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Autore: _Pulse_    01/03/2017    4 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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18. Sorcerers’ hearts



Il sole non era ancora sorto e il bosco intorno ad Avalon era ancora avvolto dalla nebbia e dal freddo penetrante della notte, ma Alex trovava quell’atmosfera rinvigorente: tutti i suoi sensi erano in allerta mentre correva, saltando le radici degli alberi, facendo attenzione a non scivolare sul terreno irregolare e prestando orecchio ai rumori fuori e dentro di lei. Solo così riusciva a non pensare a quello che avrebbe dovuto affrontare di lì a qualche ora.
Excalibur, nel fodero che aveva rubato ad Artù qualche giorno prima, le sobbalzava sulla schiena ad ogni passo e la faceva sentire al sicuro come mai prima d’allora. Al sicuro ed invincibile, tanto da farle credere di non aver più bisogno di niente e nessuno per ottenere ciò che voleva.

***

«Ti prego, ti prego, rispondi».
Artù si allontanò il cellulare dall’orecchio ed ebbe voglia di lanciarlo con forza contro la parete per romperlo in mille pezzi. A che scopo avere quello strumento incredibile se poi le persone lo ignoravano?
In qualche modo riuscì a trattenersi dal fare qualcosa di cui si sarebbe pentito e si alzò dal letto per scostare da sé le tende dalle finestre che davano sul giardino sul retro.
Il sole appena sorto gli schiarì le idee e trasformò la sua rabbia in determinazione. Cathleen ignorava i suoi messaggi e le sue chiamate? Era curioso di sapere che cosa avrebbe fatto se se lo fosse trovato davanti, in carne ed ossa, occhi negli occhi.
Si vestì in fretta e si fermò in bagno solo per lavarsi i denti, pettinarsi i capelli e spruzzarsi addosso un’infinità di deodorante. Quindi si precipitò giù dalle scale e trovò Merlino seduto al tavolo della cucina con una tazza di caffè in una mano e la propria testa nell’altra, gli occhi spenti e circondati da evidenti occhiaie fissi su una valigetta nera chiusa di fronte a lui.
Vederlo ridotto in quello stato gli straziava il cuore, ma dopo la loro ultima tremenda litigata aveva deciso di non aprire più l’argomento, di lasciarlo nel proprio brodo fino a quando non si sarebbe reso conto che per quanto si opponessero non sarebbero mai riusciti a cambiare il loro destino, di cui Alex ormai faceva pienamente parte.
Strinse i denti e passò accanto al tavolo in silenzio, diretto verso la veranda sul retro. Si fermò di colpo quando sentì la voce atona di Merlino chiamarlo.
«Il taxi sarà qui alle nove, non fate tardi».
Artù sospirò pesantemente e, deluso ed arrabbiato, si chiuse con violenza le porte scorrevoli alle spalle, per poi correre verso il vecchio fienile. Montò sulla vecchia bicicletta dello stregone e sfrecciò verso il centro abitato.

***

Merlino finì il caffè ormai freddo e lentamente si alzò dalla sedia per posare la tazza nel lavello.
Nonostante avesse già preso la sua dose mattutina di antidolorifici e sapesse perfettamente che non doveva abusarne per non diventarne dipendente (era già abbastanza difficile sgraffignare un flacone dal magazzino del Pronto Soccorso, figuriamoci farlo in astinenza!), il corpo gli doleva come se ogni osso fosse sul punto di frantumarsi, ogni tendine di strapparsi e ogni muscolo di sciogliersi. Per non parlare poi della vista. Gli oggetti, anche quelli più vicini, non avevano più i bordi: erano solo chiazze di colori diversi, e la luce gli bruciava le retine come avrebbe fatto un raggio laser.
Artù pensava sicuramente che stesse male e non dormisse per colpa di Alex e aveva ragione, ma anche torto.
Nell’ultima settimana aveva trascorso gran parte delle sue notti nel bunker segreto la cui esistenza era stata sconosciuta anche per lui per i primi tre anni da proprietario della villa. Ne aveva scoperto l’accesso per caso, quando sistemando la stanzetta che usava come sgabuzzino per le scope, le scarpe e altre cianfrusaglie, la sua maglietta si era impigliata in un chiodo piantato a metà della parete. Un po’ insolito come posto per appendere un quadro, no? Aveva provato a toglierlo, ma era stato costretto a desistere quando lo aveva ruotato come una chiave e la parete si era ritirata verso l’interno, mostrando una scalinata in pietra stretta e ripida.
L’odore di muffa gli aveva fatto lacrimare gli occhi, ma Merlino si era coperto naso e bocca con l’incavo del gomito ed era sceso verso le fondamenta della villa illuminandosi la via con una piccola torcia elettrica.
Il bunker doveva essere stato costruito come rifugio antibomba, probabilmente durante la Seconda Guerra Mondiale. Merlino l’aveva trasformato in una specie di laboratorio forense. In quel luogo aveva ripassato più e più volte le pozioni di Gaius – perché non dimenticasse tutto ciò che aveva imparato con il curatore di corte – e proprio lì si era fabbricato il veleno che era stata la causa della sua ultima morte.
Su una scrivania aveva sistemato un paio di computer, una stampante e uno scanner. A vedere quella strumentazione si sarebbe detto che non era nulla di che… In realtà erano i file contenuti in quegli hard-disk ad essere di valore inestimabile per Merlino: foto, video, contatti che col passare degli anni aveva iniziato ad accumulare per avere qualcosa di compromettente tra le mani semmai qualcuno avesse avuto l’insana idea di denunciarlo per qualche favore o lavoretto richiesto. E ne aveva chiesti parecchi, da quando per essere qualcuno non bastava dire semplicemente il proprio nome, quello dei propri genitori e un paio di testimoni, o da quando per essere curato non bastava mostrare i sintomi del proprio malessere.
Aveva fatto uso di uno dei propri contatti giusto poco tempo prima, quando aveva dovuto procurare i documenti necessari ad Artù per essere considerato una persona reale, viva e vegeta, nata e cresciuta nel Ventunesimo secolo. Pagando un bel gruzzoletto aveva ottenuto in poco tempo dei documenti perfetti, ancora migliori degli originali, tanto che la stessa Myra non aveva sospettato nulla. Un lavoro impeccabile, ma non sempre i soldi comprano la fiducia degli uomini e prima di entrare in contatto con qualcuno del mondo dell’illegalità tendeva a procurarsi delle garanzie.
Col tempo e l’avanzamento della tecnologia, Merlino aveva dovuto per forza di cose adeguarsi e aveva imparato a destreggiarsi nel mondo dei computer, diventando un abile hacker. In fondo lui li aveva visti nascere i computer, evolversi, a tratti semplificarsi… Gli era bastato tenersi sempre aggiornato e svilupparsi con loro. Anche questa attività non era particolarmente legale, perciò si limitava a praticarla quando e se necessario. Il suo intervento all’ospedale ne era la prova.
Per aiutare Alex aveva sfruttato le sue abilità di hacker per autoinvitarsi al galà di beneficenza al Castello di Windsor, inserendosi nella lista dei facoltosi filantropi che, per finanziare i reparti oncologici di vari ospedali, avrebbero offerto direttamente generose quantità di denaro oppure avrebbero messo all’asta opere d’arte e cimeli di famiglia (a cui non dovevano poi tenere molto) perché altri facoltosi filantropi le comprassero con altre generose quantità di denaro.
Quello che gli aveva tolto il sonno durante quell’ultima settimana però era stato un progetto che non c’entrava niente con tutto questo, un progetto ambizioso e decisamente folle. Probabilmente avrebbe fatto meglio a dormire, invece di sfibrarsi in quel modo e di mettere ancora più a repentaglio le sue già precarie condizioni di salute. Eppure non ci sarebbe riuscito, non con le parole di Artù che gli ronzavano nella testa e il presentimento che se c’era davvero una possibilità su un milione che potesse funzionare allora doveva tentare.
Ora il prototipo era pronto, chiuso al sicuro in quella valigetta con tanto di combinazione numerica, ma era completamente inutile senza la magia che avrebbe fatto da polo positivo. E per quello aveva bisogno di Alex, la stessa Alex che gli aveva confessato ancora una volta di amarlo e a cui in quell’ultima settimana aveva  rivolto a malapena la parola per paura di dover affrontare l’argomento.
Sapeva che non avrebbe potuto rimandare per sempre, e sapeva anche che probabilmente trascorrere insieme tre interi giorni a Londra avrebbe potuto distruggere definitivamente il loro rapporto con le stesse probabilità con cui avrebbe potuto salvarlo. Ma, cosa più importante di tutte, sapeva di essere tanto stanco: stanco di mentire, stanco lottare contro se stesso, contro il proprio cuore… Perciò si promise che, in un modo o nell’altro, durante quei giorni a Londra avrebbe messo la parola fine a quella situazione. Lo avrebbe fatto in maniera definitiva.

