Salve
a tutti!
Eccomi
qui, a più di un mese di distanza ma comunque prima di
quanto vi ho
fatto aspettare l'ultima volta. Che dire, sono sempre abbastanza
occupata con l'università e l'ispirazione va e viene, cerco
di
approfittarne appena posso!
Questo
nuovo capitolo è discretamente lungo e ci sono anche alcune
spiegazioni che – spero – possano aiutarvi a capire
meglio com'è
strutturata la “gerarchia” della storia. Di altro
non c'è molta
azione, ma spero che vi possa piacere comunque.
Detto
questo, vi lascio al capitolo, augurandovi una buona lettura e
chiedendovi gentilmente se potreste lasciare dei commenti alla
storia, positivi o negativi che siano, per capire quali sono i punti
da migliorare!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty Blood
Capitolo nove
Ophelia
era sveglia da più di un'ora, eppure non accennava ad
alzarsi. Non
aveva la voglia, a dire il vero.
Si
sentiva il corpo completamente indolenzito dal giorno prima e, anche
se la ferita al braccio era migliorata tantissimo grazie al prezioso
aiuto di Claire, il ricordo del dolore provato il giorno prima, e il
terrore che lo accompagnava, le faceva desiderare di stare in quella
coltre di coperte per sempre.
Sarebbe
stato tutto più semplice: non avrebbe dovuto preoccuparsi di
nulla,
si sarebbe nascosta al mondo intero, i problemi sarebbero scomparsi.
No,
non era vero. I problemi si sarebbero ingigantiti se non fosse stata
loro prestata la giusta attenzione.
Sospirò
a quel pensiero.
Il
giorno prima, alla fine, non aveva più visto Sargas, Max,
Beal o
Dominik. Erano andati in quella casa sperando di trovare qualcosa di
utile e aveva passato la sera prima a chiedersi se avessero ottenuto
quello che volevano. Il fatto che non si fossero presentati da lei la
lasciava spiazzata: non le avevano detto nulla perché non
c'era
nulla da dire? O perché quello che avevano scoperto era
troppo
importante? O forse non sentivano il bisogno di comunicarle
informazioni riguardanti lei.
Sbuffò.
Da
un certo punto di vista odiava gli uomini come Sargas: i capi, i
leader, che sembrano non aver bisogno di chiedere niente a nessuno,
che davano ordini che ovviamente sarebbero stati eseguiti. E, anche
se aveva mostrato alcuni lampi di gentilezza, anche con lei sembrava
avesse intenzione di comportarsi da “padrone”. Di
certo non
sarebbe stato lei a cambiare il suo modo di fare, quello era ovvio, e
non era nemmeno intenzionata a farlo; solo che non voleva essere
trattata come una bambina, sballottata da una parte all'altra secondo
un'idea, una strategia ben piantata nella testa di quel ragazzo
–
sempre che avesse una strategia, quello era ovvio.
Anche
se, rifletté, non aveva potuto granché ribellarsi
in quegli ultimi
giorni: i dolori erano troppo atroci per consentirle di fare
alcunché, e da un lato ringraziava che la stessero aiutando
in
quella maniera, anche se non sapeva il motivo.
Insomma,
aveva un totale casino in testa.
Si
sollevò dal letto di scatto, rimanendo seduta.
A
quanto pare, c'erano delle camere da letto in quella sorta di
quartier generale in cui tutti si incontravano – credeva che
anche
Claire, Dominik e Max avessero dormito lì, ma non ne aveva
la
certezza.
La
sera prima Claire l'aveva portata in quella stanza in gran segreto,
tutto il tempo guardinga e con gli occhi bianchi, spaventata
dall'idea che qualcuno le notasse – o meglio, che notasse
Ophelia
stessa.
Non
capiva perché la stessero tenendo nascosta in quel modo, ma
non
protestava: evidentemente, c'era un preciso motivo. Era ovvio
però
che non si sarebbe accontentata di quella giustificazione ancora per
molto: avrebbe chiesto ben presto i motivi di tutti quei sotterfugi,
insieme ovviamente a delle spiegazioni riguardo tutto il resto.
Sperava che, finalmente, le potessero dare qualche informazione in
più.
Tutto
sommato, quella mattina stava meglio. Era da un bel po' di tempo che
non dormiva così bene – temeva che il suo sonno
sarebbe stato
popolato da incubi di ogni sorta, invece era stato tranquillo e senza
sogni.
