di un vero sole planetario. Sarebbe stato meraviglioso; Krennic lo avrebbe reso meraviglioso. E Galen lo avrebbe fatto funzionare.

 Per quanto insensata come proposta, c’era stata una parte di Krennic che avrebbe voluto accettare. Che avrebbe accolto Galen a braccia aperte e che avrebbe lasciato andare tutte le sue ambizioni. Sarebbe stato facile. Ma non era quella la scelta che aveva compiuto.

Vorrei che ci fosse un modo per persuaderti che hai altre alternative per contribuire alla pace. Allora Krennic aveva bollato quella risposta come il frutto dell’idealismo ingenuo di Galen. Ora non gli era più gravoso rivivere gli anni trascorsi, guardare di sbieco la foschia dei ricordi e chiedersi se Galen avesse avuto ragione.

 Krennic sognò a occhi aperti un altro po’, perlustrando quei corridoi che esistevano soltanto nella sua fantasia, spalancando soglie che conducevano a stanze destinate a non essere mai edificate. Immaginò Galen che gli veniva incontro senza il fardello visibile delle perdite subite e del lutto e delle bugie. Avrebbero avuto una vita semplice, tranquilla, avrebbero passato le giornate a litigare sulle minuzie progettuali e a partecipare a riunioni stancanti, ad addormentarsi sugli schemi e a bere caf in un silenzio confortevole. Krennic avrebbe usato la sua influenza per distribuire la tecnologia di Galen in tutta la galassia: loro due l’avrebbero presentata ai Separatisti come un’offerta di pace, per porre fine alla guerra senza dover versare una goccia di sangue.

 In un mondo del genere, non avrebbero avuto bisogno di mentirsi a vicenda. Non ci sarebbe stata Eadu. Non ci sarebbe stato alcun cadavere steso a terra e abbandonato alla pioggia. Il dolore gli invase nuovamente il corpo, come se quel futuro diverso stesse cercando di sottrargli qualcosa, una porta argentata che, aprendola, aveva risvegliato in lui un’agonia brutale e terribile.

 Quando Krennic riaprì gli occhi, ripiombò nella fredda e dura realtà dell’area passeggeri. Gli palpitava il corpo, l’uniforme pulita era accanto a sé sulla panca di metallo, e Galen Erso era morto. La porta si chiuse. Lui non provò alcun sollievo.

 Mentre finiva di vestirsi, Krennic cercò di rievocare l’immagine della Morte Nera. Non ci riuscì. La stazione si deformò e vorticò nella sua testa come un riflesso nell’acqua. Quando diede alla paratia un pugno così forte da fargli tremare i denti, il dolore si dissolse completamente.

   
 
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