- Signorina Hudson, sono felice di rivederla. Dov’è stata per tutto questo tempo?
- In vacanza, signore. Sono andata a trovare i miei genitori in Italia.
La forza dell’abitudine mi aveva spinta giù dal letto alle 7 del mattino, così dopo un’abbondante colazione a base di caffè nero e pane tostato con formaggio e marmellata di ciliegie, avevo tirato fuori dall’armadio l’unica camicia pulita rimastami, infilato i jeans del giorno prima e recuperato da sotto al letto i miei adorati stivaletti color camoscio per lasciare l’alloggio studentesco e raggiungere direttamente l’ufficio del Rettore William Dwight, dirigente della prestigiosa università della California, conosciuta anche come UCLA. Era lì che studiavo.
- Devo ammettere signorina Hudson che la sua è stata una scelta molto coraggiosa. Prendersi una lunga vacanza proprio nel bel mezzo del secondo semestre, quando le mancano ancora 9 esami da superare e 12 crediti da compensare entro Settembre… Si rende conto che solo per cercare di rimettersi in pari coi suoi colleghi di corso dovrà lavorare per tutta l’estate?
- Si Rettore Dwight, me ne rendo perfettamente conto.
- Bene, mi fa piacere.
Alla UCLA quasi tutti lo consideravano una sorta di figura mitologica, un uomo molto impegnato che non perdeva il suo tempo a passeggiare per i corridoi o a chiacchierare con i colleghi del più o del meno. Alcuni iscritti del primo anno giuravano di non averlo mai incontrato, di non sapere nemmeno come fosse fatto. Io, iscritta al primo anno di college, lo avevo incontrato sistematicamente una volta a settimana durante il periodo precedente alla mia incarcerazione. Ero stata una delle studentesse più privilegiate per via del mio impareggiabile quoziente intellettivo, una delle più impegnate in iniziative e attività promosse dall’istituto e mio malgrado, anche una delle più irrequiete a detta dei miei insegnanti.
- Crede di riuscire a superare l’anno entro Settembre signorina Hudson, o ha intenzione di concedersi un’altra lunga vacanza per riprendersi dalle fatiche della prima?
- Niente più vacanze, stia tranquillo. Mi rimetterò in pari, può starne certo. Ho già prelevato le chiavi del mio appartamento in segreteria per riorganizzare il mio ritorno.
L’incontro con il Rettore era andato piuttosto bene, ma adesso che ero fuori da Fox River e non ero più una giornalista munita di tesserino e abilitazione, dovevo trovarmi qualcosa da fare per occupare le mie giornate. Innanzitutto avrei dovuto rimettermi in pari con gli altri studenti prima di rischiare di perdere l’anno e la borsa di studio, e questo significava anche doversi cercare un lavoro. Se non altro mi sarei tenuta occupata e avrei smesso di pensare continuamente alle disavventure del passato e cosa più importante, di pensare a Michael.
Potevo concedermi qualche giorno di riposo, forse una settimana o giù di lì, ma poi avrei dovuto decidermi a mettere la testa a posto e fare sul serio.
Si, grosso modo lo giudicavo un buon piano.
Mentre salivo le scale per raggiungere al secondo piano il mio piccolo appartamento, cominciai ad elencare mentalmente tutta una serie di cose, perlopiù attività, che avrei potuto svolgere per far passare il pomeriggio.
Era strano, a Fox River le giornate erano suddivise per turni di lavoro e ore d’aria. Ad ogni momento del giorno i detenuti sapevano dove dovevano trovarsi e cosa dovevano fare, eppure adesso che non c’erano più orari prestabiliti e guardie che mi obbligassero ad alzarmi dal letto anche se avevo ancora sonno, mi sentivo spaesata, come se avessi perso l’abitudine di vivere senza qualcuno che mi dicesse come fare.
Stavo appunto riflettendo sulla maniera più svelta per perdere quelle rigide e fastidiose abitudini, quando all’improvviso il mio occhio cadde sulla porta socchiusa del mio appartamento e tutti i miei 5 sensi scattarono in modalità pericolo.
Ero l’ultima persona al mondo che avrebbe potuto dimenticare di chiudere a chiave il proprio appartamento, quindi se quella porta era aperta poteva significare solo che qualcuno fosse entrato dopo che io ero uscita.
Con il cuore già pronto ad uscirmi fuori dal petto, spinsi delicatamente la porta in avanti, assicurandomi che all’ingresso non ci fossero estranei pronti ad aggredirmi. Poi, d’impulso, cercai a tentoni l’ombrello che sapevo appoggiato in un angolo dietro la porta. In caso d’emergenza sarebbe stato utile avere un’arma a portata di mano.