Credeva
che Claire le avesse messo qualcosa nel tè prima di andare a
dormire
– ma non aveva intenzione di protestare, le era stato
più che
d'aiuto.
Dopo
questi vari pensieri si decise ad alzarsi.
Scese
dal letto con lentezza – era pur sempre indolenzita
– tentando di
tirarsi giù e coprirsi meglio con quella felpa enorme che
Claire le
aveva portato, grigia e calda; molto probabilmente era di uno dei
fratelli, ma non le importava. I suoi vestiti – anzi, sarebbe
stato
più corretto dire i vestiti di Claire
– erano ormai da buttare in seguito alle varie ferite del
giorno
precedente.
Aveva
i piedi scalzi, e questi, a contatto con il pavimento gelido, le
diedero un brivido che le corse per tutta la schiena, scuotendola per
un attimo.
La
stanza era quasi del tutto buia, appena uno spiraglio faceva filtrare
un poco di luce; in quel raggio vedeva dei minuscoli e solitari
granelli di polvere danzare nell'aria, immersi nel silenzio.
Le
faceva quasi strano la presenza di una finestra, considerando che in
tutte le stanze precedenti in cui era stata di quel posto ne
sembravano prive – come se fossero sottoterra, cosa che aveva
già
ipotizzato da un po'. Evidentemente, però, avevano anche
delle
stanze allo “scoperto”.
Si
avvicinò proprio alla finestra, scostando di poco la tenda;
ciò
fece entrare più luce nella stanza, rischiarandola: era una
semplicissima camera da letto composta da quest'ultimo, un comodino,
una scrivania con una sedia e una grande cassettiera di legno. Le
suonava strano una camera del genere – così banale
e semplice –
in quel posto che ricordava più un covo – e lei
non si immaginava
camere da letto in un covo.
Fuori
dalla finestra, New York era viva come sempre: non sapeva che ore
fossero, ma probabilmente delle ore di punta considerando il traffico
per strada. Si trovava discretamente in alto, ma non abbastanza da
non avere la vista impedita dagli edifici che la circondavano.
Lasciò
per un attimo vagare lo sguardo per strada, dove i passanti, simili a
formiche, si davano un gran da fare per andare da una parte
all'altra; poi si scostò dalla finestra, gli occhi abituati
al buio
che le stavano lacrimando.
Non
sapeva che fare: aveva paura di uscire, non per chissà quale
motivo,
solo che Claire l'aveva portata lì dentro così
nascosta che ora lei
stessa, senza sapere perché, aveva paura di essere vista.
Poi,
di certo, non le sembrava molto adatto mettersi a vagare per un
edificio sconosciuto con solo una maxi felpa che le arrivava
più o
meno al ginocchio, senza scarpe, pantaloni, o calze.
Si
guardò intorno, mordendosi un labbro.
Cosa
faceva? Aspettava lì che qualcuno arrivasse?
Si
sedette sul letto, decisa ad attendere l'arrivo di qualcuno. Cinque
secondi e si alzò.
No,
non sarebbe stata lì ad aspettare. Aveva atteso fin troppo
in quegli
ultimi giorni, rimanendo con le mani in mano tutto il tempo e
lasciando che gli altri facessero le cose per lei – e
sì, stava
male, quello era vero, ma ne aveva abbastanza.
Sarò
cauta,
pensò. Poi si guardò i
piedi: no, non le erano spuntate improvvisamente delle calze o delle
scarpe, era sempre con i piedi nudi.
Ecco,
quello la frenava un po'. Decise però che non le importava e
si
avvicinò alla porta, socchiudendola pian piano.
Per
un attimo, il fatto che fosse aperta la stupì. Credeva,
anche se non
sapeva nemmeno lei il perché, che avrebbe trovato la porta
chiusa a
chiave; il fatto che così non fosse lo interpretò
come un invito –
o, perlomeno, un non-divieto
– ad uscire.
Il
corridoio aveva un lucido pavimento bianco e delle sporadiche
finestre che facevano entrare fin troppa luce; la sera prima non
aveva dato un'attenta occhiata al posto, presa com'era dal far piano
e camminare il più velocemente possibile –
più che altro, veniva
continuamente trascinata da Claire senza la minima pietà per
i
dolori che la trafiggevano.
