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Autore: allonsy_sk    27/02/2017    4 recensioni
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La cucina ha l'aria di un posto che viene usato di rado, dal monolite bianco del frigorifero vuoto istoriato di magneti noiosi e volantini di diversi take away, alle mattonelle shabby-chic macchiate d'oro.
C'è un segno sulla parete, a circa un piede dal battiscopa che corre al lato del frigorifero, dove Sherlock è sicuro che Mycroft lasci cadere la valigetta ogni sera, fermandosi poi ad aprire il frigorifero prima di cedere alla stanchezza, alla pigrizia o alla gola.
Lo fa al buio, a giudicare dal modo in cui le sue impronte digitali sono distorte, piccole chiazze leggermente oleose sulla superficie liscia e altrimenti lucida dell'elettrodomestico.
È tanto più strano, quindi, che la cucina profumi di cioccolato e burro e che il pavimento immacolato sia sporco di farina.
La vista più strana, comunque, è Mycroft in jeans e maglioncino, con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un grembiule bianco.
Se non fosse completamente pulito da ben due mesi tre settimane e due giorni, Sherlock penserebbe di avere di fronte una delle sue più assurde allucinazioni.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Eurus Holmes, John Watson, Mrs. Holmes, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Brother Mine

5 – Martedì 2 Febbraio 2016

 

Sherlock non chiude occhio quella notte, il che è molto utile quando sente Rosie frignare al piano di sopra nelle prime ore dell'alba. Va a prenderla dalle braccia assonnate di John, che non ha neanche aperto gli occhi nella sua ormai consolidata prassi di prelevare la bambina e portarsela al caldo nel letto, e se la porta al piano di sotto. 

"Che c'è, Watson? Qualcosa fa male? Incubo?"

Rosie si ciuccia le dita e lo guarda da sotto le ciglia finissime e dorate, indecisa se riprendere il capriccio o lasciarsi blandire. Di sicuro non intende rispondere.

"Magari io bevo un tè, tu un po' di camomilla e ci prendiamo un biscotto. Ti sembra un buon piano? Ma non svegliamo tuo padre. Voi Watson avete la miccia corta."

Rosie borbotta offesa e si applica a sbavargli la maglietta usurata con la quale dorme. 

Sherlock prepara una tazza di tè per sé e riempie di camomilla tiepida e senza zucchero un biberon per Rosie. Le consegna un biscotto da sgranocchiare e ne prende uno per sé, strizzandole l'occhio.

"Non dire a tuo padre che ti frego i biscotti, Watson. O forse diglielo, magari è contento se mangio qualcosa di nutriente."

Si siede in poltrona con la bimba, il tè, la camomilla, un paio di biscotti supplementari e la copertina di Rosie con le paperelle. Sotto il cuscino c'è il suo microbo di peluche preferito (una ameba verde, per l'esattezza) e Sherlock glielo sistema a portata della manina meno appiccicosa di biscotto.

"Ti capita di dover fare cose che non vuoi fare e che altri ti fanno fare lo stesso, Watson? Magari sai che devi farle, però ti secca ugualmente? Vista la tua limitata esperienza direi che è successo di rado, ma sei abbastanza grande perché alcuni obblighi ti sembrino seccanti, rispetto alla prospettiva del divertimento."

Rosie succhia il biscotto ammosciato e lo guarda, grandi occhi celesti e rotondi e l'aria di chi prende molto sul serio ogni parola.

Sherlock sospira.

"Devo fare una telefonata scomoda. Non posso evitarlo, Watson. Ho promesso a mio fratello di farla e voglio farla. Un po' perché voglio aiutarlo, un po' perché credo di poter gestire meglio la cosa. Ma non voglio farlo perché sarà difficile. E doloroso, credo. Non ne sono certo. Senti, Watson, se mai avrai dei fratelli..." 

Sherlock si interrompe per considerare quella possibilità. Non riesce a credere che John possa mai pensare di sposarsi di nuovo dopo quel disastro del suo matrimonio, ma va anche detto che non pensava si sarebbe sposato mentre lui era 'morto'. 
Meglio non pensarci adesso.

"Se mai avrai dei fratelli, Watson, ti verrà detto che devi amarli per forza. Non sarà così facile. A volte saranno noiosi e pomposi oppure molesti e passerai la vita a bisticciare con loro, ma in fondo vi vorrete bene. E altre volte sarà impossibile trovare qualcosa da amare e ti sentirai in colpa perché sei in una situazione in cui non puoi fare nulla, ma vorresti poter cambiare il mondo. In sostanza, è vero che amare non è un vantaggio, ma tu non devi crederci mai. Capito, Watson? No? Immaginavo. Non capisco nemmeno io."