Proseguii guardinga, passando in cucina e stringendo l’ombrello – arma davanti a me con entrambe le mani.
Probabilmente avrei fatto meglio a chiamare la polizia, ma ero quasi certa che chiunque fosse entrato avesse già lasciato l’appartamento da tempo. Lì non c’era niente che si potesse rubare, a parte qualche confezione di carne surgelata e di focaccia Panpizza. Il bene più prezioso lì dentro era la caffettiera, modello italiano e poi, perché dei ladri avrebbero dovuto scassinare un alloggio studentesco?
Presi il coraggio a due mani e con un colpo secco, aprii la porta della mia camera da letto brandendo l’ombrello come fosse una spada. Lo sconosciuto se ne stava accanto al mio letto con un berretto in testa ed entrambe le mani aperte davanti a sé.
- Calma… - disse indietreggiando.
Quando stavo per schiantare la mia arma contro il misterioso sconosciuto però, inaspettatamente venni aggredita alle spalle. Due enormi braccia mi bloccarono testa, braccia e arma in un colpo solo, così che non fossi più in grado di muovermi o gridare. Prima che potessi ribellarmi, la voce a due centimetri dal mio orecchio paralizzò ogni mio proposito di contrattacco.
- Che cosa credi di fare con quell’ombrello? Allora non ti ho insegnato proprio niente a Fox River.
- Lincoln??!!
Non portava più la casacca da detenuto, e con quei jeans e quella camicia bianca sporca di sangue aveva tutto l’aspetto di un fuggitivo con un gran bisogno di una doccia e magari di un po’ di riposo. Il mio amico galeotto mi stava di fronte e a quanto potevo constatare, non si era preso il disturbo di venirmi a trovare da solo.
- Ciao Sawyer. E’ bello rivederti.
All’improvviso mi resi conto che non avrebbe dovuto trovarsi lì, non nel mio appartamento, diamine!
- Ma che diavolo ci fai qui, Lincoln? Non puoi restare, mezzo paese ti sta cercando. Se ti trovano qui in casa mia sarò nei guai fino al collo.
- Lo so piccola, mi dispiace ma ho bisogno del tuo aiuto.
- Noo Linc, no, non puoi chiedermelo. Sono fuori da meno di 48 ore e tu ti presenti in casa mia forzandomi la porta? E chi cavolo ti sei portato dietro? - continuai, squadrando dalla testa ai piedi l’uomo col berretto e il ragazzino che si era materializzato al suo fianco.
Aggrottai la fronte, fissando i tre uomini ancora fermi al centro della mia camera da letto.
“Bel lavoro Gwen, e adesso?"
Non c’era bisogno che fosse Lincoln a dirmi quanto fossero nei guai, lo vedevo da me, ma io non ero la persona giusta per poterli aiutare. Ero un ex galeotta anch’io.
- Perché avete forzato la porta del mio appartamento?
- Avevamo bisogno di nasconderci. Io, mio padre e mio figlio siamo in pericolo e non mi riferisco ai poliziotti che vogliono sbattermi di nuovo a Fox River… - Lincoln mi parlò con il cuore in mano. - Te lo giuro Gwen, non avrei mai e poi mai voluto coinvolgerti di nuovo, ma non sapevo dove andare. Le mie foto sono piazzate in tutti gli alberghi, motel e ostelli dello stato.
- Uff, lo sai che quando ho trovato la porta aperta ho quasi pensato di chiamare la polizia? Non ti ha insegnato nessuno ad essere un po’ più discreto?
- A-ah, molto saggio, sta di fatto che qui non potete stare. Mahone sospetta di me, crede che sia coinvolta nell’evasione e non è escluso che mi abbia fatta mettere sotto controllo, pensando che qualche stupido evaso potesse contattarmi, quindi non è sicuro per voi restare qui e… a proposito, come mi avete trovata?
- E’ stato uno scherzo! - esclamò il ragazzino, sorridendo soddisfatto. - Mio padre mi ha raccontato che prima di essere arrestata, studiavi in quella scuola per geni, la UCLA, quindi in segreteria dovevano per forza conservare un tuo recapito. E’ bastato farsi passare per uno studente, raggiungere l’ufficio segreteria, distrarre una delle segretarie e leggere sul computer l’indirizzo di una delle sue studentesse. Niente di più facile.
- E tanti saluti alla privacy!
- Gwen, ti prometto che domattina saremmo fuori da qui. Non voglio crearti problemi.
- D’accordo, - sospirai conciliante. - potete restare qui fino a domattina, ma solo perché con te ho un debito Linc, e poi… - Feci una smorfia e quasi mi sentii una stupida per quello che stavo per dire. - … sono davvero felice di rivederti sano e salvo.