Si
chiuse delicatamente la porta dietro, attenta a non fare rumore, e si
inoltrò nel corridoio in cui vigeva uno strano silenzio che
aveva
paura di rompere.
Era
prevalentemente spoglio se non per alcuni quadri appesi qua e
là,
rappresentanti principalmente nature morte e paesaggi; c'erano poi
diverse porte uguali proprio a quella da cui era uscita lei, che le
fecero presumere altre stanze simili a quella. Ipotizzò che
quel
piano fosse, come dire, riservato a dei pernottamenti saltuari di
coloro che lavoravano in quell'edificio – lavoravano, o
qualsiasi
altra cosa facessero.
Arrivò
alla fine del corridoio e si fermò di fronte all'ascensore.
No, non
era il caso di prenderlo: sarebbe stato più semplice
beccarla e non
avrebbe potuto nascondersi da nessuna parte; decise di fare le scale
proprio come aveva fatto il giorno prima con Claire.
Quanti
piani ho fatto ieri?,
pensò.
Non
ricordava, ma di sicuro parecchi. Era arrivata a quel piano senza il
minimo fiato.
Beh,
o scendo o ritorno in camera, e dato che non voglio ritornare in
camera...
Iniziò
a scendere le scale, dapprima lentamente, timorosa e cercando di fare
più silenzio possibile, poi prese sicurezza e prese
velocità;
scendere, d'altronde, era molto meno faticoso e i suoi piedi scalzi
non facevano chissà quanto rumore – che poi, il
giorno prima aveva
delle scarpe, chissà dove le aveva portate Claire. Di sicuro
aveva
buttato pure quelle.
Scese
gli innumerevoli scalini per vari minuti, fermandosi saltuariamente
ad alcuni pianerottoli da cui si inoltravano vari corridoi. A un
certo punto non vide più finestre e ipotizzò di
aver già superato
il livello col terreno; lo prese come un buon segno, considerando che
ricordava l'ufficio di Sargas proprio in quello spazio sottoterra
–
sempre se fosse effettivamente
sottoterra.
Da
quel punto in poi però non sapeva più quando
fermarsi; scese per
cui un altro paio di rampe di scale e si fermò.
Ora
come ora un piano vale l'altro,
pensò vaga. Non si ricordava quale fosse quello giusto,
ovvio che
tutti i piani fossero uguali.
Il
fatto che non avesse incontrato nessuno le aveva messo paura: era
stata fin troppo fortunata, in quel momento qualcosa le diceva che
non poteva sperarci ancora.
Faccio
sempre in tempo a correre fino alle scale,
considerò. Ma il suo pensiero aveva, in una certa misura,
una
sfumatura disperata.
Ma,
in fondo, era arrivata fin lì. Tornare indietro non le
sarebbe
servito a niente, tanto valeva andare avanti. Con queste convinzioni
in testa – motivi con cui giustificava una scelta prettamente
emozionale – avanzò nel corridoio.
C'era
un grande silenzio, come in tutto il resto dell'edificio –
era
quasi inquietante, le veniva da chiedersi se ci fosse davvero
qualcuno o fosse disabitato – e questo la consolò:
significava
che, molto probabilmente, non c'era nessuno. Allo stesso tempo
però
la preoccupava l'idea che fosse deserto. Alla fine era uscita per
cercare Claire o chi per lei.
Ho
fatto una stronzata,
considerò.
In
quel momento si rese conto che sì, non era stata una bella
idea:
mettersi a vagare in un edificio che non conosceva alla ricerca di
persone che non aveva la minima idea di dove fossero – e
anche se
fossero lì, in quel momento – rischiando di
incontrare persone
che, da quel che aveva capito, non avrebbero dovuto vederla.
Complimenti
Ophelia alla tua enorme capacità di individuare sempre
l'idea più
stupida,
pensò ironica.
Ed
eccola, la ciliegina sulla torta.
Una
porta che si apriva lentamente e, dopo tanto tempo di silenzio
assoluto, le prime voci.
Le
si gelò il sangue nelle vene.
Merda.
Ecco,
doveva fare qualcosa.
In
quei pochi secondi di completa immobilità sentì
una voce maschile e
una femminile parlare – ovviamente non le riconobbe.
«...nascondendo
fin troppo. Ovviamente i master sono bravi a nascondere le cose, ma
neanche i loro sottoposti vogliono scucire qualche informazione»
La
voce maschile.
