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Autore: Adeia Di Elferas    09/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Virginio Orsini se ne andò lasciando Paolo con un palmo di naso. Non stette ad ascoltarlo nemmeno quando gli gridò di fermarsi e ragionare, nemmeno quando provò a tirare in ballo il loro legame di sangue.

L'idea di Paolo Orsini di mettersi a implorare l'aiuto dei senesi era per Virginio semplicemente inconcepibile.

Dovevano accettare la realtà. Volevano ordire una congiura contro gli oppositori del Fatuo?

Ebbene, a Cortona, dove credevano di trovare alleati avevano invece trovato dei nemici e avevano sventato un complotto contro di loro appena prima di cadere nella trappola. Quello doveva essere un segnale più che chiaro del fallimento della loro impresa.

Il giorno dopo, Virginio si era già ritirato a Città della Pieve. Ranuccio da Marciano si stava avvicinando inesorabile e aveva con se duemila fanti e trecento lance. Sarebbe stato folle, cercare di contrastarlo.

Se anche avessero vinto uno scontro in campo aperto, con quali uomini avrebbero continuato quella lotta senza senso?

Paolo, invece, abbandonato dal suo parente e avvilito per la piega che stava prendendo la sua personale campagna militare, si era dato alla macchia, in Val di Chiana, con i suo trecento soldati scelti e tremila fanti.

Non aveva del tutto abbandonato il suo piano originale, anche se si rendeva conto che non sarebbe stato facile, ora che Virginio lo aveva respinto in modo tanto aperto.

La sua idea era quella di andare prima a Siena e intanto cercare un contatto con i Bentivoglio, sperando che fossero ben disposti ad appoggiare la restaurazione di Piero Medici, prima che Firenze cadesse preda di una guerra civile tra Arrabbiati e Piagnoni.

Quello che l'Orsini però non aveva calcolato era che Giovanni Bentivoglio aveva già un bel da fare per conto suo.

Prospero e Fabrizio Colonna, uscendo dalla cortina di fumo nella quale si erano eclissati negli ultimi mesi, erano riusciti a riprendere contatti coi francesi.

Carlo VIII, pur essendo intento a leccarsi ancora le ferite dopo la svantaggiosa pace di Vercelli, non sembrava del tutto deciso a lasciar perdere l'Italia e così aveva preso accordi sottobanco con i due romani e li aveva mandati negli Abruzzi, a insidiare proprio le terre dei Bentivoglio.

Così, quando Giovanni Bentivoglio ricevette una missiva espressa e accorata di Paolo Orsini, in cui gli si richiedeva un impegno militare in cambio del futuro favore di Firenze, il signore di Bologna sputò in terra e stracciò il foglio, vanificando in un solo gesto tutti i buoni propositi dello zio del Fatuo.

 

All'arrivo a Castelnuovo di Veggiani, Numai e Russi, Tiberti si affrettò a riorganizzare le truppe, per sfruttare al meglio quell'opportunità che sembrava più unica che rara.

I tre nuovi arrivati gli avevano consegnato un breve messaggio della Contessa, con cui lei gli dava il suo benestare per continuare con la seconda fase della campagna e il comandante non poteva che esserne felice.

Con un buon tempismo e un po' di fortuna, non avrebbero trovato sul loro cammino grossi ostacoli e avrebbero conquistato terreni importanti e ricchi intermini di cibo e commercio, spendendo in confronto un'inezia in soldati.

Guido Guerra, l'unica incognita vera in quella missione, non aveva ancora reagito all'attacco subito sul suo confine e forse non lo avrebbe nemmeno fatto.

Così, dopo aver lasciato un certo numero di soldati ai nuovi Governatori e al nuovo castellano nominati dalla Contessa, Tiberti ripartì subito.

In un paio di giorni, praticamente senza dover mai incrociare spada con il nemico, sotto la sua marcia caddero Teodorano, Mulino Vecchio e tutte le altre piccole rocche della zona.

'Mia signora – scrisse allora Tiberti, seduto comodo in quello che era stato l'appartamento privato del castellano della rocca di Teodorano – questo è il momento di proseguire con il vostro piano, come si era detto fin dall'inizio, visto che nemmeno un vessillo nemico s'è alzato contro di noi. Il tempo è prezioso.'

 

Quando Caterina ricevette, il giorno appresso, il messaggio del suo comandante, seguì il consiglio e non perse un momento.

Aveva parlato della sua idea solo con Tiberti, Bezzi e Cicognani, ma sentiva che era giunto il momento di informare anche qualcun altro di quello che aveva in mente.

Quella mattina si era svegliata con una tosse insistente e, anche se le era passata dopo un paio d'ore, nulla poteva distoglierla dall'idea che potesse essere vicina a un nuovo attacco di malaria.

Visto quanto era stata male l'ultima volta che il male l'aveva colpita, non si riteneva irrealistica nel temere per la propria vita.

Sapeva bene che le recrudescenze di malaria non iniziavano a quel modo, ma la razionalità datale dall'esperienza e dallo studio a volte lasciava il passo alla suggestione e nemmeno lei poteva far nulla per riportare la sua coscienza sulla strada della logica.

