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Autore: Adeia Di Elferas    02/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Potevano dire quello che volevano, ma la realtà non sarebbe cambiata. Francesco Gonzaga era stufo di quella guerra e non intendeva prestare ulteriormente il fianco ai giochetti insulsi del Duca di Milano e del re di Francia.

Stava cavalcando pancia a terra verso Mantova, assieme alla sua scorta personale e a pochi altri soldati che lo avevano seguito, e non si pentiva nemmeno un po' di aver abbandonato la causa tanto repentinamente.

Il Duca di Milano e il re di Francia avevano siglato una pace che lui stesso aveva caldeggiato, facendo pressioni su Ludovico Sforza, mettendolo davanti alla prospettiva di una spesa insostenibile, per continuare l'assedio di Novara.

Era stata una mossa obbligata, quasi, dettata dal suo desiderio di deporre le armi almeno per un po', o, se non altro, almeno fino a quando non ci fosse stata in vista una possibilità più concreta di strappare una vittoria soddisfacente.

E così la città di Novara era stata letteralmente comprata dal Moro, che aveva comunque sborsato una cifra nettamente inferiore a quella che avrebbe dovuto trovare per finanziare ancora per mesi quell'insensata manovra.

Un assedio che terminava con una transazione monetaria faceva ribrezzo al Marchese, ma Francesco non aveva intenzione di perdere la faccia e la vita – perché così sarebbe di certo andata a finire, se si fosse ostinato a perpetrare quell'attacco – in un modo tanto insulso, dunque aveva preso di buon grado quella decisione.

All'inizio era stato ben deciso a riscattarsi dalla figuraccia di Fornovo con la conquista di Novara, ma poi il suo lato pragmatico si era fatto strada tra l'orgoglio e l'ostinazione e lo aveva fatto rinsavire, mostrandogli l'insensatezza della sua cocciutaggine.

E così aveva piegato il capo alla pace, alla vittoria tramite denaro e ai fasulli onori che gli erano stati tributati per aver riportato Novara al suo legittimo proprietario.

Anzi, si era dimostrato molto accomodante anche con tutti i francesi che gli avevano fatto visita al campo, dopo la pace di Vercelli, aveva accettato lo scambio di doni di buonagrazia e si era fatto vedere lieto anche davanti a personaggi odiosi come Luigi d'Orléans.

Quando i francesi gli avevano fatto capire che lo avrebbero voluto a Napoli, a combattere contro gli Aragona, Francesco aveva subito rifiutato in modo fermo. Quando avevano insistito, proponendo una condotta di tutto rispetto e avanzando velate minacce, il Gonzaga aveva calato l'asso.

Si era inventato che sua sorella Chiara, moglie del Montpensier, era malata e che quindi la sua presenza era richiesta con urgenza al suo capezzale, a Mantova. In più, non sapendo che tipo di malattia affliggesse la sua adorata congiunta, non era in grado di dire quanto tempo sarebbe dovuto restare nella sua città, dunque non sarebbe stato un buon affare, per i francesi, ingaggiarlo.

Luigi d'Orléans aveva fatto una faccia strana, ma alla fine, che ci credesse o meno, aveva congedato il Marchese con i suoi più sentiti auguri di pronta guarigione per la sorella Chiara.

Quando Francesco finalmente vide il profilo elegante di Mantova, sentì il cuore riaprirsi nel petto e un sospiro di sollievo gli riempì i polmoni.

Attraversò la città seguito dallo sguardo incuriosito e festante dei suoi sudditi, che, come capitava ogni volta che il Marchese rientrava dopo una guerra, erano accorsi ad accoglierlo, felici di vederlo ancora vivo e in salute.

Fuori dal palazzo, sotto il cielo che si scuriva di nuvole foriere di pioggia, circondata da guardie e da dame di compagnia, l'attendeva Isabella Este, sua moglie.

La donna aveva deciso di fiondarsi fuori dal portone non appena una delle guardie cittadine era accorsa per dire che il Marchese era tornato e così la Marchesa poté godersi lo sguardo euforico che illuminò il viso del marito non appena la vide.