- Grazie… grazie di tutto Sawyer.
Visto che avevo riempito il frigo solo di schifezze precotte che si adeguavano perfettamente al mio stile di vita, decisi di fare una spesa più consistente al supermercato sotto casa per preparare una vera cena, mentre Lincoln e la sua “allegra famigliola” si scrollavano di dosso le fatiche degli ultimi giorni. Pensai inoltre di procurare a tutti e tre dei vestiti puliti che servissero a farli passare meglio inosservati, rispetto alle camicie sudate e sporche di sangue che si erano portati dietro.
Per fortuna Keith mi aveva prestato la sua carta per le emergenze.
Più tardi, a cena, misi sul tavolo un paio di ricette italiane, le uniche che mia madre avesse avuto il coraggio di insegnarmi, e dell’insalata. Non avevo idea di come le avrebbero trovate i miei ospiti, ma sospettavo che dopo una settimana di mordi e fuggi nessuno dei 3 avesse tanta voglia di fare lo schizzinoso. Per fortuna nessuno si lamentò.
Fu una cena piuttosto strana. Abituata com’ero a cenare nella mensa di un penitenziario in compagnia di detenuti e guardie vigili ai quattro lati della stanza, mi sembrava pazzesco di essere tornata al mio appartamento di Los Angeles per cenare insieme ad un condannato a morte in fuga e alla sua famiglia di delinquenti. L’ambiente era cambiato, ma la compagnia era rimasta la stessa.
- Pensate che qualcuno sospetti che siate in California? - chiesi ad un certo punto della cena.
- No, non credo. - rispose Aldo Burrows. - Dovevamo dirigerci verso il New Mexico, ma gli uomini della Compagnia sono riusciti a scovarci nel mio rifugio in Arizona e siamo stati costretti a proseguire per la direzione opposta.
- Ah… scusi, ma di quale compagnia sta parlando?
- Gwyneth conosce una parte della storia. Purtroppo non ho avuto modo di raccontarle il resto. - si giustificò il mio amico.
- E non dovresti farlo. Non possiamo coinvolgere nessun altro. E’ troppo pericoloso.
- Che storia è questa? Linc, vuota il sacco!
- Gwen, mio padre ha ragione. Se ti racconto quello che so, rischi di venire catapultata anche tu in quest’incubo e non è quello che vorresti. Lo scopo della Compagnia è quello di eliminare chiunque sappia qualcosa. Loro non sanno niente di te perché a Fox River sei stata registrata sotto falso nome, ma se scoprissero che conosci la verità non esiterebbero a farti fuori.
- Ma di che stai parlando? All’improvviso abbiamo dei segreti?
- Questa volta non si tratta di aggiudicarsi altri 5 anni sull’attuale condanna, rischi di mettere a repentaglio la vita. Quella gente non scherza, credimi.
- Beh, allora sono fott… - Meglio usare termini meno espliciti, ero pur sempre l’unica donna a quella tavola. - … fregata. Suvvia non sono cieca, vedo cosa sta succedendo là fuori: la Reynolds, data per sfavorita alle elezioni, che diventa Presidente, Tancredi sul podio per la nomina a vicepresidente che all’improvviso viene declassato, e il suo assurdo suicidio poi… insomma ditemi che cosa sta succedendo. Ho avuto abbastanza a che fare con questa storia per sapere che non si tratta di coincidenze.
- E quale sarebbe questo scopo criminale?
- Non lo sappiamo, ma non deve trattarsi di niente di buono se per raggiungere il loro obiettivo hanno dovuto incastrarmi per l’omicidio di Steadman.
- Sappiamo che ricoprono le più alte cariche del governo e decidono tutto ciò che succede in questo paese: quali leggi approvare, quali guerre combattere… tutto. - proseguì Aldo Burrows.
- Ditemi la verità, Caroline Reynolds è un affiliato di questa Compagnia, non è così?
- La Reynolds è solo una piccola pedina nelle mani della Compagnia. E’ grazie a loro che è diventata Presidente, loro la volevano lì e tutta la storia della morte di Steadman era solo un complotto per spingere me ad uscire allo scoperto.
- Lei? - chiesi confusa. - Credevo che il vero obiettivo fosse Lincoln.
- No, è me che vogliono. - riprese Burrows – padre, mandando in frantumi le mie certezze. - Vedi, in passato io ho lavorato per la Compagnia. Dovetti abbandonare la mia famiglia perché il lavoro che facevo non ammetteva nessun contatto e così me ne andai, lasciando Michael e Lincoln ancora piccoli.
- E poi cos’è successo? - chiesi completamente rapita.