«Siamo
l'ultima ruota del carro, che ti aspetti? E poi ne abbiamo
già
parlato: se non vogliono dirci nulla avranno i loro motivi –
e poi
credo che si aspettino che, in qualche modo, ne siamo già
venuti a
conoscenza. Delle morti non passano così
inosservate»
La
voce femminile.
«Sei
troppo credulona, Laurel. Dovresti darti una svegliata»
«Pensa
per te, idiota»
Ecco,
un altro passo e l'avrebbero vista.
Si
girò veloce, pronta a correre verso le scale, e avrebbe
lanciato un
urlo apocalittico se una mano non le si fosse poggiata rapida sulla
bocca, impedendole di proferire parola.
Sargas,
di fronte a lei, la fulminò con lo sguardo; ma fu solo un
attimo,
considerando che la trascinò con violenza verso l'ascensore
a pochi
passi da lì. Quello si aprì istantaneamente tanto
da far chiedere a
Ophelia quando il ragazzo lo avesse chiamato, ma venne brutalmente
spinta dentro e messa in un angolo.
«Signore»
Sargas,
che stava per entrare con lei in ascensore, si fermò. Le
lanciò
un'occhiata gelida, mimando con la bocca una parola.
Zitta.
Si
voltò verso le stesse voci che stavano parlando poco prima,
che in
quel “signore” avevano inserito rispetto, timore e
imbarazzo.
«Laurel,
Blaze» disse il ragazzo.
Schiacciata
sulla parete, Ophelia non poteva vedere i volti degli altri due, ma
vedeva chiaramente la figura imponente di Sargas che era posizionato
in modo tale da coprire quasi tutta l'entrata e, ovviamente, lei.
«Come
sta?»
La
voce maschile – Blaze, evidentemente – rivolse la
domanda a
Sargas in un tono referente che fece quasi ridere Ophelia. Trovava
strano il porsi in quella maniera rispettosa verso il ragazzo,
considerando anche il tono familiare con cui Claire e gli altri gli
rivolgevano.
«A
meraviglia» fece gelido il moro.
Ci
fu un silenzio che Ophelia percepì come imbarazzato
– perlomeno da
parte dei due, le sembrava strana anche solo l'idea che Sargas si
potesse trovare in qualche modo imbarazzato; non le sembrava proprio
il tipo che si lasciasse mettere a disagio da qualcuno, anzi, era
più
il tipo che si divertiva a farlo con gli altri.
«Noi,
ecco...» la donna iniziò a parlare con tono
incerto, come che non
sapesse cosa dire.
Probabilmente
aveva paura che Sargas avesse sentito il discorso di poco prima, o
almeno così ipotizzò Ophelia; da quel che aveva
capito stavano
protestando sui loro master
– i loro capi, come Sargas? – ed essere colti in
flagrante in
quel modo non era esattamente l'ideale.
Fu
però proprio Sargas a togliere i due dall'impiccio,
ignorando
totalmente il discorso che stavano facendo – forse non li
aveva
sentiti, ma Ophelia dubitava fosse così: se si trovava
dietro di
lei, evidentemente l'aveva notata da abbastanza tempo per ascoltare
le stesse parole che aveva sentito lei.
Comunque
fosse, il fatto di eliminare la loro attenzione dall'ascensore
– o,
meglio, da chi
si trovava dentro l'ascensore – era più preminente
rispetto al
resto.
«Voi
dovreste fare le scale» disse lapidario Sargas, terminando in
qualche modo la frase iniziata da quella Laurel.
Un
attimo di silenzio in cui Ophelia percepì quasi un lieve
stupore.
«Emh,
sì, certo» intervenne a quel punto l'uomo.
Ophelia
non li vide, ma sentì i loro passi allontanarsi verso le
scale e
inoltrarsi in esse.
Sospirò.
Scampata
per poco,
pensò sollevata.
Quando
vide Sargas voltarsi verso di lei, gli occhi che mandavano scintille,
rabbrividì.
O
forse no.
Il
ragazzo si girò e premette un pulsante dell'ascensore a cui
però
Ophelia non fece caso, troppo impegnata com'era a evitare lo sguardo
dell'altro. Un secondo dopo e l'ascensore partì.
Ora
mi ammazza,
pensò vaga.