Francesco fece rallentare il suo destriero, si fermò a pochi passi dalla donna, smontò da cavallo e si massaggiò la barba lunga e scura, trascurata nelle settimane passate ad assediare Novara, e colmò gli ultimi metri che lo separavano dalla sua Isabella con un paio di ampie e vigorose falcate.

Gli occhi dei cittadini che avevano seguito il corteo fino a lì, così come quelli del seguito della Marchesa, erano puntati su di loro.

Gonzaga, gonfiando il petto ancora coperto da una mezza piastra un po' scheggiata, prese una morbida mano della moglie tra le sue, che invece si erano fatte ancora più callose e ruvide.

I due si scambiarono una lunghissima e silenziosa occhiata, con cui si dissero in silenzio tante di quelle cose che alla maggior parte delle persone non sarebbero bastate ore per elencarle a voce.

Francesco si portò il dorso liscio e tiepido della mano di Isabella alle labbra e, dopo averle dato un leggero bacio, le sussurrò, a voce tanto bassa da deludere i curiosi che avevano teso le orecchie per carpire qualche parola: “Quanto sei bella, amore mio...”

Con un sorriso fresco come un giorno di primavera, la Marchesa, suscitando un estatico giubilo nei presenti, saltò al collo del marito e, sotto le prime fredde gocce di pioggia che cadevano dal cielo grigio, ricambiò a modo suo il complimento con un bisbiglio nell'orecchio del marito, le labbra sollevate nel più sincero dei sorrisi: “Quanto sei brutto, amore mio...”

 

Paolo Orsini studiava la campagna che si stendeva vasta e fredda ai piedi di Montepulciano e si sforzava di guardare oltre i confini del suo sguardo, come sperando di poter davvero scorgere Firenze fin da lì.

Le sue sessanta lance stavano aspettando poco lontano dalle porte della città e lui si sentiva lo stomaco stretto in una morsa di tensione.

Il modo in cui Virginio aveva giocato con la sua fiducia e con quella di Piero l'aveva oltraggiato come mai era capitato prima. Era già successo, in passato, che il suo parente lo facesse infuriare con la sua condotta non sempre irreprensibile, ma quella volta proprio non aveva digerito la sua beffa, perché di beffa si era trattato.

Il Fatuo non aveva compreso le reali intenzioni del signore di Bracciano e così Paolo si era ben guardato dallo spiegargliele, temendo che l'esiliato fiorentino potesse decidere di punire Virginio in modo esemplare, privandosi in un colpo di uno zio e di un generale, che, pur con le sue pecche, restava una delle spade più valide d'Italia.

Gualdo Cattaneo era stata una buffonata e ora era necessario recuperare un po' di credibilità e soprattutto di potere. Per quello Paolo era andato a Montepulciano in cerca di alleati.

Lo stavano facendo aspettare, però, come se fosse stato l'ultimo dei servi. Era un trattamento inadeguato al suo nome e al suo rango, ma aveva ingoiato il rospo, ragionando in termini utilitaristici.

Ne stava approfittando per osservare l'orografia del territorio e per riflettere, appoggiato al muretto che si affacciava sulla vastità dei campi circostanti.

Erano molto in alto e Paolo aveva detestato in modo particolare la scarpinata che aveva dovuto fare, sferazato da un vento gelido, per raggiungere il cuore della città. E inoltre dover aspettare fuori con quel freddo lo stava rendendo ancor più indisponente.

Tuttavia era cosciente come non mai dell'importanza di quella trattativa. Non doveva lasciarsi condizionare da quei dettagli insignificanti. Cos'erano un paio d'ore d'attesa e qualche spiffero ghiacciato sul collo, in confronto al motivo che lo aveva spinto fino a lì? Niente, proprio niente, ecco che cos'erano.