***

Alex era appena uscita dalla doccia quando il campanello al piano inferiore trillò. Si strinse meglio l’accappatoio intorno al corpo e frizionandosi i capelli con un asciugamano scese al piano inferiore, raccogliendo Artù con l’altra mano quando lo incrociò nel bel mezzo delle scale, in vena di farle le fusa intorno alle caviglie nude.
«Il tuo baby-sitter è venuto a prenderti», gli sussurrò, posandogli un paio di baci tra le orecchie. «Non ti preoccupare, mammina tornerà presto».
Aprì la porta e si trovò davanti proprio Keith. Indossava vestiti freschi di bucato, ma le bastò guardarlo in viso per capire che aveva appena smontato: i suoi occhi stanchi ma soddisfatti erano una prova inconfutabile.
Il dottor Ellis esitò sulla scollatura dell’accappatoio, per poi abbassare frettolosamente lo sguardo, imbarazzato. «Scusami, momento sbagliato».  
Alex scrollò le spalle, abbozzando un sorriso. «Quando mai noi due abbiamo fatto le cose con il giusto tempismo? Dai, entra».
Keith ricambiò il sorriso e le passò accanto, ricordando la velocità con cui avevano deciso di andare a convivere e il giorno in cui tutto era andato a rotoli, lo stesso giorno in cui lui avrebbe voluto chiederle di sposarlo.
«Nottata impegnativa?», gli domandò lasciando che il gattino balzasse sul divano e stendendo una mano verso di lui perché le lasciasse il cappotto.
«No», rispose Keith. «Vado via subito».
«Oh. Okay, allora. Ti ho già sistemato le scatolette e i croccantini che di solito mangia in quella borsa. Lì invece c’è la lettiera e…».
«Ce la caveremo, vedrai», la interruppe.
«Bene, perfetto. Gli piace dormire accoccolato sul letto. Sul mio letto, almeno…».
«Alex, puoi fare silenzio per un attimo?».
L’infermiera serrò le labbra e lo fissò.
Il dottor Ellis deglutì, sentendosi agitato come la prima volta in cui si era avvicinato per parlarle, la notte di Capodanno di quasi cinque anni prima.
Si era sempre ritenuto un tipo sicuro di sé, forse persino un po’ troppo spavaldo con le donne, eppure ci era voluto del tempo e parecchi bicchieri di punch prima che trovasse il coraggio di attaccare bottone. Alex era stata la sola ed unica donna – e lo sarebbe sempre stata – che gli aveva fatto tremare le ginocchia per la paura di un rifiuto. E lui era stato tanto stupido da rovinare tutto per un’infatuazione passeggera.
Quando finalmente mise da parte i rimpianti e riprese il controllo di sé, si schiarì la gola e disse: «È che non capisco che senso abbia andare a Londra. Mio padre ti ha spiegato la situazione e lo sai che senza un invito non vi faranno mai entrare: sarà anche un galà di beneficenza, ma è un galà esclusivo».
«Ma noi ce li abbiamo, gli inviti. O meglio, Merlino e Artù ce li hanno. Io sarò il loro “più uno”».
Gli occhi di Keith erano così sgranati che Alex ebbe paura che gli schizzassero fuori dalle orbite in modo talmente splatter che avrebbe avuto gli incubi per almeno un mese.
«Ma come…? Com’è possibile?».
«Nemmeno io ci credevo quando me l’hanno detto, ma a quanto pare le loro famiglie erano molto ricche, talmente ricche che hanno lasciato loro un conto in banca a molti zeri, sai, per le emergenze».
Era una storia davvero assurda per lei che sapeva chi fossero veramente Merlino e Artù, ma per chi non li conosceva affatto, come nel caso di Keith, era una storia plausibile. Un estraneo non avrebbe potuto contestare il benessere economico della famiglia di due poveri orfani. Anzi, il fatto che fossero orfani alzava ancora di più le probabilità che i loro genitori fossero ricchi. Si potevano fare decine di esempi in questo senso: Bruce Wayne, Harry Osborn, Tony Stark, Harry Potter…
«Però… Insomma… Il fatto che siano ricchi non conta», riprese Keith, sempre più agitato. «Potranno anche spendere tutta la loro eredità, ma nemmeno una sterlina raggiungerà il nostro ospedale».
«E a quel punto dovrei intervenire io», disse tranquillamente, posandogli le mani sulle braccia e rivolgendogli il suo sorriso più supplichevole. «Sarebbe proprio il massimo, Vostra Altezza Duca di Cambridge, se anche una piccolissima parte del ricavato di questa sera venisse donata all’ospedale in cui lavoro. Ospitiamo bambini di tutto il Galles, siamo una vera benedizione per i genitori di queste povere creature…».
«Il tuo piano è davvero quello di far commuovere il principe William? Non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a lui».
Alex si allontanò bruscamente, gettandogli un’occhiata fulminante. «E tu sei venuto qui solo per dirmi che ogni tentativo che farò sarà del tutto inutile? Beh, grazie tante, ma non ne ho bisogno. Non mi arrenderò fino a quando non avrò provato in ogni modo a salvare il reparto». Si avvicinò alla porta e l’aprì, rimanendo dietro di essa perché l’aria fredda non le lambisse le gambe.
A testa bassa, aggiunse: «Non mi aspetto che tu capisca, ma ho fatto una promessa e ho intenzione di mantenerla, anche a costo di farmi sbattere nella Torre di Londra per aver tentato di corrompere il principe William».
Keith si avvicinò lentamente e le posò una mano sulla guancia, sollevandole il viso per guardarla negli occhi. Quanto ammirava la lealtà, l’orgoglio e la determinazione che c’erano in quegli occhi verdi…
«Non sono mai stato bravo nel mantenere le promesse, lo sai. Non avrei mai dovuto fartene. Ti auguro buona fortuna, Alex. Se qualcuno può davvero compiere quest’impresa… sei tu».
Si chinò per posarle un bacio sulla fronte e poi si congedò, raccogliendo con una mano le borse che Alex gli aveva preparato e il trasportino con dentro il piccolo Artù nell’altra.
Dirigendosi verso la propria auto, guardò il sole appena sorto illuminare d’oro i fiori nel giardino e sentì dentro di lui un qualcosa che non provava da tempo: speranza.
La sua vita non sarebbe tornata come quella di un tempo, non avrebbe mai amato nessuna come aveva amato Alex, ma perlomeno ora poteva sperare che anche lui, presto o tardi, avrebbe trovato la felicità.
Il micino miagolò dentro il proprio trasportino, come se fosse d’accordo con lui, e Keith avviò il motore sorridendo.

***

La fortuna fu dalla sua parte.
Trovò il portone del condominio aperto e decise di sfruttare la situazione a suo vantaggio, aumentando l’effetto sorpresa.
Corse su per le scale e con un leggero fiatone si trovò di fronte alla porta dell’appartamento di Cathleen. Il cuore gli batteva all’impazzata nel petto, ma non era sicuro che fosse a causa di tutta l’attività fisica che aveva fatto quella mattina.
Suonò al campanello ed attese, sforzandosi di sentire qualsiasi rumore proveniente dall’interno dell’appartamento. Riuscì a distinguere dei passi avvicinarsi, ma nulla di più.
«Cathleen», la chiamò.
«Vattene, Artù».
Era lì, proprio dietro quella porta. Si appoggiò ad essa con entrambi i pugni chiusi e ricacciò indietro il cuore che si era fatto strada fino alla sua gola.
«Ti prego, fammi entrare. Ho solo bisogno di…».
«Hai per caso intenzione di spiegarmi perché hai mentito sulla tua vera identità? Diavolo, non so nemmeno perché credo che la tua vera identità sia quella che è. Forse vedere Merlino con quello sguardo da psicopatico mi ha influenzata. Ad ogni modo, non voglio sapere perché hai mentito. Non voglio avere nulla a che fare con te. Voglio vivere la mia vita senza più drammi».
«Avevi promesso…», mormorò Artù. Batté un pugno contro la porta, con rabbia, e ripeté: «Avevi promesso che l’avremmo affrontato insieme, se avessi avuto qualcosa di grave. Ho un pezzo di spada magica che potrebbe in ogni momento perforarmi il cuore. Hai intenzione di rimangiarti la parola data solo perché adesso sai chi sono veramente?».
Incredulo, Artù ascoltò il silenzio provenire dall’altro lato della porta. Trattenendo a stento il disprezzo, sibilò: «Ginevra, lei… Non so che cos’ho visto di speciale in te».
Arretrò, poi si voltò e si aggrappò al corrimano per correre giù dalle scale, ferito nell’orgoglio e con una gran voglia di tagliare le teste ai manichini. Il rumore della serratura però lo fece esitare e la voce di Cathleen, rotta dall’emozione e allo stesso tempo forte come un ruggito, gli fece schizzare di nuovo il cuore in gola.
«Io non sono Ginevra. Come tu non sei Zach. Io non ti ho mai paragonato a lui e tu non hai il diritto di…». Sobbalzò sotto lo sguardo di Artù, rendendosi conto di aver pronunciato ad alta voce il nome del suo fidanzato.
Il re di Camelot la raggiunse in poche rapide falcate e le prese il volto tra le mani per posare le labbra sulle sue in un bacio casto.
Si scostò quel tanto che bastava per incrociare i suoi occhi nocciola umidi di lacrime e le accarezzò lentamente la guancia con il pollice.
Cathleen sospirò come se un grande peso avesse smesso di gravarle sul cuore, quindi gli strinse forte le braccia intorno al collo e lo baciò di nuovo.

***

Merlino aveva appena faticosamente portato in salotto le due valige che la sera prima aveva preparato, una per sé e l’altra per Artù, quando attraverso una delle finestre dei bovindi vide di sfuggita una volante della polizia fermarsi di fronte alla villa. Sospirò stancamente, passandosi un polso sulla fronte madida di sudore.
Era trascorsa una settimana da quando aveva intimato a Myra di uscire dalle loro vite. Da allora non l’aveva più vista e aveva quasi sperato in un lieto fine, ma a quanto pare aveva cantato vittoria troppo presto.
Aprì la porta e rimase parecchio sorpreso di vedere l’agente Darrell Fisher percorrere il vialetto guardandosi intorno, sbattendosi sul palmo della mano sinistra una busta bianca.
«Agente Fisher», esclamò quando finalmente i loro sguardi circospetti si incontrarono.
«Buongiorno, Merlino».
«Credimi, non lo sarà nel caso in cui tu sia venuto per consegnarmi una multa».
Il poliziotto stirò un sorriso. «Credo che tu mi abbia confuso con Doherty. Non so se ritenermi offeso, sai...», allargò i gomiti e gonfiò le guance ad indicare la stazza del postino del paese, prima che la risata di Merlino lo contagiasse. «Scherzo, ovviamente».
«Rimarrà tra noi. Allora, che cosa ti porta qui?».
Darrell si fissò le scarpe, poi gli stese la busta e con voce tremendamente seria spiegò: «L’agente Chandra ha dato le dimissioni e due giorni fa si è trasferita a Swansea dai suoi genitori. Mi ha lasciato questa lettera per te».
«Due giorni fa?», ripeté con le sopracciglia inarcate.
Darrell non alzò gli occhi, sapendo di essere nel torto, e si strinse il collo fra le spalle. «Ho avuto la tentazione di aprirla più e più volte. Insomma… io e Myra non ci conoscevamo poi così bene, ma non avrebbe mai dato le dimissioni se non fosse successo qualcosa di veramente grave. E da quando avete iniziato a frequentarvi di nuovo mi è sembrata diversa, arrabbiata…».
«Le cose tra noi non hanno mai funzionato come lei avrebbe voluto», confessò Merlino senza mettere alcun sentimento nella propria voce. «Ma dubito che abbia deciso di dimettersi a causa mia».
«Già, è un’idea stupida vero?». Darrell sollevò il capo ridacchiando ed indicò la busta perfettamente chiusa. «Come vedi, alla fine te l’ho portata intatta».
«Grazie mille».
L’agente Fisher annuì. Si fissarono per un altro paio di lunghissimi secondi, senza sapere più che dire, fino a quando il biondino non lo salutò con un cenno del capo e girò i tacchi, incamminandosi di nuovo verso la volante.
«Devo dedurre quindi che rimarrai qui a tempo indeterminato?».
Darrell si voltò, la fronte corrugata. «Come?».
Merlino gli rivolse un sorriso. «Myra se n’è andata, qualcuno dovrà pur rimanere in questo posto dimenticato da Dio per interrogare i pazzi che vanno in giro con le balestre».
A quel punto anche il poliziotto si rilassò e ricambiò il sorriso. Sollevò un poco le mani, esclamando: «Chissà, potrebbe iniziare a piacermi».
«Lo spero, Darrell. Buona giornata».
L’agente Fisher lo salutò portandosi due dita alla fronte, poi salì in auto e fece inversione.
Merlino si chiuse la porta alle spalle ed aprì la busta che Myra gli aveva lasciato.

Avevi ragione, come sempre.
Spero che un giorno tu possa perdonarmi e ricordare il meglio di me.
Dì ad Alex che mi dispiace e che è fortunata ad averti accanto.

Per sempre tua,
Kajri


Pescò l’accendino da uno dei cassetti in cucina e diede fuoco alla lettera, osservando quelle poche parole andare in fumo tra le braci spente del camino.