«Sei
forse uscita di testa?» l'apostrofò il moro con
tono gelido. Un
vaga sfumatura di rabbia trapelò anche se tentava di
nasconderla.
Ophelia
chinò il capo, in imbarazzo.
«Nessuno
mi ha detto di non uscire dalla stanza» obiettò,
prendendo più
coraggio e alzando lo sguardo verso l'altro.
Incontrò
i suoi occhi blu cupo che sembravano volessero farle del male.
«Credevo
fosse abbastanza chiaro dai discorsi di ieri che nessuno dovesse
venire a conoscenza della tua presenza qui. O forse sei troppo
stupida per capire un concetto così semplice?» le
disse sprezzante.
Ophelia
sentì l'imbarazzo piombarle addosso, ma allo stesso tempo si
infuriò
a sentire quelle parole che le erano state rivolte in un modo
così
duro.
Presa
dalla rabbia, lo guardò gelida.
«O
forse siete voi che mancate assolutamente di tatto o qualsivoglia
sentimento vagamente umano. Dopo giorni in cui mi sballottate da una
parte all'altra, trattandomi come una bambola e parlando di me come
se io non ci fossi, mi mollate in una stanza senza darmi uno straccio
di spiegazione, senza dirmi nemmeno “per favore, Ophelia,
rimani
qui mentre noi non ci siamo, grazie”. Mi trattate come se io
non
abbia una testa mia con cui pensare!»
Sargas
la guardò senza mutare il suo sguardo gelido. Poi
spostò lo sguardo
e la squadrò, notando solo in quel momento come fosse
vestita. Sotto
quegli occhi, Ophelia arrossì di nuovo in imbarazzo.
«Hai
ragione» rispose il moro.
Eh?,
pensò stupita Ophelia. Ecco, non era la risposta che si
aspettava.
«Certo
che ho ragione» rispose però, con uno sguardo di
sufficienza, di
nuovo dimentica dei suoi vestiti – o della loro mancanza, in
una
certa misura.
Come
disse questa frase l'ascensore si fermò e si aprì
su un corridoio
uguale al precedente – ecco perché quel posto era
un labirinto,
era tutto così dannatamente uguale
– sempre senza finestre.
«Vieni»
disse Sargas, anticipandola e facendole strada nel corridoio.
Ophelia
lo seguì in silenzio. Avrebbe voluto fare l'offesa e non
seguirlo,
ma sarebbe stato un comportamento infantile e per nulla utile.
Il
ragazzo la portò all'interno di una stanza che si
rivelò essere
l'ufficio del giorno prima.
Tutto
era perfettamente lindo e in ordine; Sargas, o chi per lui, doveva
aver dato una sistemata per eliminare il sangue che aveva sparso per
la stanza il giorno prima.
«Siediti
pure, avviserò Claire che sei qui» le disse poi.
Ophelia,
sempre in silenzio, si sedette sul medesimo divanetto del giorno
prima.
Si
guardò intorno, percependo quel silenzio con un vago
fastidio – o
meglio, imbarazzo. Non si trovava a suo agio in una stanza da sola
con lui, non per chissà quale motivo, solo che non si
trovava così
in confidenza da poter assaporare un tranquillo silenzio tra di loro.
Non lo guardava, ma lo sentiva scrivere qualcosa su un foglio.
«Hai
ragione»
Sargas
parlò all'improvviso, quasi spaventandola, ripetendo le
stesse
parole che aveva detto poco prima in ascensore. Lei si
limitò a
guardarlo; era seduto nella poltrona di fronte alla scrivania, non
stava più scrivendo. Si era lasciato andare sullo schienale
e aveva
un'aria stanca; in quel momento le sembrò che fosse
più vecchio di
quello che il suo aspetto lasciava credere.
«Non
ti abbiamo detto nulla, non
ti ho detto nulla,
proprio perché, come ti avevo già spiegato, siamo
noi i primi a
essere confusi su tutta questa storia» iniziò
«Stiamo indagando e
siamo ancora confusi, preferisco spiegarti le cose per bene piuttosto
che dirti le cose a piccoli pezzi, magari confondendoti anche di
più.
Ma capisco anche che tutto questo silenzio da parte nostra ti dia
fastidio – lo darebbe anche a me, in effetti.
Cercherò di
spiegarti il meglio che posso, anche se ho alcune domande da
farti»
disse Sargas.