Dopo sarebbe passato da Città della Pieve. Una volta deciso tutto, avrebbero colpito a Cortona e così avrebbero fatto il primo concreto passo verso il ritorno di Piero a Firenze.

Savonarola, aiutato dalla sapiente penna di Girolamo Benivieni aveva appena pubblicato un'operetta sui Dieci Comandamenti e gli intellettuali e chi aveva orecchie buone avevano capito, nel sentire i passi di quell'opera, quanto il frate fosse ancora agguerrito.

Paolo aveva sentito anche dire che ci fosse un'altra opera in cantiere, il cui titolo pareva essere 'De semplicitiate christianae vitae'. Solo quelle semplici parole latine sottintendevano già un chiaro attacco a Piero Medici e a tutto quello che la sua famiglia rappresentava.

Era molto chiaro quale strategia il domenicano avesse deciso di seguire, da quando il papa gli aveva tappato a forza di minacce la bocca.

Loro, se volevano giocare alla pari con lui, avrebbero dovuto seguire una via simile.

Non era il caso di ostinarsi in battaglie campali e assedi, come aveva cercato di fare, tra l'altro con poca convinzione, Virginio coi Baglioni.

Era il momento di essere infidi. Le congiure, gli omicidi, i tradimenti, la corruzione, i colpi di Stato attuati in modo subdolo. Così Paolo voleva ridare il potere al vero erede di Lorenzo il Magnifico. E così avrebbe fatto, a costo di rimetterci la vita.

 

Caterina aveva appena finito di parlare con i suoi comandanti e aveva a grandi linee abbozzato un piano d'azione che suonava promettente.

C'erano ancora delle incognite e non sarebbe stato facile muovere le truppe abbastanza in fretta e silenziosamente da non attirare l'attenzione dei vicini di casa. Poter contare, però, su un buon numero di soldati e su dei generali validi dava alla formazione forlivese un vantaggio molto sostanzioso e non da sottovalutare.

Faenza continuava a tacere e la Contessa non aveva alcuna intenzione di essere la prima a riaprire il dialogo.

Non capiva cosa avesse in mente Niccolò Castagnino e quindi, per il momento, non si azzardava a fare piani anche su quella città.

Aveva sguinzagliato le sue spie, ma non erano ancora stati raccolti abbastanza dati per farsi un'idea chiara di cosa stesse capitando tra le mura dello Stato dei Manfredi.

Sapeva solo che Ottaviano Manfredi, il cugino di Astorre, aveva di recente riprovato un'incursione, fallita miseramente. Sarebbe stato interessante scoprire come mai.

Si trattava della mancanza di abilità e preparazione del Manfredi che voleva strappare la città al cugino, oppure le difese di Astorre erano talmente organizzate ed efficienti da essere riuscite a respingere quell'attacco con facilità?

Chi c'era dietro Ottaviano Manfredi e chi dietro ad Astorre?

Erano entrambi mere pedine di poteri forti, oppure no?

Se sì, quali erano queste potenze che li volevano sfruttare? Firenze? Venezia? E in ogni caso, che ci avrebbero guadagnato, a spalleggiare l'una o l'altra parte?

Questi quesiti accompagnarono Caterina per tutto il giorno, fino a sera, perfino durante la cena, quando, invece, avrebbe preferito riuscire a concentrarsi su quello che stavano dicendo i suoi commensali.

Ormai la Contessa aveva ceduto alla pessima abitudine di mescolare senza soluzione di continuità la propria vita familiare con quella politica e militare e quindi a tavola, assieme a lei, alla madre Lucrezia, a Bianca, a Galeazzo e a Sforzino, quella sera stavano anche Francesco Numai, Achille Tiberti e Paolo Bezzi.

Gli uomini continuavano a parlare di quello che si stava organizzando per l'inizio di novembre e Caterina seguiva solo a tratti le loro parole.

In confronto a lei, Lucrezia, Bianca e Galeazzo pendevano dalle labbra dei comandanti che stavano cenando con loro.