- Decisi di lasciare la Compagnia. Non approvavo i loro metodi così lasciai l’organizzazione, portando con me tutta la documentazione e le prove compromettenti che li riguardava. Mi unii ad altri che come me avevano lavorato per la Compagnia e avevano deciso di ribellarsi e insieme decidemmo di sabotarla, finché loro non colpirono mio figlio. Evidentemente la Compagnia ha creduto che l’unico modo per potermi stanare fosse prendersela con la mia famiglia. Sapevo che per portare a termine la mia missione avrei dovuto accettare che mio figlio venisse sacrificato, ma io… non ce l’ho fatta.
Lincoln comunque era quello che aveva subìto maggiormente il turbolento passato del padre: accusato di omicidio, condannato a morte, incarcerato e poi braccato come un criminale della peggior specie, e tutto per scontare i peccati di un padre che lo aveva abbandonato da piccolo. Eppure, nell’espressione e nella voce di Aldo si avvertiva chiaramente una nota di disperazione. C’era paura, sconforto e pentimento… soprattutto pentimento.
- Immagino si sia fatto avanti per aiutare i suoi figli ad uscire da questo pasticcio. - ipotizzai ad alta voce.
- Si, il piano è questo.
- E’ stato mio padre a far arrivare nell’ufficio del giudice Kessler i fascicoli sulla morte di Steadman. - mi informò Lincoln in un tenue tentativo di spezzare una lancia a favore del padre. - Grazie a lui la mia esecuzione è stata rimandata e Michael ha ottenuto altre due settimane per mettere a punto il piano e farci evadere.
- E il New Mexico? Perché siete diretti lì? - ripresi.
- Dobbiamo incontrarci con Michael. - rispose il mio amico. Il solo sentir pronunciare il suo nome mi fece provare una tremenda nostalgia. - Mio fratello ha organizzato tutto per il nostro viaggio a Panama. In New Mexico c’è un aereo che ci attende. Michael ci aspetta per domani in un posto chiamato Bolshoi Booze… però è possibile che il piano cambi.
- In che senso?
- Sembra che esistano delle prove che incastrino la Reynolds e dimostrino la mia innocenza. Io e Michael potremmo tornare ad essere liberi e smettere di scappare.
- Sembra che esista una prova telefonica.
- Uno degli agenti del nostro gruppo, un infiltrato della Compagnia, è riuscito ad intercettare e registrare una telefonata tra la Reynolds e Steadman che sembra sia avvenuta due settimane dopo la morte presunta dell’uomo. - mi spiegò lentamente Aldo.
- Significa che Steadman è ancora vivo? - domandai quasi soffocando per lo shock.
- E questa registrazione di cui parlate è in mano vostra? - continuai.
- Purtroppo no. Prima che potesse consegnarla a noi, il nostro agente è stato preso. Qualcuno lo stava spiando mentre lui, a sua volta, spiava la Compagnia.
- Chi lo spiava?
- Il governatore Tancredi. - rispose Lincoln. Quel continuo voltare la testa a destra e a sinistra tra Lincoln e suo padre mi aveva provocato il torcicollo. - E’ lui che possiede la registrazione. Sappiamo che Tancredi è stato corrotto perché mantenesse il più stretto accanimento contro la mia causa. E’ per questo che ha declinato qualunque possibilità di concedermi la grazia.
Dio, stavano per esplodermi le cervella… e non avevo ancora ascoltato il resto.
- Qualche settimana fa, Tancredi ha fatto mettere sotto sorveglianza il nostro agente. - Burrows – padre aveva ripreso la parola, rieccomi voltata a destra. - Quando la Compagnia ha scoperto dell’esistenza di quella registrazione, ha disposto che l’analista venisse arrestato, ma prima di essere portato via l’uomo è riuscito a consegnare il nastro a Tancredi. La Compagnia deve averlo scoperto, per questo Tancredi è morto.
- Ma insomma, adesso che Tancredi è morto, chi ha la registrazione?
Per poco non mi stirai un muscolo per voltare la testa verso il mio amico e guardarlo. - Stiamo parlando della stessa Sara Tancredi? La dottoressa di Fox River?
- La figlia del governatore Tancredi. Si, proprio lei. - rispose, lanciandomi un’occhiata interrogativa che feci finta di ignorare.
- Gesù… se la Compagnia sta dando la caccia a Sara allora lei adesso potrebbe essere in pericolo.
- Per questo dobbiamo trovarla. Lei è la chiave di tutto, ecco perché dobbiamo raggiungere al più presto Michael. Non credo che vorrà lasciare gli Stati Uniti quando gli avrò spiegato ogni cosa.
- Noo, non se ne parla! - strillai, strisciando rumorosamente la sedia lontano dal tavolo per alzarmi.