Ophelia
lo guardò.
«Non
voglio fare la ragazzina, l'infantile, pestando i piedi
perché
voglio sapere le cose per un capriccio personale. Solo che credo mi
siano dovute delle spiegazioni, dato che sono stata tirata dentro in
questa storia senza la mia volontà»
spiegò a sua volta.
«Che
genere di domande?» aggiunse poi.
Sargas
la guardò e Ophelia, incontrando i suoi occhi blu,
considerò che
facevano meno paura senza quel bianco accecante.
«Sul
tuo passato»
La
ragazza si immobilizzò.
«Perché?»
fece gelida.
Odiava
parlare del suo passato.
Non
c'era nulla di interessante su di esso, e neanche di allegro. Non
aveva avuto un'infanzia felice, l'orfanotrofio non era un posto che
offriva il necessario amore di cui aveva bisogno un bambino. Non era
mai riuscita a stringere dei veri legami in quel posto – come
da
nessun'altra parte, d'altronde – e aver passato gran parte
della
vita lì le ricordava in maniera dolorosa che era stata
abbandonata
da coloro che avrebbero dovuto prendersi cura di lei, amarla.
«Crediamo
che chi ti sta cercando sappia qualcosa su di te che noi non
sappiamo, qualcosa di sicuro relativo al tuo passato. Vorremmo avere
delle risposte e possiamo averle solo da te» disse Sargas.
Ma
Ophelia sapeva che il ragazzo aveva notato il suo cambiamento di
tono; la guardava non più con indifferenza, ma neanche con
preoccupazione. Era più uno sguardo confuso.
«Se
è proprio necessario, risponderò a queste
domande. In fondo,
rientra anche nei miei interessi» concluse la bionda.
Sargas
annuì semplicemente, senza prolungare ulteriormente
l'argomento.
«Comunque
sia, non credo che ora sia il momento adatto per queste domande.
Forse è il caso che tu ti vesta» le disse,
lanciandole uno sguardo
con un vago sorrisetto.
Ophelia
annuì.
Già,
si stava dimenticando la sua mise.
Si
tirò giù la felpa, cercando di coprirsi meglio
– non che non
fosse abbastanza lunga, ma era un vano tentativo per sentirsi
più al
sicuro.
«Aspetta
qui finché non arriva Claire, poi ti porterà in
stanza e magari
andrai a mangiare qualcosa. È da ieri che sei a stomaco
vuoto, no?»
Ophelia
si morse un labbro. In effetti aveva una fame tremenda, ma per tutto
il tempo aveva cercato di non pensarci – stava per essere
beccata,
le sue priorità erano all'improvviso cambiate.
«Va
bene» acconsentì.
Mentre
il silenzio riprendeva a regnare in quella stanza, Ophelia
osservò
Sargas alle prese con fogli vari che spostava da una parte all'altra
dopo una vaga occhiata. In quel momento, le tornò in mente
una cosa.
«Senti...»
lo richiamò. Il moro alzò lo sguardo verso di
lei, in attesa.
«Poco
fa, prima che arrivassi tu – cioè, non so se tu ci
fossi o meno,
eri dietro di me e quindi non ti potevo vedere. Comunque sia, i due
tizi che mi stavano per vedere, ho sentito che stavano parlando di
alcuni morti. Che succede?» domandò.
Non
era una cosa fondamentale per la sua esistenza, lo sapeva, ma
l'argomento l'aveva incuriosita – e anch piuttosto
preoccupata –
e dato che era lì ed era già coinvolta in tutto
quel mondo, tanto
valeva sapere le cose fino in fondo, no?
«Non
credo che questo sia qualcosa che ti riguardi. Ergo, puoi
sopravvivere anche senza saperlo» fece Sargas, un sorriso
sarcasticamente mellifluo che gli spuntava in volto.
Ophelia
alzò gli occhi al cielo. Sapeva già quale sarebbe
stata la
risposta, eppure ci aveva provato comunque; e non era neanche
intenzionata a lasciar perdere la cosa in quel modo.
«Beh,
ormai sono già invischiata in tutto questo.
Perché ora non posso
sapere ciò che vi riguarda?» insistette.
Sargas,
che aveva riportato gli occhi sui suoi documenti, rialzò lo
sguardo
un poco irritato.