Sforzino, invece, come sempre aveva occhi solo per il cibo e orecchie solo per sentire dalla voce dei servi quale fosse la portata successiva. Era chiaro che almeno lui avesse preso con nettezza una qualità prettamente sforzesca. Peccato che si trattasse dell'ingordigia e non di qualche tratto più nobile e, soprattutto, più utile.

Lucrezia era preoccupata da quello che si stava per scatenare per volere di sua figlia e Bianca era altrettanto in ansia, con l'aggravante del pensiero fisso e costante di Astorre Manfredi.

La ragazzina non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere con decisione alla madre quale sarebbe stato il futuro del suo matrimonio con il signore di Faenza e il fatto che non se ne parlasse mai la rendeva molto inquieta. Cominciava a temere che quel dettaglio fosse scivolato in fondo alla lista delle preoccupazioni materne, tanto da convincere la Contessa che quello fosse il minore dei mali e che non fosse necessario occuparsene più, lasciando che le cose facessero il loro corso naturale.

Bianca, invece, avrebbe voluto sentire dire dalla voce di sua madre, in modo chiaro e inequivocabile, che il matrimonio sarebbe stato sciolto subito. Non importava per quale motivo in particolare. Pur sentendosi molto egoista, Bianca avrebbe anche accettato una guerra con Faenza, pur di non dover essere costretta a condividere la sua vita con quel pazzo di Astorre Manfredi.

Galeazzo era l'unico che dava ascolto in modo critico i piani della madre e dei suoi comandanti. Il bambino, non ancora decenne, iniziava a nutrire un certo interesse per la tattica e la strategia e avere il permesso di ascoltare certi discorsi lo faceva inorgoglire come non poco.

Ovviamente non coglieva appieno il senso di quello che sentiva dire, né comprendeva del tutto le implicazioni morali e sociali di una guerra di conquista messa in piedi come mossa di difesa preventiva, ma udire termini come 'spingarde', 'cannoni' e 'assedio' bastava a farlo sentire già quasi un uomo.

“Va bene, va bene, ne riparleremo domani...” tagliò corto Caterina, a un certo punto, freddando Tiberti a metà frase.

La Contessa si pulì gli angoli della bocca con il lato della mano e lasciò l'ultima portata a metà, alzandosi con una certa fretta.

I commensali non si scomposero più di tanto per quel congedo improvviso. Ormai si erano abbastanza abituati al fare scostante di Caterina e così non ci facevano più molto caso.

Quello che aveva fatto scattare la donna era stato il circolo nauseante di pensieri che le affollavano la mente.

In particolare, mentre Tiberti ragionava su come muovere in fretta la fanteria, il cervello di Caterina l'aveva portata chissà come all'immagine vivida di Ottaviano, ai suoi occhi che avevano osato fissarla, quando l'aveva fronteggiato per l'ultima volta, prima di spedirlo in isolamento.

La Contessa percorse con passo veloce tutta la rocca, desiderando un po' d'aria fresca.

Uscì, attraversò rapida il ponte e si mise a camminare ad ampie falcate nel suo orto personale, nella speranza di svuotare la testa e ritrovare un minimo di calma.

Più ci provava, però, più la confusione che la tormentava cresceva. Forse era per l'imminente partenza dei suoi soldati, forse per l'incertezza legata al silenzio dei faentini, forse per chissà che altro, restava il fatto che le immagini e i ricordi si amplificavano, invece di sparire.

Caterina, marciando sotto al fico e poi tra le erbe mediche, non riusciva a fermare le vivide immagini che la sua testa le ripresentava con vile crudeltà. E così rivedeva davanti ai suoi occhi il corpo straziato di Giacomo, poi quello di Ludovico Marcobelli, poi quello di Girolamo Riario, quello di suo padre, quello di Pavagliotta, quello delle donne di Mordano, quello di Don Domenico, quello degli uomini che aveva ucciso solo per sfogare la propria rabbia e molti altri e le sembrava di impazzire.