***

Alex parcheggiò l’auto nell’enorme giardino sul retro, accanto al vecchio fienile come le aveva detto Merlino, quindi trasportò la propria valigia accanto alle altre due e si guardò intorno, trovando strano il silenzio che regnava in quella grande casa.
«Dov’è Artù?», chiese, gettando un’occhiata all’orologio appeso al muro. Mancava ormai poco all’arrivo del taxi che li avrebbe portati alla stazione di Newport, dove avrebbero preso il treno per Londra.
Il mago scrollò il capo, tornando a concentrarsi sulle persiane. Si era già occupato di tutte quelle al primo piano e di gran parte di quelle al piano terra, tanto che la villa era piombata in una sgradevole oscurità, ovattata nel silenzio.
«Da Cathleen, sospetto. Non mi ha rivolto la parola, questa mattina».
Alex non lo trovò strano, visto che da una settimana a quella parte Merlino era stato scostante anche con lei, sicuramente per ciò che gli aveva detto dopo la loro fuga dall’ospedale.
«Spero che arrivi in orario. Tutto il resto è pronto? I biglietti del treno, la prenotazione in hotel, gli inviti per il galà?».
«Rilassati Alex, è tutto a posto».
Il suo tono annoiato le fece venir voglia di prenderlo a pugni, ma si costrinse a calmarsi facendo dei respiri profondi. Non era la prima volta che le capitava di sentire quella rabbia sproporzionata incendiarle il petto e non sapeva proprio a che cosa fosse dovuta. Probabilmente era colpa dello stress. Lo stress era sempre la causa di ogni male.
«E tu? Stai bene?».
Merlino la guardò con la coda dell’occhio. «Sto bene».
Alex non ci credeva, ma non insistette. «Vado a prendere una boccata d’aria».
Uscì in veranda e camminò lentamente verso il fiumiciattolo, verso la tomba che lei, Artù e Merlino avevano costruito per onorare la memoria di Steve.
Non c’era giorno in cui non pensasse a lui, a volte persino nei momenti meno opportuni. Bastavano delle parole, delle immagini viste alla TV, una canzone alla radio… e il suo ricordo la travolgeva come un’onda anomala, lasciandola senza fiato.
Spesso una lacrima le scivolava sul viso, pensando che se non fosse stato per lei la magia di Merlino sarebbe durata di più: avrebbe concesso a lui e ai suoi genitori qualche ora, forse addirittura un giorno extra da trascorrere insieme.
Alex trasalì quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e in men che non si dica bloccò il braccio del proprio assalitore dietro la schiena ed estrasse un corto pugnale con la lama argentata simile alla punta di un arpione da pescatore, il manico in pelle marrone e un piccolo pomolo d’oro.
«Te l’ha regalato Artù, quello?», furono le prime parole di Merlino, accennando all’arma che aveva puntata alla gola. «Ricordo bene la prima volta che me l’ha fatto vedere».
La ragazza sgranò gli occhi e lo lasciò andare frettolosamente, terrorizzata dal suo stesso comportamento. Da quando i suoi riflessi erano diventati precisi come quelli di un ninja e i suoi movimenti rapidi ed agili come quelli di un ghepardo? Che gli allenamenti con Artù stessero davvero dando i loro frutti?
«Mi dispiace, io…».
«Colpa mia: mai prendere un cavaliere alle spalle», rispose sforzandosi di rivolgerle un sorriso, ma il suo tentativo fu così patetico che Alex morì di vergogna: l’aveva spaventato sul serio.
«Io non sono un cavaliere», sussurrò, riponendo il coltello nella fibbia legata alla cintura dei jeans per poi stringersi le braccia al petto, gli occhi rivolti verso la tomba di Steve. «Sono una strega».
Scorse Merlino rabbrividire, o forse fu solo la sua immaginazione.
«Non sei responsabile della sua morte, lo sai vero? Nessuno avrebbe potuto salvarlo, ormai».
Alex strinse così forte i pugni lungo i fianchi che sentì le unghie graffiarne i palmi. «Tu gli avevi dato del tempo… io gliel’ho tolto».
«Non sapevi di poterlo fare, non è colpa tua».
«Sì, invece!», urlò, digrignando i denti con rabbia. «È tutta colpa mia! Io… Io non voglio essere il motivo per cui il vostro destino dovrà compiersi, non voglio che voi vi sacrif–».
Alex si interruppe bruscamente quando sentì le braccia di Merlino stringerla forte – una forza che guardandolo non gli avrebbe mai attribuito – contro il suo petto. Respirando a pieni polmoni il suo profumo un po’ della rabbia che le bruciava dentro sfumò, facendole tirare un sospiro di sollievo mentre immergeva il viso nell’incavo della sua spalla e lasciava che le lacrime che le bruciavano gli occhi si asciugassero.
«Purtroppo è così che funziona col destino», le sussurrò tra i capelli, accarezzandole la nuca con una mano. «I custodi della magia sapevano che non avremmo mai accettato di essere ancora delle semplici pedine sulla loro scacchiera, per questo hanno messo te sul nostro cammino: un motivo per cui lottare, per cui non tirarci indietro».
«Io cambierò il destino, io vi salverò», mugugnò, stringendo forte i pugni sulla sua schiena.
Merlino si lasciò andare ad una lieve risata gutturale. «Questa non è la nostra epoca, Alex».
«Artù si sta ambientando bene, potrebbe…».
«Forse».
L’infermiera sciolse lentamente l’abbraccio e lo guardò con cipiglio interrogativo. «Che cosa stai cercando di dire?».
«Niente», rispose sbrigativamente scuotendo il capo, sperando che il discorso morisse lì. Ma Alex non era dello stesso parere.
«Artù ci sta aspettando e il taxi sarà arrivato ormai, sarà meglio…».
Lo afferrò per il polso prima che potesse fare un passo verso la veranda e fissò gli occhi nei suoi. Ripeté la domanda e quella volta Merlino fu costretto a risponderle.
«Rispetterò qualsiasi decisione prenderà Artù, ma per quanto mi riguarda… io sono stanco, Alex; non ce la faccio più. Ho vissuto per troppo tempo, ho visto troppe cose, amato e perso troppe persone… L’unico pensiero che mi faceva andare avanti era Artù e ora che l’ho rivisto e so che sta bene vorrei solo… chiudere gli occhi e riposare».
Un’Alex incredula mollò la presa sul suo polso. Merlino aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi ci ripensò ed abbassando lo sguardo si voltò.
Un freddo intenso, risalito dalle profondità della terra per avvilupparle il cuore, aveva congelato tutta la voglia di vivere che ardeva in lei. In quel momento avrebbe voluto soltanto accoccolarsi a terra e piangere tutte le sue lacrime, ma qualcosa di più forte, qualcosa di persino più forte del pensiero della morte, le fece percorrere con gli occhi il corso del fiumiciattolo, in direzione di Avalon. La rabbia era tornata, così cocente da farla tremare da capo a piedi.
«Che un fulmine possa colpirmi in questo istante se non cambierò il destino di Artù e Merlino. Vi farò pentire di aver architettato tutto questo, fosse anche l’ultima cosa che faccio».
Estrasse nuovamente il coltello di Artù e lo ficcò nella terra, dichiarando guerra.