«Non
ti piace proprio farti gli affari tuoi, eh?»
domandò.
«Allo
stesso modo in cui a te piace avere dei segreti, suppongo»
rispose a
tono Ophelia.
Ora
che stava meglio, pareva aver riacquisito il suo solito temperamento
testardo e combattivo.
«E
se te lo dicessi, cosa mi daresti in cambio?»
La
domanda colse Ophelia impreparata. Sargas la guardava con uno strano
sorriso sul volto, uno che non gli aveva mai visto; era colmo di
insinuazioni e le venne da arrossire, ma si costrinse a rimanere
indifferente.
«Uno
schiaffo credo che potrebbe essere sufficiente, ma se insisti potrei
dartene anche due» rispose.
Sargas
scoppiò a ridere e Ophelia rimase più che
spiazzata.
Vederlo
così rilassato, per un momento, le fece chiedere
perché non si
sciogliesse di più anche negli altri momenti.
La
sua risata ha un bel suono,
si
ritrovò a pensare, e le venne spontaneo sorridere a sua
volta.
Credevo
non fossi in grado di rispondermi una cosa del genere. Credevo di
farti paura» disse Sargas all'improvviso.
Ophelia
scrollò le spalle.
«Beh,
quando sei serio e gelido me ne fai, lo devo ammettere. Ma ora mi
sembri tranquillo, non mi spaventi» rispose semplicemente.
Sargas
la fissò senza dire nulla, solo con un vago sorriso che
ancora gli
aleggiava sul volto.
«Comunque
non credere che mi sia dimenticata della domanda che ti ho fatto.
Allora, qual è la risposta?»
Sargas
alzò gli occhi al cielo – un gesto che, insieme
alla risata del
momento prima, lo rese molto più umano agli occhi della
bionda.
«Non
so neanche perché te lo sto dicendo, o forse lo faccio solo
perché
credo sia il momento di darti qualche spiegazione»
iniziò il moro,
ma poi riprese a parlare «Ci sono state delle uccisioni tra
le
nostre file. E quando dico nostre, non intendo solo io e il mio
gruppo. Non credo che tu lo sappia, ma io in pratica solo il master
di questa gens, il capo in poche parole-»
«L'avevo
immaginato» lo interruppe con tono ironico Ophelia. Lui la
guardò
infastidito dall'essere interrotto, ma riprese poi a parlare.
«Non
sono l'unico master, ce ne sono altri due oltre a me. E questo, solo
nella Fazione Bianca» spiegò Sargas.
Ophelia
sentì come un campanello nella sua testa: la
curiosità che emergeva
in lei.
«Fazione
Bianca?» ripeté.
Sargas
la guardò con un'aria dubbiosa – forse non sapeva
se fosse giusto
dirglielo o meno, e Ophelia tacque, spaventata dal dire qualcosa che
avrebbe potuto far cambiare idea al ragazzo.
«Non
ci siamo solo noi» disse all'improvviso il moro.
Evidentemente aveva
deciso di spiegare per bene la situazione «C'è
anche la Fazione
Nera, che è diversa da noi per qualcosa che immagino tu
possa
facilmente intuire»
«Gli
occhi» rispose all'implicita domanda. Sargas annuì.
«Esatto.
Non sono dei nostri nemici, ma neanche propriamente degli amici.
Chiamiamoli rivali,
ecco. Ognuno si occupa delle proprie cose in privato, ci sono degli
scambi di convenevoli ogni tanto, ma niente di che. Viviamo due vite
separate» spiegò. La bionda annuì.
La
spiegazione la prendeva così tanto che si
dimenticò anche della
fame che la stava tormentando; oltretutto, finalmente qualcuno si
degnava di darle uno straccio di spiegazione dato che fino a quel
momento si sentiva una cieca lasciata allo sbando in un'autostrada.
«Ci
sono stati dei morti, ti dicevo. Non solo nella Fazione Bianca, ma
anche in quella Nera»
«Quindi
loro sono automaticamente esclusi dalla lista dei colpevoli»
si
intromise Ophelia.
L'altro
annuì.
«Sì.
Certo, sarebbe stato strano che fossero stati loro ad assassinare
alcuni dei nostri – questo avrebbe significato guerra, sai, e
non
conviene a noi quanto a loro – però c'era sempre
la minima
possibilità, quindi abbiamo indagato e pare che loro siano
nella
nostra stessa situazione»
Ophelia
annuì, ma poi si fece pensierosa.
