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Autore: sofimblack    09/03/2017    1 recensioni
Dal II capitolo:
«Vuoi una caramella?»
Lui la guardò con attenzione ancora maggiore. Non si erano mai presentati, non si conoscevano, eppure lei non si era presentata né gli aveva chiesto il suo nome. No, lei gli aveva sorriso offrendogli una caramella. Una caramella. Anche lei studiava le persone, non si era sbagliato, ma aveva l’impressione che i loro studi si muovessero su due piani diversi.
[...]Quando però lei gliela porse, e lui allungò la mano per prenderla, accaddero due cose contemporaneamente.
Si sfiorarono appena, e una lieve scossa attraversò entrambi... probabilmente pure questo è un cliché, eppure tramite quel tocco leggero presero effettivamente la scossa, era decisamente così, non ci si poteva sbagliare.
La seconda cosa fece invece cadere Rae nello sgomento. L’atmosfera, da tranquilla e rilassata, si era fatta per lei tesissima. Una sensazione terribile, sconvolgente e in qualche modo triste la attraversò, velandole per un momento gli occhi di panico. 5 novembre, 5 novembre, 5 novembre.

Cosa sarebbe potuto accadere se Rae, una ragazza molto "intuitiva" e dal passato difficile, avesse incontrato Elle durante il caso Kira? Forse il finale sarebbe stato diverso...
Beh, spero di avervi sufficientemente incuriositi! Buona lettura ^^
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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V

Passi


 

Gennaio, II settimana
 

 

 

R

 

Alla televisione avevano passato la notizia di quelle insolite morti avvenute in diverse carceri del paese. Alcuni detenuti, prima di morire, avevano lasciato un messaggio, un simbolo. Altri avevano compiuto delle azioni strane. Era fin troppo orribile da pensare, ma probabilmente Kira poteva controllare le persone, o almeno il modo in cui quelle morivano. Come faceva? Entrava nella loro mente? Come diavolo riusciva ad ucciderle? Rae dedicava tutto il suo tempo ed i suoi pensieri a Kira. Andava in giro per le strade di Tokyo, lasciandosi guidare dall’istinto. Un paio di volte si era ritrovata davanti a delle scuole superiori… qualcosa le diceva che era la pista giusta, ma era praticamente impossibile indagare da sola in quel modo. Al momento era chiusa nella sua anonima camera di hotel, sdraiata sul letto ed illuminata soltanto dagli schermi della TV e del pc accesi, mentre rifletteva sui messaggi lasciati dai detenuti; peccato non sapesse il giapponese. Un sospiro di frustrazione le scivolò dalle labbra. Avrebbe dovuto comprarsi almeno un dizionario, era stata proprio una scema a non essersene ancora procurato uno. Rifletté ancora sulle strane morti dei carcerati. In realtà un’idea le era sorta in mente, ma ancora doveva verificarla: essendo in fin dei conti un’occidentale in piena regola le era venuto quasi spontaneo leggere i messaggi dei detenuti da sinistra verso destra, su un’unica riga, perciò aveva deciso di ricopiarli in quel senso su un foglietto- tracciando oltretutto dei kanji terribili - ma, ovviamente, non aveva la più pallida idea di cosa dicessero. Sempre se avevano un senso, anche se il suo intuito le diceva che era così. Colta da un’ispirazione improvvisa, afferrò il telefono dell’hotel e compose un numero; qualche minuto più tardi bussavano alla sua porta per il servizio in camera e lei andò ad aprire immediatamente, uno strano sorriso sul volto. Dietro al carrello con la sua cena c’era un ragazzo indubbiamente giapponese, che dopo averle rivolto un piccolo inchino entrò per appoggiare il vassoio in camera. Era abbastanza giovane, nonostante per lei fosse difficile definire l’età degli asiatici… forse era un po’ razzista da pensare eppure, a meno che non avessero evidenti segni di età come rughe e capelli bianchi, le sembravano tutti incredibilmente giovani. Provò a rivolgergli qualche parola e per fortuna il ragazzo - Naoki Katamura, come recitava la sua targhetta - capiva piuttosto bene l’inglese e si mostrò molto disponibile. Prima che potesse andarsene Rae si fece coraggio e, sperando con tutta se stessa che la propria idea funzionasse, chiese a Naoki se quel che aveva scritto sul foglietto avesse un senso. Lo vide grattarsi distrattamente il mento, mentre cercava con vago imbarazzo di tradurle ciò che aveva letto.