***

Senza nemmeno dargli il tempo di aprire bocca, Merlino aveva avvicinato le labbra al suo orecchio e in tono mortalmente serio aveva sussurrato: «Lei sa di essere l’unico motivo che ci spingerà ad accettare il nostro destino».
Quelle parole e ciò che comportavano lo avevano fatto rabbrividire, tanto che non era riuscito a dirgli che non era stato lui a rivelarglielo. Ad ogni modo, dubitava che Merlino gli avrebbe dato ascolto.
Ci aveva rimuginato sopra durante tutto il viaggio in taxi, trovandosi spesso e volentieri a disagio tra Alex e Merlino, tesi come corde di violino e silenziosi come tombe.
La situazione era grave, e se aveva imparato a conoscere Alex come credeva, sapeva che se si era messa in testa qualcosa – come ad esempio cercare di cambiare il loro destino – allora avrebbe fatto di tutto pur di riuscirci, o sarebbe morta provandoci. Quel pensiero avrebbe dovuto far peggiorare il suo mal d’auto all’ennesima potenza, eppure nello stomaco sentiva soltanto le farfalle.
Era più forte di lui, si trattava di una debolezza che aveva sempre avuto e che a Camelot avrebbe potuto ucciderlo almeno una decina di volte se al suo fianco non avesse avuto Merlino.
Probabilmente le cose nel mondo moderno non erano migliorate, visto che appena sceso dal taxi aveva rischiato di farsi investire da un auto perché invece di prestare attenzione alla strada la sua mente era volata ancora una volta al viso di Cathleen, ai suoi occhi lucidi di lacrime, alle sue efelidi che avrebbe tanto voluto contare una ad una, alle sue labbra morbide e calde.
Alex l’aveva acchiappato giusto in tempo, facendolo sbattere contro la fiancata del taxi da cui Merlino stava ancora scaricando i bagagli.
«Ma sei impazzito?!», gli gridò in faccia, rossa come un peperone. Sembrava fosse sul punto di schiaffeggiarlo, ma poi gli accarezzò la guancia, scuotendo il capo con fare rassegnato. «Non farlo mai più, testa di legno».
Artù non riuscì ad impedirsi di fissarla a bocca aperta, mentre Merlino chinava il capo e ridacchiava sommessamente mentre consegnava una più che lauta mancia al tassista per l’aiuto.
Alex li fissò entrambi con cipiglio perplesso, per poi sbottare con un mezzo sorriso sulle labbra: «Che c’è? Mi spiegate ora perché fate così?».
Merlino la guardò per la prima volta da quando erano usciti di casa e lo fece sorridendo, cosa di cui Artù andò molto orgoglioso. Certo, aveva quasi rischiato di finire sotto un’auto e si era fatto insultare, ma se quello era il risultato allora ne era valsa decisamente la pena.
«È solo che anche io lo chiamavo così, quando mi faceva arrabbiare. E accadeva molto spesso, credimi». Inarcò le sopracciglia ed aspettò che l’autista fosse tornato sul suo taxi prima di aggiungere: «Prima del mio arrivo a Camelot non aveva nemmeno un valletto ufficiale, forse perché nessuno ambiva ad ottenere quel posto».
«Stai per caso insinuando che ero un tipo difficile da servire?», lo incalzò Artù, già pronto a sollevare una mano per schiaffargliela sul coppino.
Merlino affiancò Alex e le fece l’occhiolino. «Difficile? Persino suo padre il re aveva meno pretese di lui. Merlino, l’acqua del mio catino è troppo calda! Merlino, ho bisogno dell’armatura lucidata entro dieci minuti! Merlino, il mio cavallo deve essere strigliato! Merlino, c’è un topo che mi rosicchia gli stivali proprio sotto il tuo naso!», imitò la sua voce più petulante e lo fece così bene che Alex non riuscì a trattenere le risate. Però al contrario del mago, il quale aveva parlato sottovoce per non farsi sentire dagli altri passeggeri che raggiungevano il loro stesso binario, l’infermiera rise forte, piegando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi. Praticamente tutti si voltarono a guardarla, ma anziché lanciarle occhiate scocciate si ritrovarono con un sorriso sulle labbra, contagiati dalla bellezza di quel suono.
«Oh, Dio», sospirò quando si fu calmata, asciugandosi gli angoli degli occhi. «Come hai fatto a sopportarlo per così tanto tempo? Io l’avrei ucciso nel sonno, come minimo!».
Artù sollevò le mani dietro di loro, sconvolto. «Ehi, sono qui, vi sento!».
Merlino però non gli prestò attenzione e scrollò le spalle, gli occhi fissi sul punto da cui sarebbe dovuto comparire il loro treno.
«Col tempo ho scoperto che era un uomo migliore di ciò che spesso e volentieri dimostrava. Al contrario di suo padre, lui lottava per ciò che era giusto, per una Camelot più equa in cui tutti potessero vivere in condizioni dignitose, che fossero fabbri, stallieri o ricchi mercanti. Il popolo lo rispettava e lo amava per questo, ma non solo… Tutti sapevano che avrebbe corso qualsiasi pericolo per Camelot, combattuto qualsiasi battaglia… avrebbe persino dato la propria vita se questo avesse voluto dire salvare quella di un solo uomo…».
Merlino gli rivolse una rapida occhiata e Artù sentì le orecchie andare in fiamme, ricordando immediatamente quando aveva corso mille e più pericoli solo per recuperare una pianticella oppure quando aveva creduto di bere un calice di veleno e sacrificare la propria vita per quella del mago.
«Ho capito che non era solo nobile di nascita», continuò Merlino. «Il suo cuore era nobile. Questo mi ha spinto a credere in lui, a credere in un mondo migliore, quello che lui avrebbe costruito una volta re».
«Wow», mormorò Alex dopo eterni istanti di silenzio, rotto soltanto da un fischio lontano. «E com’è che vi siete conosciuti?».
Merlino assottigliò le labbra in un sorriso che lottava per diventare una vera e propria risata.
«Posso raccontartelo io, se vuoi», esclamò Artù, incrociando le braccia al petto.
«Oh, questa non me la voglio assolutamente perdere», mormorò lo stregone.
Il re di Camelot si portò una mano sul petto, con un sorriso storto sul viso. «Sarò obiettivo, lo prometto».
E così, mentre aspettavano che il loro treno arrivasse – erano un po’ in anticipo – seduti su una panchina fredda e piena di scarabocchi, Artù raccontò ad Alex come Merlino era entrato nella sua vita.
Non l’aveva voluto, anzi, la prima volta che aveva osato fronteggiarlo era finito alla gogna, ricoperto di frutta e verdura marcia, ma col senno di poi aveva ringraziato il destino, dio o qualsiasi altra cosa li avesse messi sullo stesso cammino.
«E allora io gli dico: “Ti avviso, sono stato allenato ad uccidere sin dalla nascita”. Ma vuoi che Merlino ascolti un consiglio da amico?».
«Non eravamo amici, allora», borbottò Merlino, mordendosi un sorriso.
«Sai che cosa ha detto in risposta? “E da quanto tempo vi allenate ad essere un idiota, mio Signore?”».
Alex scoppiò in un’altra delle sue risate contagiose, ma durò poco. Si interruppe infatti quasi subito, puntando gli occhi brillanti di malizia in quelli di Artù: «Non mi dire che ha usato qualche trucchetto di magia per farti fare una pessima figura!».
La smorfia di disappunto del re di Camelot fu addirittura meglio di una risposta. «Oh mio Dio, l’ha fatto davvero! Com’è potuto diventare il tuo servitore, dopo tutto questo?».
«Oh, era la solita giornata tipo a Camelot…», esclamò Merlino scrollando le spalle. «Una vecchia strega che portava rancore verso il re perché aveva condannato a morte suo figlio voleva vendicarsi assassinando il suo di figlio, il qui presente Artù. Era stato organizzato un grande banchetto, con la presenza di una cantante molto famosa, e Gaius era riuscito a trovarmi un posto da servitore. Così, riempiendo una coppa o due, ho notato che tutti nella sala si stavano addormentando».
«Ehi, dovevo raccontare io!», urlò Artù, dandogli una manata. «Perché non vai a prenderci del caffè? Non ho fatto nemmeno colazione, questa mattina!».
Merlino fece per ribattere, ma il biondo indicò la caffetteria dall’altra parte della stazione. «Forza, sbrigati!».
«Artù, stai facendo di nuovo il bullo», lo rimproverò debolmente Alex, cercando di trattenere le risate.
«Ora capisci che cosa intendevo, dicendo che nessuno voleva fargli da valletto?», domandò Merlino, per poi allontanarsi con le mani nelle tasche.
Alex aspettò che fosse lontano, quindi si alzò dalla panchina e si sedette sulla propria valigia, in modo da trovarsi Artù di fronte. «Dai, continua».
Artù sorrise compiaciuto e riprese: «La strega era riuscita a prendere le sembianze della cantante, in modo da poter arrivare a noi del tutto indisturbata. Iniziò a cantare e come ha detto Merlino tutti iniziarono ad addormentarsi, me compreso. Solo lui si è coperto le orecchie in tempo e – ora me ne rendo conto – deve aver usato la magia per far cadere il lampadario sulla strega e spezzare l’incantesimo. A poco a poco ci siamo svegliati tutti, ma non avevamo idea del perché la nostra cantante fosse a terra, con un lampadario addosso e l’aspetto di quella brutta vecchia che aveva giurato vendetta poco prima che suo figlio venisse giustiziato perché aveva usato la magia».
«Che cosa hai detto?».
Artù sollevò gli occhi, senza capire immediatamente cosa l’avesse sconvolta tanto. Quando ci arrivò, si sentì nudo come un verme.
«Mio padre, lui… Aveva regole ferree per quanto riguardava la pratica della stregoneria. Aveva i suoi motivi e io…».
«Merlino praticava la magia per aiutarti e salvarti la vita ogni volta che poteva, credi che tuo padre l’avrebbe giustiziato comunque?!».
«Mia madre è morta a causa della magia», mormorò, ripensando dolorosamente al solo ed unico ricordo di sua madre, un miraggio che proprio una strega – Morgause – gli aveva mostrato.
«Non poteva avere figli, ma mio padre voleva così tanto un erede che chiese i servigi di una strega molto potente, una certa Nimueh. La strega acconsentì, ma non gli disse che, secondo le regole della Religione Antica, ogni vita che veniva donata ne necessitava una in cambio».
«Nimueh si prese la vita di tua madre quando tu venni alla luce», concluse Alex per lui, stringendogli una mano tra le sue, ricoperte da un paio di guanti viola.
Artù annuì. «L’odio di mio padre per la magia era così accecante… Avrebbe ucciso chiunque. Tranne forse…».
«Chi?», domandò l’infermiera, col fiato bloccato in gola.
«Scusami, sto divagando. Dov’ero arrivato con la storia? Ah sì, l’incantesimo si era spezzato e la strega aveva ripreso il suo vero aspetto».
Sentiva gli occhi inquisitori di Alex bruciargli la pelle, ma non era pronto per parlarle di Morgana. Era una ferita ancora aperta, una ferita che forse non si sarebbe mai richiusa.
All’improvviso si domandò come si sentisse Merlino al riguardo.
Il mago aveva capito per primo che Morgana aveva il suo stesso dono, però aveva mantenuto il segreto, forse per mancanza di prove da portare di fronte al re e al principe, o forse per altre ragioni, ragioni di cuore… Aveva sempre sospettato che Merlino provasse qualcosa per colei che alla fine si era rivelata la sua sorellastra, ma nemmeno lui aveva mai avuto prove concrete per affermarlo con certezza. Forse era arrivato il momento perché lo scoprisse una volta per tutte.
«Con le ultime forze che le erano rimaste, mi lanciò contro un pugnale. Merlino intervenne di nuovo e mi salvò, tirandomi via dalla sua traiettoria prima che mi trafiggesse il cuore. Ero ovviamente sconcertato: lo stesso ragazzo che mi aveva dato dell’idiota e del cretino mi aveva salvato la vita. Non aveva senso ai miei occhi. Per questo mi ritenni profondamente offeso quando mio padre decise di premiare Merlino trasformandolo nel mio servitore personale. Iniziai a pensare che quel piccoletto dalle orecchie a sventola l’avesse fatto per entrare nelle grazie del re e non perché tenesse alla mia vita, ma molto presto fui costretto a ricredermi».
Alex sorrise dolcemente, ma poteva ancora leggere nei suoi occhi la curiosità per quella frase lasciata a metà. Sarebbe sicuramente tornata sull’argomento e ne aveva paura, ma decise che fino ad allora non ci avrebbe più pensato.
Un enorme serpentone metallico sferragliò all’improvviso di fronte a loro, facendolo schizzare in piedi con i capelli spettinati dal vento. Sapeva cos’erano i treni – li aveva visti alla TV – ma vederne uno dal vivo lo impressionò tanto che avvertì alla bocca dello stomaco lo stesso rifiuto che aveva provato quando Merlino lo aveva fatto salire per la prima volta sulla sua auto.
«Potete scordarvelo. Anche a costo di rimanere qui seduto per tre giorni, io non salirò su quel coso».
«Che cosa?», esclamò Alex, scioccata, quando si voltò di scatto sentendo la voce di Merlino alle proprie spalle.
«Ci salirà, vedrai».
Con un sorriso le porse il suo bicchierone di caffè, poi recuperò le valigie e si avviò verso le porte metalliche della loro carrozza.
Artù sentì lo stomaco rimpicciolirsi ancor di più, ma la mano di Alex intorno alla sua, protettiva come quella di una madre, gli diede la forza di incamminarsi a sua volta e raggiungere il serpentone. Esitò ancora prima di salire le scalette e deglutì imbarazzato, alzando il viso verso quello di Alex, già a bordo.
«Avanti, non fare il fifone!», esclamò e lo tirò così forte che quasi non cadde con la faccia sui gradini.
Non sapeva con esattezza che tipo di espressione avesse sul viso, ma doveva essere una parecchio buffa, visto che due ragazze scoppiarono in un risolino nascosto dalle mani quando lo videro camminare incerto tra le due file infinite di sedili e tavolini, alcuni occupati ed altri ancora liberi.
Il solo pensiero che silenziosamente lo stessero prendendo in giro ferì così tanto il suo orgoglio che lasciò bruscamente la mano di Alex e deviò il loro sguardo, imbronciandosi. Avrebbe tanto voluto vedere loro, catapultate a mille e passa anni di distanza dalla loro epoca!
«Ecco i nostri posti», annunciò Merlino indicando un tavolino circondato da quattro sedili, del tutto identici a quelli dietro o davanti.
Artù lo guardò inerte mentre afferrava la propria valigia e la sistemava nello scomparto proprio sopra al tavolino e poi si voltava verso Alex con le mani tese.
«Ce la faccio anche da sola», rispose lei, ma non fece in tempo ad infilare del tutto la valigia che un ragazzo con delle grosse cuffie sul cappellino di lana la urtò, facendole perdere l’equilibrio.
Merlino fu più veloce di lui e si piazzò dietro Alex, afferrando la valigia prima che le cadesse addosso e spingendola di nuovo nello scomparto.
In un’altra occasione non ci avrebbe pensato su due volte prima di rincorrere il ragazzo e pretendere che si scusasse pubblicamente prima di metterlo con la testa fuori dal finestrino e tenercelo per tutta la durata del viaggio. Quella volta però non riuscì a muovere un muscolo, come ipnotizzato dal contatto che si era creato tra Alex e Merlino: lui aveva abbassato le braccia ora, ma non osava sfiorare quelle di Alex; mentre lei invece si era appoggiata al suo petto con la schiena, guardandolo in viso da una distanza fin troppo ravvicinata.
Due schieramenti differenti iniziarono a prendersi a pugni nel suo stesso cervello: uno affermava che non c’era nulla di male se Alex e Merlino fossero così intimi, anzi, lo incitava quasi ad avvicinarli ancor di più e ad autoproclamarsi il cupido del loro amore; l’altro invece gli sussurrava che non era giusto, che il fatto che lui avesse dato la sua benedizione a Merlino non voleva dire che quei due potevano fare tutto quello che volevano.
Alla fine il lato più all’antica vinse e si schiarì profondamente la gola, facendosi spazio tra i due per sistemare anche la propria valigia. Si sentì vagamente in colpa per averli separati, ma gli passò presto, preso in contropiede dal treno in movimento.
Era affascinante vedere il paesaggio scorrere rapido fuori dal finestrino. Affascinante e tremendamente spaventoso.