Rosie si toglie il biscotto dalla bocca e glielo offre. Sherlock scuote la testa. "Non sarebbe igienico, temo." Rosie balbetta qualcosa e si applica ad appoggiargli il biscotto sul petto, lasciando tracce umidicce e briciole molli dappertutto. 

Sherlock sospira. 

"Quello che voglio dire è che anche se è vero che amare non è un vantaggio, vivere senza amare in realtà non serve poi a molto. Quindi insomma, cerca di volere bene alla tua famiglia, ai tuoi fratelli se ne avrai e ai tuoi amici, perché credimi, ne avrai bisogno."

Rosie sbadiglia, si strofina gli occhi col pugno e accenna un frigno che Sherlock soffoca nello stringersi del suo abbraccio. Ameba, copertina e coccole. "Hai ragione, Watson, sono noioso. Riposati, che dopo mi servi sveglia per fare quella telefonata."

Rosie si sveglia di nuovo poco prima delle sei, agitandosi in braccio a Sherlock con un'energia insospettabile in un corpo così piccolo. Sherlock non si inganna più sulla presunta fragilità della bambina. Piccola e paffuta com'è, Rosie è sorprendentemente agile e forte, soprattutto se decide di averne abbastanza di stare buona e quieta. Ha anche dei polmoni di tutto rispetto. 

Sherlock si è assopito suo malgrado, col peso caldo e consolante della bambina in grembo e i suoi riccioli biondi finissimi che gli solleticano il naso. Schiude appena gli occhi quando percepisce il peso alleggerirsi e sorride d'istinto, tutto caldo e addormentato quando intravvede, tra le ciglia e il sonno che gli gonfia ancora gli occhi, la sagoma sfocata di John che recupera la bambina e la consola mormorando sciocchezze.

"Tè, Sherlock?" 

Sherlock mormora un mezzo assenso beato, ancora avvolto nella copertina con le papere e un sogno piacevole in cui John si china a dargli un bacio del buongiorno, poi si ricorda della missione che si è scelto, e sbuffa un versaccio profondo e stonato.

"Caffè, nero, zucchero. Ho promesso a Mycroft..." inizia, poi si ferma e richiude gli occhi, inseguendo il sogno. "Altri cinque minuti."

"Adesso io e Rosie ti facciamo il caffè, e dopo veniamo a svegliarti."

Il profumo del caffè lo sveglia prima del rumore della tazza sul tavolino e della voce di John che lo chiama. In sottofondo c'è Rosie che borbotta per gli affari suoi, probabilmente seduta sul tappeto e circondata dai suoi giochi. Allergica com'è a qualsiasi restrizione, non ama né il box né la culla.


Sarebbe un quadro sorprendentemente perfetto se non mancasse magari una carezza nei capelli o sulla guancia e se non fosse necessario uscire dalla fantasia per piombare nella realtà.


Sherlock apre gli occhi di malavoglia borbottando un dovuto 'grazie'. John è ancora un po' troppo tirato, un po' troppo stanco per corrispondere all'immagine del suo sogno, ma ogni giorno fa progressi.


"Parlavi di Mycroft, prima? Una telefonata urgente?" John si siede in poltrona col suo tè, non senza tenere un occhio vigile sulle attività di Rosie sul tappeto, in mezzo a una selva di cubi e giocattoli rumorosi.


"Devo chiamare mia madre," annuncia, scegliendo la strada dell'onestà. Non c'è un modo semplice di parlare di questo argomento, e non c'è un modo piacevole. Inoltre era sincero quando ha difeso John di fronte a Mycroft, considerandolo parte della famiglia. Lo è, eccome, al di là di qualsiasi vincolo di sangue o di legge.


"Mio fratello è stato avvertito del fatto che la nuova amministrazione di Sherrinford reputa Eurus un pericolo troppo grande perché possa essere semplicemente reclusa.

Vogliono sedarla in modo da renderla inoffensiva. Mycroft non aveva altri dettagli, quindi non so se intendano soltanto darle una dose di calmanti in grado di tenerla buona o se pensino all'ipotesi di mandarla in coma farmacologico. Fatto sta che questa mattina richiederanno d'urgenza la firma di Mycroft per il trattamento - lo costringeranno a firmare in un modo o in un altro. E... siamo d'accordo che questa volta bisogna fare le cose alla luce del sole. In breve, devo chiamare i miei genitori e avvertirli. E devo farlo adesso, prima che sia un'ora decente per disturbare un funzionario del Governo durante le sue ore d'ufficio."