«Yeah, it does make sense… the meaning is… “L do you know that” …uhm, how can I translate it? This word… Shinigami, it means… gods of death…».*

Rae si immobilizzò, senza neppure ascoltare il resto. Le era bastato quel termine, la parola shinigami, per smuovere finalmente una delle sue percezioni. Ringraziò Naoki più e più volte, ma si concesse di pensarci davvero soltanto quando quello se ne fu andato. Adesso dentro di sé tuonava un qualcosa che si sarebbe potuto esplicare in “un volto, un nome”. Quella era la risposta alla sua domanda. Kira uccideva con un volto ed un nome. Ma che voleva dire? O meglio, in che modo una persona poteva ucciderne un'altra conoscendone il nome ed il volto? E oltretutto, in che modo poteva avere quel potere…? Sentiva di essere sulla strada giusta… l’esistenza degli Shinigami avrebbe spiegato molte cose ma era davvero difficile da credere. Shinigami, dèi della morte… nessuno al mondo avrebbe mai avuto uno straccio di possibilità, se era di questo che si trattava. Erano spacciati.

 

*Sì, ha senso… il significato è… “L lo sai che”… uhm, come posso tradurlo? Questa parola… Shinigami, vuol dire… dei della morte…”

 

 

 

Doveva riuscire a contattare Elle. Ci aveva pensato a lungo ed era infine giunta a quella soluzione. Aveva trascorso da sola il giorno di Natale e Capodanno, ormai diventate date insignificanti ai suoi occhi, smaniosa com’era di trovare Kira. A dire la verità la notte del 24 dicembre si era regalata una “serata libera”: si era diretta nel quartiere di Asakusa concedendosi una passeggiata tra le sue strade illuminate e terribilmente pittoresche fino al tempio di Sensō-ji, cenando in un piccolo ristorante dove lavorava un vecchietto simpatico che le aveva offerto del saké, nonostante non capisse una parola di inglese. Per qualche momento si era dimenticata di tutto, delle preoccupazioni, di Kira, della vita in generale, e si era sentita leggera… l’avrebbe quasi chiamata felicità. Riguardo al caso, Rae era sempre più convinta che la chiave per ottenere ciò che voleva fosse il lavoro di squadra con Elle e la polizia, l’unico modo per avere giustizia dato che probabilmente solo loro avevano i mezzi per catturare quel pazzo assassino… no, non “pazzo”. Quello che lo guidava era una sorta di follia lucida, un senso della giustizia distorto e megalomane, non la pazzia. Ad ogni modo, per ottenere quella collaborazione di cui tanto aveva bisogno, poteva offrire “in cambio” le sue percezioni; il punto non trascurabile era capire se le avrebbero creduto e quanto lei in primis fosse disposta a rivelare. Ovviamente e avrebbe fatte passare come informazioni, ma doveva pensare ad un motivo sensato per cui lei potesse avere tali informazioni. Beh, ci avrebbe pensato a tempp debito.
Quella sera alla tv era passata una notizia flash, ovvero che più di mille agenti dell’FBI erano giunti in Giappone per acciuffare Kira. Rae aveva preso l’abitudine di trascriversi tutto ciò che trasmettevano a proposito di Kira o di Elle -ormai sapeva riconoscere I kanji dei loro nomi - ed il ragazzo del servizio in camera era sempre disponibile nell’aiutarla a tradurre; addirittura alcune volte la informava lui per primo se c’era stato qualcosa che le era sfuggito. D’altronde quello era un caso dalla risonanza internazionale, non c’era da stupirsi che la gente fosse aggiornata sugli avvenimenti e volesse saperne di più. Quella notizia flash però era l’evidente segnale di quanto “i buoni” fossero disperati; era palesemente falsa, lo avrebbe capito anche senza le conferme del suo istinto. In effetti, considerata la pericolosità di Kira, era prevedibile che in pochi volessero lavorare al caso, perciò quello era uno specchietto per le allodole, per far credere a Kira di essere molto più numerosi e mettergli pressione… ma Rae sapeva che Kira era molto più furbo di così. Come lo aveva capito lei lo avrebbe sicuramente colto pure lui.  Però, se al distretto erano così disperati, magari avrebbero accettato di coinvolgerla senza fare troppe domande… Inoltre c’era una cosa che la turbava. Erano notti che faceva sempre lo stesso sogno, incredibilmente vivido: un quaderno nero. Perché cavolo doveva sognarsi la cosa più noiosa al mondo, ovvero un banale articolo di cancelleria, per di più con una copertina totalmente neutra…? Sapeva che doveva esserci un motivo, che i suoi sogni spesso nascondevano significati reconditi eccetera, eppure non poteva evitare di svegliarsi tutte le mattine piuttosto infastidita. Ok, doveva concentrarsi. Il problema adesso era soltanto uno: come riuscire a comunicare con la persona più sfuggente al mondo? Sapeva che la polizia ed Elle collaboravano, ma immaginava anche che in un clima come quello tutti volessero parlare con Elle, inventando cose, magari immaginandosi di aver visto Kira dietro l’angolo o altro. Era normale che fosse così. Dunque, come mettersi in contatto con lui? Decise di fare comunque un tentativo con la polizia, visto che al momento era l’unica cosa che le fosse venuta in mente. 