***

Tornare in sé dopo quello che aveva provato accanto ad Alex era stato difficile. Non ricordava l’ultima volta in cui si era sentito così eccitato, ed era stata una vera sorpresa per lui realizzare che il suo corpo era ancora in grado di reagire in quel modo agli stimoli.
Da quando aveva preso posto non aveva fatto altro che lanciare occhiate ad Alex, chiedendosi pieno di imbarazzo se se ne fosse accorta oppure no. Pure in quel momento, nascosto in parte dallo schermo del laptop, la osservava di sottecchi.
Era così bella… Anche se da qualche giorno a quella parte nei suoi occhi e nei tratti del suo viso c’era qualcosa di diverso, come se si fossero induriti ed affilati, in grado di ferire con la stessa facilità con cui potevano ammaliare. E poi quella mattina anche il suo comportamento gli era sembrato insolito: gli aveva puntato un pugnale alla gola con fin troppa facilità, come se si fosse aspettata un attacco a sorpresa, e questo non gli piaceva affatto. Non voleva che si sentisse minacciata; non voleva che Alex diventasse un cavaliere, né una strega. Amava Alex per ciò che era e…
Lui amava Alex. L’unica cosa che non avrebbe dovuto permettersi di fare, per nessuna ragione al mondo.
Abbassò di scatto lo schermo del laptop e si alzò. Nonostante non ne avesse mai sofferto prima, iniziò a sentirsi un po’ claustrofobico. Aveva bisogno di un po’ d’aria.
«Dove vai?», gli domandò Artù, lanciandogli un’occhiata preoccupata.
«In bagno», rispose nervosamente e senza nemmeno volerlo incrociò lo sguardo di Alex, cosa che peggiorò la situazione.
Si mosse in fretta lungo la carrozza e ne uscì, trovandosi così solo nel piccolo corridoio in cui si trovavano i bagni e le porte da cui erano saliti all’incirca un’ora prima. Si appoggiò al vetro di una di esse e lo guardò appannarsi all’altezza del suo naso.
Rimase così per cinque secondi, o forse per cinque minuti, con gli occhi fissi sulla campagna e i paesini che si susseguivano velocemente in lontananza, quando sentì le porte automatiche della carrozza aprirsi nuovamente. Con la coda dell’occhio scorse Alex e si morse l’interno della guancia, imprecando silenziosamente.
«Va tutto bene?», gli domandò l’infermiera, con le sopracciglia aggrottate.
«Sì, avevo solo bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe. Tu, invece?».
Alex scrollò il capo, ridacchiando. «Mai stata meglio. Perché?».
«Mi sembri… diversa, tutto qui».
La sua espressione cambiò in modo assai repentino, insospettendolo ancora di più: sembrava stata colta sul fatto a rubare, con un misto di paura e vergogna negli occhi.
«Alex, c’è qualcosa che vuoi dirmi?», le chiese quasi dolcemente, avanzando di un passo verso di lei.
Nonostante si fosse mosso con cautela, l’infermiera sobbalzò come un cerbiatto spaventato da un rumore improvviso nella foresta – e lui ne aveva visti tanti scappare a causa della sua inettitudine nella caccia.
«Torno da Artù», gli disse con voce strozzata prima di scomparire di nuovo dietro le porte scorrevoli, veloce come Flash in persona.
Merlino sospirò e decise di tornare sull’argomento alla prossima occasione, ma per i prossimi cinque minuti sarebbe rimasto ancora lì in piedi, con la fronte contro il vetro freddo e gli occhi chiusi, cullato dal ritmico sferragliare del treno sulle rotaie.

***

«Allora, l’hai trovato?».
Alex fissò Artù come se fosse comparso dal nulla e sbatté più volte le palpebre. «Chi?».
«Come chi? Merlino!».
«Oh… No, è veramente al bagno», mentì, sedendosi di fronte a lui anziché di fianco.
Artù sospirò e si appoggiò al tavolino con le braccia incrociate, gli occhi blu come il mare e colmi di apprensione fissi nei suoi.
«Mi vuoi dire che cosa c’è che non va? È da qualche giorno che sembri diversa, quasi in collera con il mondo».
Anche Artù l’aveva notato. Allora non era solo una sua impressione… Da quando aveva recuperato Excalibur dal lago era veramente cambiata. Ma non poteva confessarglielo, né a lui né tantomeno a Merlino. Chissà come avrebbero reagito, se avessero saputo del suo ritrovamento! Sicuramente gliel’avrebbero portata via e questo non poteva assolutamente permetterlo: Excalibur aveva scelto lei per tornare alla luce ed impugnandola si sentiva invincibile, una sensazione troppo bella per potervi rinunciare.
«Non dovrei esserlo?», rispose alla fine, facendo del suo meglio per risultare una bugiarda migliore dell’antenato. «Ci ritroviamo in questa situazione per colpa mia».
«E che cosa ti fa pensare che sia per colpa tua?».
Era stata convincente, ma si era tradita con le sue stesse mani.
Sospirò, confessando: «La settimana scorsa ti ho sentito parlare con Merlino, quando era ancora privo di conoscenza. Hai detto che Merlino e tuo figlio sono stati separati perché oggi io potessi spingervi a lottare ancora una volta per questo mondo».
«Ma non sei stata tu a deciderlo. La colpa è di Freya e di quelli come lei».
«Chi è Freya?».
«La custode di Avalon, una lunga storia».
Artù sollevò di scatto gli occhi e si ammutolì, salutando Merlino con un cenno del capo.
Lo stregone si avvicinò al loro tavolo e dopo un attimo di esitazione si sedette accanto al suo re, lasciando Alex da sola.
Il vagone sembrava piombato nel silenzio più assoluto e l’infermiera cercò di pensare a qualcosa da dire, o almeno di inventarsi un passatempo che avrebbe fatto trascorrere più velocemente l’altra ora di viaggio che rimaneva, ma il cellulare di Artù le fornì l’argomento perfetto.
«Chi è?», gli chiese, sporgendosi così tanto sul tavolino che se Artù avesse sollevato di scatto il capo le avrebbe tirato una testata.
«Fatti gli affari tuoi, impicciona», l’apostrofò, coprendo lo schermo dello smartphone con una mano.
Ma Alex non si arrese e con sguardo malizioso riprese: «Prima hai detto che questa mattina non hai fatto colazione. Dove sei andato?».
«Mi lasci in pace? Vai a tormentare qualcun altro».
«Ma tu sei il mio bis-bis-bis-bis-bis-bis…».
«Piantala».
«Per favore!». Alex sbatté le ciglia così dolcemente che avrebbe potuto fare concorrenza al più tenero dei cuccioli. E Artù fu costretto a cedere.
«Sono andato da Cathleen», sbottò con irritazione. «Sei contenta adesso?».
«Affatto! Voglio sapere tutto quello che vi siete detti, parola per parola».
Artù aprì la bocca, poi arrossì e la richiuse.
Sia Alex che Merlino lo fissarono trattenendo il respiro, fino a quando l’infermiera quasi non si lasciò scappare un gridolino di emozione.
«Avete fatto sesso?!», esclamò sforzandosi per tenere un tono di voce basso, ma probabilmente i passeggeri dell’intera carrozza la sentirono.
Artù rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva, squittendo un «Che cosa?!» che attirò ancora maggiore attenzione sul loro trio.
«Te lo ricordi vero che questo è il ventunesimo secolo e non c’è nulla di male se due persone non sposate fanno sesso, vero?», gli domandò Alex, a voce bassissima quella volta.
«Io e Cathleen non abbiamo fatto sesso», precisò, paonazzo in volto. Quindi ribaltò la situazione, guardandola con sguardo assassino: «Stai per caso insinuando che anche tu hai…?».
Alex si ritrasse all’improvviso, appoggiando la schiena alla poltroncina ed incrociando le braccia al petto. «Questo è troppo anche per te, nonno. E non osare spostare l’attenzione su di me un’altra volta: stavamo parlando di te e Cathleen. Che cos’è successo stamattina?».
«Ho deciso di andare a casa sua perché da quando Merlino le ha rivelato la verità su di noi non mi aveva più rivolto la parola», rispose alla fine, grattandosi la nuca dopo essersi scompigliato i capelli biondi sulla testa. «Continua ad avere ancora forti dubbi su tutta la storia del re di Camelot, ma le ho promesso che quando tornerò le spiegherò ogni cosa».
Alex inarcò le sopracciglia, in attesa. «E?», lo incalzò con impazienza.
«E l’ho baciata», disse con un filo di voce, come se stesse confessando un crimine punibile con la pena di morte. «E poi lei ha baciato me ed è stato tutto fantastico, anche se…».
«Anche se cosa?», ansimò l’infermiera, guardandolo disperata.
Quella volta fu Merlino a rispondere, stringendosi il collo tra le spalle. «Anche se entrambi hanno perso l’amore della loro vita e i sensi di colpa saranno inevitabili». Si rivolse direttamente ad Artù, parlando con calma e dolcezza: «Ne abbiamo già parlato: Ginevra avrebbe voluto vedervi felice».
«Lo so». Si passò le mani sugli occhi ora lucidi di lacrime e pretendendo che non si fosse commosso stese una mano verso Alex. «Mi presti quel tuo affare per ascoltare la musica?».
L’infermiera annuì controvoglia, decidendo di concedergli un po’ di spazio per se stesso, e frugò nella borsa a tracolla fino a quando non trovò l’mp3. Glielo passò e lo osservò infilarsi le cuffie nelle orecchie ed isolarsi, rannicchiandosi ad occhi chiusi contro il finestrino, il giubbotto steso addosso a mo’ di coperta.
Alex esitò prima di gettare un’occhiata fugace verso Merlino, scoprendo che lui la stava già guardando.
Non voleva aumentare la tensione che c’era tra loro riportando a galla il desiderio di Merlino di “riposare” – l’altra parola era troppo spaventosa anche solo per pensarla, – oppure mettersi ulteriormente in ridicolo spiegandogli che i suoi sentimenti per lui non impedivano loro di essere solo amici; soprattutto, non voleva che il mago indagasse ancora sui motivi delle sue ultime stranezze. Quindi abbozzò un sorriso e scivolando sulla poltrona di fronte alla sua gli chiese candidamente di raccontarle una delle sue storie.
«Come, scusa?».
«A furia di parlare di Camelot mi è venuta una specie di nostalgia, come se vi appartenessi anche io. Credo che mi sarebbe piaciuto vivere al castello». E magari io e te ci saremmo incontrati e avremmo potuto essere felici insieme, almeno per un po’.
Merlino annuì lentamente, per poi aprirsi anche lui in un sorriso. «Sì, credo proprio che saresti stata felice. Di sicuro tutti i cavalieri ti avrebbero fatto la corte».
Il sorriso di Alex si allargò per il piacere. «Raccontami un’avventura in cui ci siano anche loro».
«Vediamo… La conosci la storia di Lamia?».
L’infermiera scosse il capo e Merlino iniziò a raccontare, senza rendersi conto che Artù si era tolto una cuffietta per poterlo ascoltare e ogni tanto accennava un sorriso, ricordando i tempi andati in cui non aveva la minima idea di tutto ciò che Merlino faceva per lui quotidianamente.