A questo, poi, si sommava il tormento del corpo, che non aveva ancora accettato l'assenza di suo marito e che continuava a torturarla, senza darle mai tregua, se non quando si lasciava inebriare dai fumi delle droghe, del vino e del sangue.

A volte c'erano momenti in cui avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di poter tornare a provare ribrezzo per certe cose, come le capitava quando era ancora sposata con Girolamo. Giacomo le aveva insegnato ad apprezzare e a desiderare la compagnia di un uomo e, ora che lui l'aveva lasciata sola, toccava a lei convivere con quel bisogno che prima le era stato del tutto estraneo.

Il cielo era scuro e la città sembrava già addormentata, anche se tra le vie la vita pulsava nelle osterie e nei lupanari. Nuvole spesse e dense coprivano la luna, oscurando Forlì e le campagne vicine e un venticello gelato spirava verso la montagna.

Senza pensarci, Caterina nel suo peregrinare si trovò davanti al Paradiso. Nessuno vi era più entrato, dopo il servo che la Contessa vi aveva mandato per prendere alcuni suoi scritti che erano rimasti sulla scrivania.

Il piccolo edificio era buio e aveva quell'aria negletta tipica dei posti disabitati. E pensare che fino a un paio di mesi prima, quello era stato per Caterina il centro del mondo.

Nel tentativo di sfuggire di nuovo a se stessa e al vuoto che sentiva dentro di sé, la Contessa si strinse nelle spalle, rendendosi conto di non aver preso nemmeno un mantello per ripararsi dal clima di fine ottobre, e tornò nella rocca.

Si chiuse nella sua camera e cercò subito la bottiglia con il suo elisir per far dormire. La trovò vuota e si ricordò con rabbia di averla finita la sera prima. Si era completamente scordata di prepararne una nuova scorta.

Non aveva più nemmeno gli intrugli a base di oppio. Aveva fatto un ordine a uno speziale, per le materie prime, ma ancora non le era stato consegnato nulla e così non aveva potuto preparare i suoi distillati.

Si appoggiò al muro, respirando in modo un po' irregolare. Rifiutava l'ipotesi di andare nelle segrete anche quella notte. La soddisfazione che le dava punire i congiurati – che fossero davvero o meno colpevoli di qualcosa ormai non le importava più – era troppo volatile e illusoria. Ogni volta che un uomo cadeva senza vita davanti a lei, Caterina finiva solo per sentirsi ancora più trasparente e sottile, come se ogni volta una piccola scheggia della sua anima saltasse via, lasciandola per sempre.

Si portò una mano sul ventre e si maledisse per il suo sangue caldo e per la sua incapacità di controllarlo.

Si era illusa che il passare del tempo avrebbe alleviato la sua sete, ma non era così, anzi, più i giorni passavano più la fame, la solitudine e il dolore sembravano ingigantirsi, tanto da prendere completamente il sopravvento su di lei.

Era ancora relativamente presto. Non avrebbe potuto resistere per tutta la notte così. L'alba era troppo lontana.

Aveva rifiutato l'eventualità in modo categorico fino a quel momento, per vergogna e per senso di lealtà nei confronti dell'unico amore della sua vita, ma giunta a quel punto non vedeva altra soluzione.

Provò ad attendere ancora qualche momento, sperando di riuscire a dominarsi, ma alla fine cedette alla propria natura così fragile e terrena e pensò a un modo semplice per far fronte a quell'annoso problema.

Ci sarebbero stati modi più semplici, meno avvilenti, ma a quell'ora non avrebbe avuto modo di metterli in atto, dunque le serviva qualcuno di provata fiducia che l'aiutasse.

Si mise un mantello spesso e scuro e lasciò la rocca a piedi, diretta alla casa di Andrea Bernardi.

 

Il Novacula, sbadigliando e prendendo una candela per illuminarsi il cammino, andò a vedere chi stesse bussando con tanta insistenza a quell'ora.