«E
allora chi potrebbe essere stato?»
Sargas
si lasciò andare nella sua poltrona.
«C'è
solo una possibilità che pare essere la più
concreta, anche se allo
stesso tempo è parecchio strana»
La
bionda lo guardò curiosa.
«I
Deviati»
Le
venne automatico trattenere il respiro a quella parola.
I
Deviati, in quel momento, erano per lei coloro che avevano distrutto
la sua vita serena trascinandola in quel mondo che avrebbe volentieri
continuato ad ignorare.
Pensò
a Mathias, già nel dimenticatoio, e a come fosse mostruoso
dietro la
maschera da semplice ragazzo.
E
pensare che ci ho anche fatto sesso,
rabbrividì a quel pensiero e le venne un brivido di disgusto.
«Comunque
sia non capisco una cosa: perché loro non potrebbero essere
i
colpevoli?»
La
domanda le sorse quasi inaspettata.
«Perché
sono deboli. Ci sono sempre stati sin da quando esistiamo anche noi.
Ci sono state volte in cui hanno tentato di prendere il potere su di
noi, ma siamo sempre stati più forti di loro e, proprio per
questo,
nessuno si è mai preso la briga di sterminarli
completamente.
Abbiamo sempre lasciato che esistessero, che vagassero per la terra
senza un preciso scopo. Ora invece pare abbiano ucciso vari di noi, e
questo è strano: non potrebbero avere la forza necessaria, o
almeno
questo era quello che si pensava fino a poco tempo fa»
concluse
Sargas.
Ophelia
tacque pensierosa, poi però le venne in mente una cosa.
«Non
per offendere i vostri valorosi guerrieri» iniziò,
con una vaga
aria sarcastica che le fece guadagnare un'occhiataccia dal moro
«Però, ecco, i due che hanno tentato di rapirmi
non mi sembravano
così debolucci eh. Anche l'altro ragazzo – Beal,
mi pare – con
due di loro è stato costretto a scappare. O magari ricordo
male io,
però mi sembra proprio così» fece
convinta.
Sargas
la guardò sconvolto.
«Sono
un idiota» sibilò.
Ophelia
lo guardò confusa: che gli prendeva all'improvviso? Cosa
aveva detto
di così sconvolgente?
«Su
questo potremmo discuterne a lungo, ma perché dici
così?» chiese,
corrugando le sopracciglia e creando una sottile ruga sulla fronte.
«I
Deviati che hanno cercato di rapirti...» iniziò
lui, gli occhi
illuminati.
«Sì,
quindi?»
«Loro
non erano normali. Erano più potenti dei soliti Deviati. Dei
tipi
come loro avrebbero potuto uccidere alcuni dei nostri, ciò
significa
che le due cose sono collegate» spiegò rapido
Sargas.
Mentre
diceva quelle parole, Ophelia lo osservò prendere un
biglietto
candido dal disordine di quella scrivania e scrivergli qualcosa sopra
in maniera frettolosa.
Lo
osservava dubbiosa: in un momento del genere non le sembrava nemmeno
lui.
«Quindi
coloro che vogliono qualcosa da me potrebbero essere legati a coloro
che stanno uccidendo alcuni come voi?» sintetizzò.
Sargas
finì di scrivere sul bigliettino e abbandonò la
penna sul tavolo.
«Esatto»
disse solo.
Ophelia
lo fissò mentre lo vedeva avvicinarsi allo specchio appeso
alla
parete, perfettamente pulito e con una cornice che sembrava fatta
d'argento; guardò il ragazzo che sfiorava delicato la
superficie
riflettente e sobbalzò quando vide questa diventare liquida.
Il
ragazzo lasciò andare il bigliettino nello specchio e questo
lo
assorbì in silenzio, per poi ritornare solido come prima.
Mi
chiedo perché io mi stupisca ancora di cose del genere,
pensò ironica.
«Che
cosa hai appena fatto?» domandò poi.
Sargas
sorrise.
«Ho
mandato un messaggio agli altri master della mia Fazione. Se
è
davvero come penso e le cose sono legate – cosa che credo
–
dovrai andare a cambiarti: ti porterò dagli altri
master»
Ophelia
sospirò.
Forse
avrei preferito continuare a rimanere nella mia ignoranza.