***

Era da poco passato mezzogiorno quando scesero dal treno.
Il viaggio era durato solo un paio d’ore, eppure furono tutti felici quando toccarono di nuovo terra e nessuno obiettò quando Merlino propose di camminare verso il loro hotel, invece di ritrovarsi di nuovo seduti su un taxi. Dopotutto fuori dalla stazione di Paddington il sole allo zenit splendeva in un cielo così azzurro e limpido da non crederci, riscaldando piacevolmente la pelle mentre un venticello primaverile e frizzante la levigava.
Non attraversarono Hyde Park, anche se stendersi sull’erba, in quell’oasi di verde piantata nel cuore pulsante di Londra, era un qualcosa che sarebbe piaciuto molto al re di Camelot. Ci girarono attorno, percorrendo prima Bayswater Road e poi la lunga Park Lane.
Sul loro cammino incrociarono almeno una mezza dozzina di autobus rossi a due piani che sponsorizzavano visite turistiche della città, molte cabine telefoniche rosse e un chiosco al quale si fermarono per comprare tre enormi porzioni di fish and chips. Solo il cibo fu in grado di far star zitto Artù, il quale non aveva mai smesso di porre domande da quando avevano messo piede fuori dalla stazione. Sembrava un bambino.
«E quell’arco che abbiamo visto prima? Perché era lì?».
Alex roteò gli occhi al cielo: aveva gioito troppo in fretta.
Merlino invece sorrise, felice di poter soddisfare la sete di conoscenza del suo re. Inghiottì le patatine che si era appena messo in bocca e rispose: «Quello era il Marble Arch. John Nash, l’architetto che l’ha progettato nel 1828, l’aveva pensato come nuova entrata trionfale alla residenza reale di Buckingham Palace, ma una volta costruito si rese conto che le carrozze da cerimonia non sarebbero mai passate sotto le arcate, erano troppo strette. Così venne spostato sui resti di Tyburn».
«Tyburn?».
Il mago scrollò le spalle, cercando un cestino in cui buttare i propri avanzi. «La vecchia piazza in cui fino al Diciottesimo secolo avvenivano le pubbliche esecuzioni, anche quelle post mortem. Uno spettacolo davvero macabro».
Alex non si sarebbe mai abituata alla quantità di informazioni storiche che Merlino conosceva. E mai, mai avrebbe smesso di chiedersi quante di esse le avesse soltanto lette sui libri e quante invece le avesse apprese di prima mano.
Rabbrividì solo al pensiero e si alzò a sua volta dalla panchina, stirando le braccia verso il cielo.
«Quanto manca al nostro hotel?», gli chiese con finta noncuranza: la curiosità infatti la stava logorando.
«Non molto».
«Non molto quanto, esattamente?».
Merlino le sorrise furbescamente e la ignorò. «Forza, andiamo».

Alex non sapeva il nome dell’albergo in cui avrebbero pernottato, ma si era immaginata un piccolo edificio bianco, con alcune bandiere sulla facciata e molti fiori sui davanzali delle finestre. Un ambiente accogliente, magari a conduzione familiare, con i servizi minimi ma ben curati in ogni dettaglio. Un due, tre stelle al massimo. Per questo rischiò un infarto quando Merlino indicò l’altissima torre di fronte a loro, così alta che venne loro il torcicollo per averla guardata troppo a lungo.
«Tu sei completamente pazzo!», gli urlò contro non appena ritrovò un briciolo di autocontrollo. «Hai prenotato un cinque stelle lusso?!».
Merlino scrollò di nuovo le spalle, continuando a sorridere angelicamente. «Domani sera al galà ci spacceremo per ricchi filantropi, questo ci aiuterà a calarci meglio nella parte».
Alex stava giusto per dargli ancora una volta del pazzo scriteriato, ma il mago attraversò la strada invitando Artù a seguirlo, lasciandola indietro. Non poté far altro che mordersi la lingua ed affrettarsi ad entrare con loro nella hall, anch’essa immensa ed elegante da togliere il fiato.
Rimase in disparte con Artù – più per soggezione che per altro – mentre Merlino, al bancone del ricevimento, consegnava i loro documenti e la propria carta di credito. Il portiere (che come secondo lavoro faceva sicuramente il modello ad Abercrombie) fece una rapida strisciata e dopo aver controllato che fosse tutto in regola allungò a Merlino le chiavi delle loro stanze e diede il via libera al facchino che con efficienza sistemò le loro valigie sul carrello e fece loro strada verso uno dei tanti ascensori dalle pareti dorate.
«Questo posto mi mette a disagio», sussurrò Alex all’orecchio di Merlino, cercando di non mostrarsi sofferente a causa della stretta micidiale di Artù sul suo povero polso. La sua claustrofobia era alle stelle.
I loro nasi quasi si sfiorarono quando il mago si voltò verso di lei e ci fu un attimo di imbarazzo. Poi a sua volta si chinò verso il suo orecchio e rispose a bassa voce: «Pensavo che essendo di stirpe reale ti sarebbe piaciuto il lusso».
Alex non riuscì a ribattere perché Artù la trascinò fuori dall’ascensore non appena le porte scorrevoli si aprirono, traendo un respiro profondo e ringraziando gli dei di essere sopravvissuto.
«Signorina Greenwood, da questa parte prego», disse il facchino, invitandola a seguirlo lungo il corridoio.
Alex lo fissò confusa, poi fissò Merlino che le consegnava la chiave della sua stanza, spiegando: «La nostra camera è due piani più su».
Artù sobbalzò. «Cosa?! Mi stai dicendo che devo risalire su quella cabina della morte? Io ti odio, Merlino».
Lo stregone sorrise e con un cenno del capo la invitò a proseguire.
«Ci vediamo dopo», li salutò sospirando e si incamminò dietro il facchino che ora trasportava solo la sua valigia.
Avanzarono per quella che le sembrò un’eternità, tanto che quando si fermarono di fronte ad una delle tantissime porte tutte uguali si lasciò scappare un «Finalmente» più maleducato di quanto non avesse voluto. Imbarazzata, chinò il capo e consegnò la chiave al facchino, il quale le fece strada all’interno della sua suite.
Non poté davvero evitare di rimanere a bocca aperta quando si ritrovò in un salotto grande quanto quello di casa sua, con un divano a tre posti addossato sulla parete di sinistra e una scrivania e una chaise-longue sulla destra, mentre sul fondo della stanza delle pesanti tende dalle sfumature autunnali si aprivano su una grande finestra da cui si poteva ammirare gran parte dello skyline di Londra, tra cui la famosa ruota panoramica sulle rive del Tamigi.
«Wow», mormorò, mentre il facchino depositava la sua valigia accanto al divano e accendeva mano a mano tutte le applique, spiegandole come regolarne l’intensità in base all’atmosfera che voleva creare.
Alex fece del suo meglio per prestargli attenzione, ma tutto le sembrava così surreale da farle temere che stesse sognando. Probabilmente era appena rientrata dall’ennesimo turno di notte in ospedale ed era collassata sul divano, dimenticandosi di dare da mangiare al piccolo Artù.
«Signorina Greenwood, se ora vuole seguirmi le mostro la camera da letto».
Annuì senza troppa convinzione, lasciando che il facchino la conducesse nella stanza attigua, ancora più grande e confortevole della precedente: il letto alla francese si trovava sulla sinistra, sormontato da un quadro famoso ma di cui non ricordava il titolo; sulla destra c’erano un altro divanetto e una porta scorrevole che il facchino indicò come il guardaroba. Nella parete in fondo alla stanza c’era un’alta finestra, ma a differenza di quella nel salotto quella sembrava più una specie di bovindo, con una panchina imbottita e un paio di cuscini su cui sedersi per godersi in tutta tranquillità il panorama.
Alex non vedeva l’ora che il facchino se ne andasse per potersi rilassare di fronte a quella vista magnifica, ma prima la invitò a seguirlo un’ultima volta perché le mostrasse il bagno.
Stava quasi per dirgli che l’avrebbe trovato sicuramente anche da sola, ma le parole le morirono in gola, sopraffatte dall’incredulità, quando tantissime luci piccole come candele si accesero intorno ad una vasca idromassaggio posta proprio di fronte all’ennesima vetrata.
«Credo sia tutto, signorina Greenwood. Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a contattare la reception. Buona permanenza a Londra».
Alex annuì come uno zombie, seguendo il facchino fino all’ingresso, dove rimase fermo con le mani unite sul ventre. Il suo sguardo la mise così in imbarazzo che l’infermiera fu costretta a scrollarsi di dosso lo shock. Solo allora capì che il facchino stava attendendo la mancia.
Gli rivolse un sorriso quasi meschino, ma non era rivolto a lui. Sapeva che dopo tre giorni trascorsi in quella suite avrebbe odiato casa sua e Merlino doveva pagare per questo.
«Dica pure ai miei accompagnatori che le ho promesso una lauta mancia, provvederanno loro», gli disse e gli chiuse la porta in faccia, alla quale si appoggiò per guardarsi di nuovo intorno. Si lasciò scappare un risolino quasi isterico e corse in bagno per riempire la vasca idromassaggio.
All’improvviso il lusso non la metteva più a disagio.