John tace per un lungo attimo prima di sussurrare un lungo e sentito 'Cristo, Sherlock,' che quasi convince Sherlock a sorridere. È terribilmente da John, e ora come ora la sua vicinanza è impagabile, preziosa fino all'estremo.

"Cosa posso fare per aiutarti, Sherlock?" chiede John dopo un momento. Sherlock scuote la testa.

"Niente, temo. Ma apprezzerei molto se tu e Rosie poteste restare qui in soggiorno mentre chiamo."

John annuisce. "Se non è un problema per te, non vedo perché dovrebbe esserlo per me, anzi."

Mancano pochi minuti alle sette quando Sherlock prende il telefono e esita un'ultima volta prima di chiamare. Mycroft gli ha inviato soltanto un messaggio, per dirgli che sarà in ufficio poco dopo le otto.


Mamma risponde quasi subito. In sottofondo si sente la sigla d'apertura del telegiornale, rumori di colazione. I suoi genitori si alzano presto e fanno le cose con calma.
Sherlock chiude gli occhi, ma il buio non gli impedisce di avvertire in maniera acuta la presenza di John, nervoso e partecipe, e di Rosie, occupata ad abbattere la sua torre di cubi con un certo gusto distruttivo.

"Mamma, sono Sherlock," inizia, tirando un respiro calmante mentre sua madre prorompe in una serie di convenevoli e domande eccessiva per qualsiasi momento del giorno, ma in particolare per un'ora così fresca di una giornata iniziata così male.


"Mamma, devo interromperti perché non ho molto tempo," continua Sherlock con una certa urgenza. Ha una fuggevole impressione di come deve essersi sentito Mycroft ogni volta che ha chiamato i suoi genitori per avvertirli di qualche sua malefatta, dall'overdose alla sua finta morte al colpo di pistola di Mary. Lo apprezza un po' di più anche solo per questo, pur avendolo considerato un molesto impiccione un numero imprecisato di volte.


Le proteste di sua madre si arrestano quasi subito. Sherlock ha la consapevolezza di essere stato messo in viva voce. Il telegiornale suona allo stesso tempo più vicino e più sgranato, e avverte anche se non riesce a distinguere una silenziosa conversazione appena sussurrata tra sua madre e suo padre.

"Che succede, Sherlock?" chiede sua madre.

Non c'è un modo gentile per dare questa notizia. Può scegliere di non essere crudele - cosa che ha fatto offrendosi di avvertirli al posto di suo fratello - ma non può in nessun modo rendere il colpo meno duro, non adesso che l'equilibrio si è appena assestato in maniera del tutto precaria e delicata.


"Mamma, Mycroft è stato contattato perché a Sherrinford hanno deciso di sedare Eurus. È troppo pericolosa. Sapete tutte le cose che ha fatto. Sapete di cosa è capace. Mycroft non potrà rifiutarsi e sinceramente io e lui pensiamo che sia la cosa giusta. Ma volevamo almeno avvertirvi."


Il silenzio si protrae al punto che Sherlock riesce a sentire il battito del proprio cuore amplificato in gola e nei padiglioni auricolari, e a distinguere con esattezza le parole della speaker al telegiornale.

Non sa bene cosa si fosse aspettato, forse una reazione sorpresa, persino violenta o un rimprovero dal padre e un pianto isterico e aggressivo dalla madre.
Se Mycroft ha sempre avuto il potere di farlo sentire piccolo e sciocco, non è niente in confronto a come Sherlock ha iniziato a sentirsi nei confronti dei suoi genitori dopo la faccenda di Redbeard (non può pensare adesso a cosa nasconda veramente quel nomignolo, non ora, non è il momento. Quelle piccole vecchie ossa devono restare nel fango ancora un po', in relativa ma non dimenticata pace).


La loro feroce iperprotettività non è mai stata disgiunta da una forte componente di giudizio, spesso sbilanciato a favore dell'uno o dell'altro fratello. È uno dei motivi dell'atroce, ridicola pantomima infantile che Sherlock e Mycroft hanno portato avanti, non senza un certo gusto personale e qualche stilla di perfidia, per più di trent'anni ben oltre ogni soglia dell'età adulta e della saggezza.

Non è quindi particolarmente strano che i due fratelli si siano allontanati da casa appena possibile, ognuno chiuso nella propria bolla, ognuno seguito dai propri demoni silenziosi e in parte dimenticati.

"Cosa dovrei risponderti, Sherlock? È stato Mycroft a dirti di chiamare?"
Sherlock tira un respiro, coprendo il microfono per non far sentire il rumore del risucchio.