 

 

Per una settimana di fila andò ogni giorno alla centrale, per chiedere di essere messa in contatto con Elle. E ogni giorno, le dicevano che non era possibile. Aveva provato a dire di essere un'investigatrice venuta dall'Inghilterra, aveva cercato di giocare sul loro senso di pietà. Si era messa quasi a supplicare, fregandosene di sembrare patetica.
Infine, dopo tutti quei tentativi vani, mentre ancora si trovava alla centrale, ebbe un momento di sconforto. Nonostante si odiasse per quella “debolezza” -che era semplicemente un qualcosa di umano e naturale - stava iniziando a crollare pure lei. Che senso aveva continuare a provare? Arrivare a Elle era impossibile. Cos'era venuta a fare in Giappone? Era tutto inutile, avrebbe fatto meglio a tornarsene in Inghilterra...
Se ne stava nella Hall, seduta su una poltroncina scura con la testa tra le mani, il volto nascosto dai capelli e lo sguardo spento: il ritratto della disperazione.  

«Ogenki desu ka?*»

Rae alzò lo sguardo di scatto, vergognandosi del fatto che qualcuno l’avesse vista in quel modo, l’espressione confusa.

Era un ragazzo non troppo alto, il sorriso incoraggiante stampato sul volto, tutto sommato ordinario. Doveva essere un poliziotto, una giovane recluta ancora entusiasta del proprio mestiere, ed ancora una volta il suo istinto le salvò le chiappe. Rae, appena lo vide, capì infatti che lui era in contatto con Elle. Forse, se si giocava bene le sue carte, sarebbe riuscita a parlarci...

«Scusa, non parlo giapponese…»

Il ragazzo ripeté la domanda, stavolta in inglese.
«Sì …grazie» rispose lei, facendo tremolare la voce al punto giusto. Era probabilmente meschino da parte sua, ma avrebbe fatto leva sul binomio donzella indifesa - uomo facilmente manovrabile. Il fine giustificava i mezzi, senza ombra di dubbio.

«Mi chiamo Emily.»