***

Artù si gettò sul divanetto di pelle chiara, le lunghe gambe che sporgevano dal bracciolo, e guardò Merlino chiudere la porta della loro suite con un sorriso divertito sulle labbra, il portafoglio ancora stretto in mano.
«Adesso che si fa?», gli domandò, portandosi le braccia incrociate dietro la nuca.
«Pensavo che avremmo potuto riposare per qualche ora e poi fare un altro giro per la città».
In una frazione di secondo Artù fu seduto sul divano, gli occhi blu fissi nei suoi. «Perché, ti senti male? Non mi mentire, Merlino, o giuro che…».
«Ho solo dormito poco questa notte», lo interruppe, trovando comunque dolce il fatto che si preoccupasse per lui.
Il re di Camelot rilassò le spalle e tornò a sdraiarsi, ma non lo perse di vista nemmeno per un attimo.
Merlino recuperò la valigetta nera che aveva lasciato sul tavolo dall’altra parte del salotto e poi con il trolley nell’altra mano si avviò verso la propria camera. O almeno lo avrebbe fatto, se Artù non gli avesse chiesto che cosa ci fosse in quella valigetta.
«Gli inviti per il galà e altri documenti», mentì e Artù gli credette – o fece finta – permettendogli di chiudersi finalmente la porta alle spalle.
Merlino sospirò e posò la valigetta sul letto, quindi inserì i quattro numeri della combinazione. La serratura si sbloccò, mostrando un piccolo cerchio di metallo, spesso all’incirca due centimetri e ricoperto di incisioni, con un cristallo grezzo incastrato nel mezzo. Lo sfiorò, sentendo un brivido corrergli lungo la spina dorsale. Richiuse di scatto la valigetta e la cacciò sotto al letto, maledicendosi.
Lanciò a terra i cuscini di troppo e si stese sopra le coperte, dando le spalle al sole accecante che illuminava lo skyline di Londra. Non appena chiuse gli occhi piombò in un sonno profondo e tormentato dagli incubi.

***

Alex pensava che la sua camera fosse enorme, ma non aveva ancora visto quella di Merlino e Artù. La sua in confronto era uno sgabuzzino per le scope!
Incredula, non riusciva a far altro che vagare per l’immensa suite, notando ogni piccolo particolare ed ignorando lo sguardo scioccato di Artù, pigramente steso sul divano. Doveva essere davvero preoccupato per la sua sanità mentale, se distoglieva lo sguardo dalla replica di una vecchia partita di calcio che lui ovviamente si era perso.
«Posso vedere la tua camera da letto?», gli domandò ad un tratto, tanto all’improvviso che il re di Camelot sobbalzò, lasciandosi quasi sfuggire di mano il telecomando.
Sospirò, indicando con un cenno del capo la porta dietro la poltrona. «Da quella parte».
L’infermiera corse contro la porta come avesse voluto sfondarla e si pietrificò di fronte alla magnificenza di quella zona notte.
Mentre i toni della sua stanza erano prevalentemente quelli caldi ed avvolgenti del legno, quella suite sembrava un piccolo pezzo di Paradiso: il bianco candido delle lenzuola, delle tende e della poltrona ricordava un soffice manto di nuvole, le venature d’oro degli intagli nei mobili e dei ricami sui cuscini brillavano come raggi di sole, i fiori che si trovavano sul comodino e il sedile di velluto trapuntato ai piedi del letto sembravano frammenti di cielo.
Alex fece un passo incerto all’interno della camera e sfiorò uno dei pali di legno lucido a sostegno del baldacchino: era decisamente vero. Lei aveva sempre desiderato avere un letto a baldacchino!
Quasi pestò i piedi a terra per l’invidia, poi si gettò a volo d’angelo sul materasso soffice e chiuse gli occhi, beandosi del piacevole calore che la luce del sole le regalava sulla pelle entrando dalla finestra panoramica.
Senza rendersene conto si appisolò, ma credette davvero di star sognando quando aprì di scatto gli occhi e si ritrovò il viso di Merlino a pochi centimetri dal proprio, la sua mano che le accarezzava i capelli ancora un po’ umidi sull’attaccatura del collo dopo la sua immersione nell’idromassaggio.
«E il lusso ti metteva a disagio, uh?».
Alex si sollevò sui gomiti troppo in fretta, senza dare a Merlino il tempo necessario per scendere dal letto: le loro fronti si scontrarono ed entrambi gemettero per il dolore, per poi scambiarsi un’occhiata e scoppiare a ridere. Un sogno non avrebbe fatto così male.
«Per quanto ho dormito?», gli domandò, controllando se avesse sbavato o meno.
Aveva scoperto che poteva capitarle durante l’ultimo pigiama party della sua vita, a tredici anni, e il nomignolo con cui avevano iniziato a chiamarla a scuola l’aveva ossessionata tanto che anche adesso, a distanza di anni, si preoccupava di come qualcuno di estraneo potesse trovarla dopo un sonnellino. Non che Merlino fosse un estraneo, ma era pur sempre l’uomo di cui era innamorata…
«Una ventina di minuti, al massimo. Sono io che ho dormito troppo».
«Probabilmente ne avevi bisogno. Ma perché mi hai svegliata?».
Merlino aprì la bocca, ma qualcosa scattò nella sua mente e la richiuse, facendo svanire persino il sorriso che ne incurvava le labbra.
Alex si chiese se non avesse dovuto essere più specifica, ora che l’aveva preso in contropiede. Avrebbe potuto chiedergli perché le stava accarezzando i capelli di nascosto, perché si fosse avvicinato così tanto al suo corpo… Non ne ebbe il coraggio.
«Non che volessi dormire, comunque», esclamò, scendendo dal letto. «Allora, dove andiamo?».
Merlino riconquistò il proprio sorriso, gli occhi lucenti d’emozione. «Pensavo di far vedere ad Artù la residenza della Regina».
«Sperando che non voglia spodestarla».
«Ehi, vi siete dimenticati ancora di me? Vi sento!», urlò Artù dal salotto.
Alex trovò inquietante che il suo bis-bis-bis-eccetera-nonno origliasse le sue conversazioni con Merlino, ma non appena incrociò lo sguardo dello stregone scoppiò a ridere, contagiandolo.

Trascorsero un bel pomeriggio, come tre semplici turisti senza nessun altro pensiero oltre a quello di godersi la città inondata dal sole.
Avevano raggiunto Buckingham Palace passando per Constitution Hill, una strada che permise loro di vedere il Wellington Arch e l’Australian Memorial, su cui Merlino raccontò un paio di aneddoti probabilmente sconosciuti al resto del mondo.
Alex aveva scattato moltissime foto al Palazzo, mentre Artù continuava a borbottare che non poteva essere la vera residenza della famiglia reale: che castello era, senza le torri?
Così erano passati oltre, dirigendosi verso le rive del Tamigi per ammirare il Big Ben e il Palazzo di Westminster.
Mano a mano che si avvicinavano all’orologio più iconico del mondo Alex sentiva la delusione crescere sempre più dentro il suo cuore. Quando era stata a Londra da bambina, con i suoi genitori e poi in gita scolastica, le era sembrato molto più alto! Ora invece persino il loro hotel lo superava.
La sede del Parlamento invece era incantevole, un vero spettacolo per gli occhi, anche se le faceva specie osservare quell’edificio in stile neogotico affiancato, sull’altra sponda del fiume, dal London Eye, la gigantesca ruota panoramica che lei aveva sempre associato ad un’enorme ruota per criceti.
Il sole era già quasi calato all’orizzonte quando decisero di tornare in albergo per la cena. Merlino aveva detto proprio così: «Sarà meglio tornare in hotel, o ci perderemo la cena».
Alex l’aveva fissato sconvolta, chiedendosi se avesse davvero fatto quello che temeva avesse fatto.
«Hai prenotato a quel ristorante? Quello al ventottesimo piano?».
«Uhm-uhm», aveva annuito lui con un sorriso ebete in faccia.
Merlino era pazzo, veramente ricco e pazzo.
Raggiunsero l’albergo e Alex tirò fuori dalla valigia il vestito che teoricamente avrebbe dovuto indossare la sera successiva, al galà. Era l’unico abito che fosse adatto all’occasione e l’unico che si era portata dietro, certa che l’avrebbe usato appunto per una sera soltanto.
Continuò a dare dell’idiota a Merlino mentre si spogliava e si immergeva nella vasca per il secondo idromassaggio della giornata, il quale però non servì a molto.
Si era appena avvolta nel morbido accappatoio bianco in dotazione, quando sentì dei colpi inconfondibili alla porta della sua suite.
«Avevi detto alle sette e trenta, se ti aspetti che sia già pronta sei proprio…».
Si era interrotta a metà, guardando lo stregone sorreggere due buste di plastica con il logo rosso di un ristorante cinese take-away. Era così felice che quasi si dimenticò di indossare soltanto l’accappatoio quando gli gettò le braccia al collo.
Quella sera mangiarono tutti e tre cibo cinese, seduti per terra intorno al basso tavolino di vetro del suo soggiorno, commentando la giornata appena terminata e ridendo a crepapelle quando Merlino raccontò loro dell’occhiata piena di repulsione che la receptionist gli aveva rivolto quando si era resa conto che era rientrato con la cena take-away.
Alex non si sentiva così bene da tanto, troppo tempo, e quando arrivò il momento della buonanotte un nodo le strinse la gola, facendole desiderare che Artù e Merlino restassero lì con lei per altri cinque minuti. Probabilmente sarebbero rimasti se gliel’avesse chiesto, ma non le andava di fare la bambina capricciosa. Quindi li salutò rimanendo sulla soglia della sua suite, completamente a suo agio nel proprio pigiama azzurro con le pecorelle, e poi si chiuse la porta alle spalle, avvertendo immediatamente il silenzio e la solitudine come due macigni sul petto.
Si era messa a letto da dieci minuti (e si era girata e rigirata per altrettanti) quando le arrivò un SMS. Afferrò il cellulare e nel giro di due minuti si era già cambiata, pronta per sgattaiolare fuori dalla suite.

***

Vediamoci tra dieci minuti al bar del ventottesimo piano.