"No. Ho quasi quarant'anni, non prendo ordini da Mycroft. Non prendo ordini da nessuno. Avete espresso il vostro disappunto a non essere stati coinvolti nella vita di Eurus, vi sto coinvolgendo adesso."


"Quando è
troppo tardi, Sherlock?"

Si accorge che gli tremano le mani quando rischia di perdere la presa sul telefono. La rafforza, deglutisce, raccoglie ogni residuo di fredda compostezza.


"Se devi scaricarmi addosso delle colpe,
madre, mettiti in fila, ne ho già abbastanza per quanto mi resta da vivere. Quello che dovevo dirtelo te l'ho detto. Buona giornata."
Chiude la comunicazione e spegne il telefono, infilandolo poi sotto il cuscino della poltrona.

Non ha la forza di voltarsi a guardare John, anche se sente il suo sguardo bruciargli sulla pelle del viso. Il tremore alle mani gli risuona nel modo in cui il cuore non accenna a scendere dalla gola alla sua sede più naturale. Si sente come se una corrente ad alto voltaggio gli avesse attraversato ogni fibra, dal cuoio capelluto alle punte delle dita dei piedi e delle mani.


Non lo sopporta più. Lentamente si copre il viso e tira un sospiro eterno e tremulo, senza una speranza di riacquistare calore corporeo.

"Sherlock..." la voce di John suona più vicina del previsto, i suoi passi attutiti dal tappeto. Le sue braccia forti lo stringono e le sue dita gli accarezzano i riccioli sulla nuca.

Forse esiste ancora una singola fonte di calore in tutto l'universo.

"Sono qui Sherlock, sono con te, non sei solo." John parla piano e con evidente affetto, anche se le parole lasciano le sue labbra in un soffio. Nessuno dei due è stato granché bravo ad esprimere o a dimostrare sentimenti, ma dopo tutti questi anni e tutto quello che è successo le uniche possibilità sono lo sfogo o l'esplosione definitiva.
"Le faccende di famiglia sono complicate," biascica Sherlock con un tentativo di humour che si spezza prima ancora di essere del tutto formulato.

John annuisce contro la sua tempia, accentuando la stretta. Le sue mani piccole, forti e calde gli si appoggiano saldamente sulla schiena. Sherlock non si è mai sentito piccolo - difficile, quando già a tredici anni sei un lampione alto e secco - ma le dimensioni relative non sono mai state inutili come in questo momento.

"Credimi Sherlock, lo so," sussurra. "Ma se quello che hai detto a Mycroft è vero, se mi consideri parte della famiglia. Allora, niente, ci sono io con te. Per quello che vale."

Sherlock alza lo sguardo d'istinto, il tremore che inizia a recedere temperato dalla sorpresa.

"John... non sono molto bravo a funzionare senza di te."


Le parole lo sorprendono per la loro facilità tutt'altro che blanda. Sono state troppo tempo sotto la superficie, appena riconoscibili e riconosciute, per poter essere ancora tenute sotto silenzio.


Se ha imparato qualcosa da tutta la paurosa
debacle della sua famiglia, di Eurus, di Mary - notevole sussulto di colpa, qui - è che forse parlare, parlarsi, è più che necessario.
Il sorriso di John lo sorprende. È lento e un po' tirato, cauto, ma gli solleva gli angoli della bocca e gli rischiara e riscalda gli occhi.

"Già, e vedi cosa faccio, quando mi allontano troppo."


Sherlock arriccia il naso, sollevando le sopracciglia con falsa alterigia. "Rimorchi mia sorella alla fermata dell'autobus, ecco cosa succede."


John sbuffa una risata carica di scherno per se stesso, ma continua a passare le dita nei ricciolini più teneri sulla nuca di Sherlock.


"Ma ci pensi, Sherlock, di tutte le donne di Londra?"


Sherlock socchiude gli occhi, lascia che il suo sguardo scivoli di lato.

"Forse dovresti darti agli uomini," mormora, tentando di tenere il tono leggero.

ll sorriso di John non si spegne, in qualche modo il tocco dei suoi polpastrelli tra i capelli di Sherlock diventa più tenero, i suoi occhi più caldi.


"Non hai tutti i torti, ma non credo mi interessino degli uomini qualsiasi."

Sherlock si acciglia, ma non si ritrae. Non sembra un rifiuto, ed è privo della solita sputacchiante violenza dello spasmodico 'NOT GAY' di John.

John giocherella con un suo ricciolo, arrotolandolo e srotolandolo tra le dita, e continua.


"Forse ho sempre saputo di poter... prendere quella via, nelle condizioni giuste. Ma non ci sono mai state prima. E alla mia età e con la mia storia, lo sai, non sono bravo con queste cose."