Quando, aperta la porta, si trovò davanti la Contessa, restò per un lungo momento basito. Era la prima volta che la sua signora lo cercava, da quando il Barone Feo era morto. In più a quell'ora la visita gli sembrava ancora più strana.

Tuttavia la fece entrare subito, invitandola ad accomodarsi dove meglio preferiva.

Mentre Bernardi accendeva qualche candelotto di sego, poggiandolo sul tavolo, Caterina prese posto su una delle sedie della cucina e si tolse il cappuccio, mettendo in mostra la chioma bionda, resa simile a una fiamma dalla luce incerta delle candele.

Quando la stanza fu ben illuminata, il Novacula si sedette davanti a lei e chiese: “Avete bisogno del mio aiuto?”

La Contessa, presa un po' alla sprovvista dall'apparente grande intuito di Bernardi, guardò in terra e non disse nulla.

Il barbiere ebbe per un attimo un fugace e atroce dubbio. In quei giorni lui per primo si era arrovellato nel ricordo dei pettegolezzi che aveva udito poco prima della morte del Barone e si era pentito amaramente di non averne mai parlato in modo serio con la Contessa.

Che la donna fosse lì per sapere se lui avesse mai avuto sospetti fondati sui Ghetti, sugli Orcioli e sui Marcobelli? Che volesse punirlo per non essere stato un servo degno di lei?

Teso all'idea di essere prossimo all'arresto, Bernardi provò a dire: “Sono addolorato per quello che è successo...”

Caterina scosse la testa con lentezza, mettendolo a tacere. Era chiaro che non volesse parlare del Barone Feo e della sua morte e in un certo senso il Novacula ne fu molto sollevato.

“Sono qui per chiedervi un grosso favore.” disse la Contessa, a voce bassa.

Dal rossore improvviso delle sue guance, il Novacula comprese che l'argomento doveva essere assai delicato. Non aveva mai visto la sua signora davvero imbarazzata e dunque lui stesso si imbarazzò di riflesso, ma non si lasciò ammutolire da quell'emozione inattesa.

“Tutto quello che ordinate, mia signora.” annuì subito, senza esitare.

Caterina fece un paio di respiri profondi, guardò in alto, si sistemò sulla sedia, si morse un labbro e infine strinse le mani l'una nell'altra, fortemente a disagio: “Vorrei che andaste al postribolo migliore della città. Cercate un uomo che sia disponibile a recarsi alla rocca stanotte. Che sappia fare bene il suo mestiere e che sia disposto a mantenere il segreto. E che sia di bell'aspetto.” quelle ultime parole riaccesero violentemente il colorito della donna e anche Bernardi si sentì avvampare allo stesso modo.

“Per voi..?” domandò il barbiere, senza collegare per tempo la bocca al cervello.

Lo sguardo sfuggente della Contessa bastò al Novacula per soggiungere con solerzia: “Perdonate, è una domanda sciocca...”

“Dunque, lo farete?” chiese Caterina, riassumendo, anche se con una certa fatica, la sua classica espressione distaccata.

Il Novacula chinò il capo in segno di assenso e così la Contessa aggiunse: “Potete farlo in modo discreto?”

“Ovviamente.” rispose Bernardi, deglutendo, mentre già si immaginava intento a contrattare con la padrona del lupanare più in vista di Forlì.

“Ecco – fece la Tigre, porgendogli un sacchetto di monete – usateli per pagare chi di dovere e tenete voi il resto per il disturbo.”

“Non potrei mai.” disse il Novacula, prendendo il malloppo.

La Contessa non insistette, convinta che alla fine avrebbe trovato il modo di lasciare un buon compenso al barbiere per il disturbo che si stava prendendo, e si apprestò a uscire da casa sua dicendogli: “Accompagnatelo voi alla rocca, dirò alle guardie di lasciarvi entrare.” e quando fu sulla porta, si voltò e concluse: “Scusatemi, se mi sono rivolta a voi, ma...” fece uno sbuffo che poteva sembrare divertito: “Sono veramente poche, le persone di cui posso fidarmi davvero.”

 
   
 
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