Ovviamente non avrebbe mai dato il suo vero nome ad uno sconosciuto… il suo nome, assieme alla sua faccia, valevano la sua stessa vita; ormai questo le era chiaro.

«Taro Matsui, piacere» disse lui, stringendole la mano affabile. Seppe all’istante che anche lui le aveva dato un nome falso. Parlava un inglese dalla pessima pronuncia, ma Rae ormai si stava quasi abituando al modo in cui il popolo giapponese distruggeva la sua lingua natale.

«Come mai sei qui? Devi fare una denuncia?»

«No, non proprio.»

Matsui la guardò interrogativo, invitandola con un cenno a continuare.

«Immagino che la polizia adesso abbia di meglio da fare invece di ascoltare me, non so neppure se dovrei essere qui... sicuramente tutti si staranno impegnando per trovare Kira, però…».

Matsui la interruppe, accalorandosi.

«Ah figurati… “tutti”!» sbottò «Siamo talmente pochi che…» non concluse la frase, come se si fosse fatto scappare qualcosa di troppo. Per sua fortuna lei non era Kira: uno che si lasciava sfuggire così facilmente delle informazioni che dovevano essere top secret era una vera mina vagante. Quello però confermava le sue ipotesi. Sperò che gli altri agenti fossero meno superficiali.

«Davvero? Io credevo che fosse un caso dalla massima importanza… alla TV parlavano di millecinquecento agenti dell’FBI! Effettivamente però immagino ci voglia molto coraggio per affrontare Kira... dunque tu sei tra quelli che lo combattono?»
«Beh ecco, io...»
Non gli diede il tempo di rispondere ma anzi, cercò di sfoggiare un'espressione colma di ammirazione.
«Uau, se siete così pochi dovete essere sicuramente tutti persone scelte ed efficienti. Mi sento più tranquilla a pensare che ci sono persone come te che ci proteggono! Dev'essere davvero pauroso...»

Quasi lo vide implodere dall’orgoglio, mentre la guardava con tutta la fierezza di cui fosse in possesso.

«Oh no, è solamente il nostro dovere. Proteggere la gente a costo della nostra stessa vita.»

Quella falsa modestia le fece capire che ormai era fatta.

«È comunque una cosa ammirevole…»

Lo lasciò a crogiolarsi nei complimenti ancora un po’, poi decise di passare all’attacco.

«Senti, lo so che sono soltanto una ragazza senza distintivi o altro, per di più non sono nemmeno di qui ma… credo di poter dare una mano anche io nelle indagini.»

Matsui la guardò, sorpreso.

«In che modo? Hai delle informazioni?»

«Beh in realtà… preferirei parlarne direttamente con Elle.»

Il volto di Matsui si adombrò improvvisamente. 

«Mi dispiace, non puoi parlare con lui. Top secret.»

Ah, adesso se ne ricordava!?

«Lo capisco… ma pensavo che tu potessi trovare un modo per mettermi in contatto con lui. Se sei tra i pochi che lavorano al caso vuol dire che sicuramente sei anche tra i pochi che possono farlo. Immagino che lui non si farebbe mai vedere, ma mi basterebbe anche solo parlargli al telefono o qualcosa di simile… ti sarei infinitamente grata se tu fossi in grado di farmi questo immenso favore!»

Poteva quasi vedere dentro la testa di Matsui mentre si arrovellava sulla questione, in evidente difficoltà. Si vedeva che voleva aiutarla, lei aveva fatto leva su tutti i punti giusti, ma si rendeva anche conto che non sarebbe stato professionale. Le scappò quasi da ridere.

«Ve - vedrò cosa riesco a fare.»

Rae rovistò nella sua borsa di tela fino a trovare una penna; sul retro di uno scontrino che aveva in tasca scrisse il suo numero.

«Tieni, se ci sono novità fammi sapere e... grazie.»

Ce l’aveva fatta. Un altro passettino verso Elle e, di conseguenza, verso Kira.

 

*Stai bene?

 

  
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