Sherlock parla prima di potersi mordere la lingua e quando le sue frasi si condensano nello spazio ristrettissimo tra sé e John non riesce a pentirsi di averle pronunciate.


"E adesso credi che... secondo te adesso ci sono? Quelle condizioni?"


La mano di John abbandona i suoi riccioli per appoggiarsi sulla sua guancia, il pollice un po' spostato verso il suo labbro inferiore.


Il cuore di Sherlock decide di prendere il volo.


"Potrebbero esserci, se tu fossi d'accordo."


Sherlock gli lascia a stento finire la frase. Il momento sospeso si spezza come il filo elastico ma fragilissimo e impalpabile di una ragnatela e l'abbraccio cambia dimensione e dinamica quando Sherlock si solleva in piedi tra le braccia di John, stringendolo per la vita e respirando a stento, il viso a pochi millimetri dal suo.


"Sono d'accordo."


John gli passa il pollice sul labbro e Sherlock prova un brivido che non ha nulla a che vedere col tremore di poco prima.


"Chiama tuo fratello, Sherlock. Starà aspettando la tua chiamata. Non voglio che il nostro discorso venga interrotto sul più bello."


Sherlock sbatte le palpebre, leccandosi le labbra per riflesso. Il tono di John è basso e sexy e sostituisce ai brividi una vampata gradevole ed eccitante.


"... hai ragione. Prestami il tuo telefono, John. Non voglio accendere il mio."


La voce di Mycroft all'altro capo della linea è tesa e distante. Non sono neanche le sette e mezza, ma Sherlock ha la netta percezione che il fratello sia già in ufficio.


"Mycroft," inizia, poi si morde il labbro e esita. A quest'ora del mattino sono già successe troppe, troppe cose (non tutte spiacevoli).


"Sherlock? Ci sono novità? Ho dovuto convocare una riunione a quest'ora per rimandare la firma."


Sherlock sospira. "Ho chiamato. Ho dato la notizia.
È stata presa come puoi ben immaginare. Aspettati una chiamata rovente da un momento all'altro, Mycroft."
Il sospiro di Mycroft è anche più profondo e angosciato.

"Suppongo di meritarmela. D'altra parte, non dire niente sarebbe stato peggio. Non c'è una soluzione a questa situazione, per quanto ciò insulti la mia intelligenza. Entro oggi sarà tutto deciso, Sherlock, e quando sarà tutto a posto non ti nascondo che proverò un certo sollievo, a prescindere dalle conseguenze. Grazie, fratello caro."

"A dopo, Mycroft."


Sherlock chiude la comunicazione, rende il telefono a John, che lo lancia senza cerimonie sulla sua poltrona. Guarda Sherlock e gli sorride lentamente, quel sorriso che gli scalda gli occhi e che lo rende immensamente attraente. Sherlock è sicuro di sentirsi le ginocchia molli come spaghetti scotti, desideroso della protezione e del supporto che John sembra volergli offrire.

John gli sorride più apertamente, poi si china a prendere Rosie, appoggiandola all'anca.

"Fammi mettere la bimba nel box e sono da te."

John forse non sperava né immaginava di essere mai un papà, medita Sherlock mentre ascolta John coccolare Rosie, tutto consolante e indulgente mentre la bambina esprime le sue rimostranze all'essere rinchiusa nel box.

Forse non pensava di diventare mai padre ma la sua natura è quella di un curatore, di una persona che dà tutta se stessa per gli altri. È bravo con Rosie, paziente e dolce.

John torna prima che Sherlock possa proseguire il ragionamento. Il suo sguardo è così caldo e carico di promesse che Sherlock si sente ancora più instabile sulle gambe e quando il dottore entra nel suo spazio personale e gli prende le mani, si sporge sulle punte e bacia l'angolo della sua bocca, si chiede se non sia tutto un magnifico sogno.

Sherlock si volta istintivamente per catturare il bacio sulle labbra, mormorando piano al contatto così leggero e così tenero.

John gli accarezza il viso, osservandolo da sotto le ciglia abbassate e rischiarandosi in un sorriso tenue e intimo.

"Qualsiasi cosa succeda, Sherlock, qualsiasi cosa. Non ho intenzione di allontanarmi da te."

L'idea di ottenere un bacio più passionale è particolarmente rosea, ma Sherlock la scarta senza troppe remore - sembra che gli sia permesso baciare John, può farlo tra un attimo, giusto? - in favore di un abbraccio stretto e totale, che gli stringe John addosso un po' di più ad ogni respiro.


"Finalmente," sospira sollevato, "finalmente."

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