Lesse per l’ennesima volta il messaggio che le aveva inviato e sospirò, passandosi stancamente una mano sul viso per poi portarsi alle labbra il cocktail che nel frattempo aveva ordinato.
Forse seguire il proprio istinto era stata una mossa azzardata, considerando che Alex non si era ancora vista. Ma non sarebbe riuscito a darsi pace e non poteva più continuare così: doveva parlare con lei, riuscire a farle dire che non c’era futuro per loro e costringerlo ad accettarlo. Perché il vero problema – solo ora lo vedeva – era lui.
Alzò lo sguardo verso l’entrata del bar e finalmente scorse Alex affacciarsi e scrutare tra la folla. Merlino sollevò una mano per farsi notare e lei accennò un sorriso, incrociando il suo sguardo.
Indossava dei semplicissimi jeans e una camicetta rossa – quanto le donava il colore dei mantelli dei cavalieri di Camelot! – e aveva legato i capelli in uno chignon morbido, a cui sfuggivano diverse ciocche bionde che le sfioravano il profilo della mandibola e il collo candido.
«Scusami se ci ho messo tanto, non trovavo l’ascensore giusto», esordì, sedendosi al suo fianco mentre un solerte cameriere passava a ritirare la sua ordinazione.
«La stessa cosa che ha preso lui», rispose velocemente Alex, indicando il bicchiere di Merlino. «Qualunque cosa sia», mormorò quando si fu allontanato, guardando il cocktail con sguardo circospetto.
Il mago si strinse nelle spalle. «Non è male. È whisky con succo di lamponi, crema di cacao e succo di lime».
«Nah, troppo sofisticato per i miei gusti. Ma non siamo qui per bere, no?».
Merlino sentì il cuore battergli su per la gola, come se volesse anche lui un sorso del cocktail, ed abbassò lo sguardo.
Rimasero in silenzio per quella che sembrò un’eternità, avvolti dalla rilassante musica jazz, dalle leggere conversazioni degli altri avventori del bar e dalle luci soffuse che mettevano in risalto il bagliore notturno della città tutt’intorno a loro.
Solo quando arrivò anche il suo cocktail, Alex osò interrompere quell’imbarazzante silenzio.
«Perché mi hai detto di venire qui, se hai intenzione di startene zitto?», gli chiese quasi con rabbia, stringendo forte una mano intorno al bicchiere.
Merlino sollevò lentamente il capo e la guardò negli occhi, realizzando che se esisteva davvero un Paradiso allora i suoi prati dovevano essere per forza del colore dei suoi occhi.
«Ti amo», sussurrò, rendendosene conto troppo tardi: Alex l’aveva sentito, non poteva rimangiarselo. E che senso avrebbe avuto, in fin dei conti?
La sorpresa che vide prendere possesso del suo volto fu talmente grande che Merlino abbozzò un sorriso triste, prendendole una ciocca di capelli per sistemargliela dietro l’orecchio destro.
«È tutta colpa mia», aggiunse, cercando di leggere tutte le emozioni che le attraversarono lo sguardo, rendendolo annebbiato, lontano. «Non avrei mai dovuto provare questi sentimenti, non di nuovo. Lo sapevo che era uno sbaglio bere quel veleno, morire, rinascere con questo aspetto e presentarmi alla festa di capodanno all’ospedale. Lo sapevo, ma l’ho fatto lo stesso, perché ti amavo e volevo starti più vicino di quanto il vecchio Dragoon avrebbe mai potuto.
«Mi sono reso conto della pazzia che avevo commesso quando ormai era troppo tardi per tornare indietro, ma ho iniziato a sperare che mi sarebbe passata quando tu e Keith avete iniziato a frequentarvi. L’hai conosciuto alla stessa festa in cui hai, per così dire, conosciuto me. Ironico, non trovi? Mi sono sentito ferito, ero geloso, ma era proprio ciò di cui avevo bisogno: vederti felice era l’unica cosa di cui mi importasse veramente.
«Per un po’ mi sono davvero illuso che i miei sentimenti per te si fossero affievoliti, ma poi involontariamente ho ascoltato una telefonata di Keith e tutto quello che avevo cercato di dimenticare, di cacciare nell’angolo più profondo del mio cuore, mi è crollato addosso di nuovo. Keith ti stava tradendo e io non potevo, non potevo permettere che ti facesse del male.
«Ho iniziato a pedinarlo. Per settimane l’ho seguito durante le sue trasferte a Newport e ho raccolto prove della sua seconda relazione. Avevo foto, video… avrei potuto farteli avere in qualsiasi momento, eppure ho esitato. Ho realizzato che se tu e Keith aveste rotto, allora io avrei ripreso a sperare. Il mio amore assopito si sarebbe svegliato e mi avrebbe tormentato, giorno e notte, sapendo che mai e poi avrei potuto averti.
«Ad un tratto Keith smise. Aveva deciso che eri tu la persona che amava, che voleva spendere il resto della sua vita con te: in poche parole, voleva chiederti di sposarlo. Allora mi dissi di lasciar correre, mi dissi che per il mio stesso bene avrei dovuto far finta di niente, fingermi entusiasta quando mi avresti mostrato il tuo anello di fidanzamento e mi avresti raccontato per un milione di volte il modo romantico con cui ti aveva fatto la proposta. Però una parte di me continuò, imperterrita, a dirmi che non me lo sarei mai perdonato, se un giorno tu fossi venuta a sapere quello di cui io ero già a conoscenza. Ti saresti pentita di averlo sposato, avresti sofferto moltissimo e lo sai… io non sono un tipo egoista.
«Sapevo quando Keith avrebbe deciso di farti la proposta, così quello stesso giorno corsi a Newport e convinsi Bess, l’amante di Keith, a chiamarti. Non è stato difficile, lei era stata scaricata per un’altra e sapeva bene come ti saresti sentita se avessi sposato un uomo che ti aveva tradita per così tanto tempo. Usai un indirizzo email falso per inviarti quelle foto e il resto lo sai».
Le parole gli erano uscite come un fiume in piena, inarrestabili. E sarebbe stato bello se si fosse sentito anche solamente in parte libero da quel fardello che gli comprimeva il petto. La verità era che gli sembrava ancora più pesante, di fronte agli occhi colmi di lacrime di Alex.
«Perché mi stai dicendo tutto questo?», gli chiese dopo un minuto di silenzio, sforzandosi per mantenere la voce ferma.
«Ti ricordi quando mi hai chiesto se era così sbagliato amarmi? Ecco, per me amarti è la cosa più sbagliata che ci sia. Io non posso renderti in alcun modo felice, Alex. Quando tutta questa storia del nostro destino sarà finita, io… io ti lascerò, e questa volta per sempre».
«E credi che non soffrirò comunque?».
Ormai le era impossibile trattenere i singhiozzi, ma il suo autocontrollo era a dir poco spaventoso: le sue spalle, che solitamente tremavano quand’erano squassate dai singhiozzi, erano rigide come legno, e la sua voce, tremante e spezzata, usciva chiara e decisa, come se dentro di lei non stesse avvenendo alcun terremoto di livello dieci della scala Richter.
«Tu sei pazzo, se credi che ti permetterò di…», deglutì, mostrando così il primo piccolo segno di cedimento. «Tu non ti toglierai la vita di fronte ai miei occhi, Merlino».
«Non potrai impedirlo».
Alex aprì nuovamente la bocca per ribattere, ma Merlino scivolò più vicino a lei sul divanetto e le accarezzò la testa col palmo della mano, lasciandola scorrere dai capelli alla sua guancia rigata dalle lacrime.
«Ci ho pensato a lungo», sussurrò. «Se davvero la Terra sta morendo perché la magia sta morendo, allora qualcuno dovrà guarirla. Io sono l’unico in grado di ristorarla, di dare indietro al mondo tutto il potere che si è accumulato nelle mie vene durante i secoli. Man mano che la rilascerò mi indebolirò, le mie forze verranno meno… Quando tutta la magia avrà abbandonato il mio corpo, diventerò polvere».
«Stai zitto, zitto», gemette e lo colpì al petto con dei pugni leggeri, per poi affondare il viso nel suo petto.
Aveva attirato l’attenzione dei clienti dei tavoli vicini, tanto che Merlino capì che era meglio levare le tende. Prese Alex per mano e l’aiutò ad alzarsi, accompagnandola fuori dal bar tenendola stretta a sé.
Chiamò l’ascensore con ancora Alex appoggiata addosso, il suo respiro caldo ed irregolare contro il collo. Il desiderio di stringerla più forte, con entrambe le braccia, e di sentire quel respiro mescolarsi al proprio era quasi incontrollabile, perciò ringraziò il cielo quando le porte dell’ascensore si aprirono con un din.
Aveva intenzione di accompagnarla in camera, ma decise che forse non era l’idea migliore. Quando l’ascensore si fermò di nuovo, prese Alex per le braccia e la scostò da sé per guardarla negli occhi.
«È il tuo piano», le spiegò, indicando il corridoio con un cenno del capo.
«Non puoi davvero lasciarmi così. Cristo, mi hai appena detto che hai bevuto del veleno perché mi amavi e che secondo te l’unico modo per salvare il mondo è consumarti fino a diventare polvere!».
Merlino scrollò le spalle, rivolgendole un sorriso rammaricato. «Odiami pure, sarà più facile per entrambi».
Lo schiaffo arrivò forte e all’improvviso. E il bacio pure. Merlino chiuse gli occhi, la schiena contro la parete dorata dell’ascensore e le mani strette saldamente sui suoi fianchi.
Alex gli accarezzò la guancia su cui l’aveva colpito ed immediatamente il bruciore scomparve, donandogli in cambio una piacevole sensazione, come se vi avesse appena posato sopra un pugno di neve fresca. A quel tocco il mago recuperò un po’ di lucidità e si ritrasse bruscamente, voltando il capo dall’altro lato, evitando gli occhi dell’infermiera.
«Se potessi odiarti sarebbe davvero più facile», sibilò questa prima di aprire di nuovo le porte dell’ascensore ed uscire.
Merlino non riuscì a muoversi per diversi istanti. Quando lo fece, si portò istintivamente una mano sulle labbra, sentendole infuocate. Deglutì e socchiudendo gli occhi fece scorrere una mano di fronte a sé, mormorando poche parole. Come aveva temuto, le porte dell’ascensore eseguirono il suo comando e si chiusero per magia. Aspettò il contraccolpo, quasi lo sperò, ma non accadde nulla.
Sudando freddo, colpì il pulsante con il numero del piano in cui si trovava la sua suite e cercò di convincersi che doveva esserci un’altra spiegazione possibile.
Per quanto ci provasse però, quella notte si girò e rigirò nel letto, terrorizzato – tra le altre cose – dal pensiero che Alex fosse venuta a contatto con un’altra fonte magica, in grado di risvegliare ed alimentare i suoi poteri.


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Buongiorno a tutti! :)
Allora, in questo capitolo sono venuti al pettine alcuni nodi lasciati lì ingarbugliati l'ultima volta.
Primo Myra e Keith, che hanno preso strade diverse: la prima si è trasferita, il secondo cerca di rimediare ai suoi errori.
La situazione tra Artù e Cathleen - che sembra essersi risolta nel migliore dei modi *w* - e quella tra Merlino ed Alex - che più complicata di così non potrebbe essere. Quest'ultima in particolare sembra destinata a finire male già dal principio, dato che Merlino ha confessato la sua stanchezza nei confronti di quell'immortalità che non ha mai chiesto o desiderato. Ma Alex, la conosciamo, non si arrenderà e ha persino fatto un giuramento, una "dichiarazione di guerra" nei confronti dei custodi della magia. Come andrà a finire?
Per quanto riguarda la gita Londinese per il nostro trio delle meraviglie, staremo a vedere se Alex riuscirà effettivamente ad incontrare il Principe, anche grazie al "coraggio" fornitole da Excalibur.
E che ne pensate di questa ultima chiacchierata a cuore aperto tra Merlino e Alex? #shocking XD
Mi aspetto di leggere i vostri pareri, a questo punto! Un grazie a chi ha letto fino a qui e a chi ha commentato lo scorso capitolo! ;)
Ci vediamo tra un paio di settimane!

Vostra,
_Pulse_
   
 
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