Ora che era riuscita a ritrovare una relativa lucidità – anche se, per farlo, aveva dovuto scendere a patti coi bisogni del proprio corpo e della propria mente permettendosi generose quantità di vino, ancora qualche dose delle sue pozioni e un paio di amanti occasionali – trovava indispensabile preservare il suo Stato.

Aveva definitivamente scelto Galeazzo come suo erede e dunque doveva preparare tutto affinché suo figlio potesse sopravvivere fino alla maggiore età e con uno Stato gestibile anche se lei fosse morta anzitempo.

Così chiamò nello studiolo del castellano la persona che più di tutte avrebbe potuto tornare utile a Galeazzo in caso di bisogno.

“Siete sicura che funzionerà?” chiese Luffo Numai, con una certa apprensione, dopo che la Contessa ebbe spiegato quello che intendeva fare: “Mi sembra un piano molto delicato e troppo dipendente da fattori che conosciamo poco...”

“Non ci interessa sapere che cosa sia accaduto di preciso tra Pandolfo Malatesta e il Conte Guido Guerra.” fece Caterina, in risposta alle perplessità del Consigliere: “Ci basta sapere che il signore di Rimini odia a morte quello di Cesena, tanto da essere pronto a ucciderlo alla prima occasione favorevole.”

“Appunto!” sbottò Numai, che, tra le altre cose, era anche in apprensione per Francesco, suo parente, che era partito per Castelnuovo e dunque rischiava di restare coinvolto in qualche disastrosa manovra militare: “Credete davvero che Guerra non se ne renda conto? Sarà di certo cosciente come noi del fatto che Malatesta non vede l'ora di ucciderlo! Come potete credere che si rivolgerà a Malatesta in cerca di aiuto?!”

“Se ho ben inteso cosa sta dietro al silenzio e all'inazione del nostro nemico – proseguì la donna, senza dare mostra di essere stata impensierita dalle giuste parole di Luffo – Guido Guerra è abbastanza disperato da rivolgersi a chiunque. È reduce da una guerra civile contro sua madre che ha spolpato le sue casse e ha dimezzato le sue truppe. Crede che io abbia dietro qualcuno di potente, di certo l'ingente numero di soldati che abbiamo mandato per una facezia come catturare Castelnuovo deve averlo convinto che le nostre risorse sono molto più ampie e che non abbiamo paura di usarle. Dunque starà attento, prima di chiedere aiuto a Roma, o a Firenze, nel timore che siano proprio loro i nostri alleati. Con Milano non ha mai avuto grandi affari e dubito che io zio gli darebbe ascolto, e Venezia è sua nemica. Secondo voi rifiuterebbe la mano tesa di Pandolfo Malatesta? Ricordatevi che, per quello che ne sa Guerra, io potrei marciare su Cesena domani stesso e, senza un supporto esterno considerevole, il caro Guido perderebbe la faccia, la vita e lo Stato nel giro di mezza giornata.”

Luffo Numai si prese un momento per ragionare sulle parole della sua signora. Si strinse nella cappa bordata di peliccia e inalò l'aria un po' chiusa dello studiolo del castellano con un paio di profondi respiri.

Dopo un momento di scetticismo, convenne: “Quello che dite potrebbe avere un senso. Resta il fatto che Pandolfo Malatesta non è al nostro servizio. Non ci basterà ordinargli di fare una cosa, per vedergliela fare. Come lo convincerete?”

“Conosco gli uomini, Numai. Le loro debolezze, i loro vizi, le loro ossessioni, le loro ire e le loro paure.” ribatté Caterina, appoggiando i gomiti sui braccioli del suo scranno e guardando verso il camino acceso: “Credo di sapere quali corde toccare. Lasciate fare a me.”

A quel punto il Consigliere cedette su tutta la linea e si dichiarò fedele servo della Contessa, come sempre.

Dopo aver spiegato a Numai come mai avesse deciso di metterlo a parte solo in quel momento della sua strategia, e avergli raccomandato il figlio Galeazzo - “Qualunque cosa dovesse mai accadermi” aveva sottolineato più volte – Caterina lo lasciò libero di andare e si mise a scrivere una lettera di capitale importanza indirizzata a Pandolfo Malatesta.

 

Rodrigo Borja sbatté i palmi delle mani sulla scrivania: “Voi ne sapete qualcosa o no?” chiese con veemenza al genero.

Giovanni Sforza guardò i Cardinali presenti al cospetto del papa, come a cercare aiuto, ma nessuno osava neppure sollevare lo sguardo da terra.

L'aria in Vaticano sembrava immobile. Roma godeva di un clima mite, malgrado il freddo stesse cominciando a stringere tutto il resto d'Italia nella sua morsa. Le ampie sale papali, invece, erano tiepide, ben riscaldate e spesso qualche finestra veniva lasciata aperta per permettere all'aria croccante e profumata di novembre di rinfrescare gli arazzi, gli affreschi e gli ammuffiti porporati che si aggiravano avvolti nei loro mantelli cremisi.

“Se dietro c'è Milano..!” iniziò Alessandro VI, sollevando l'indice inquisitore e puntandolo contro lo Sforza: “Avanti! Ditemi che diamine ha in mente la vostra parente!”

Giovanni boccheggiò, le guance che prendevano colore. Non aveva la minima idea di cosa passasse per la testa alla signora di Imola e Forlì, tanto meno sapeva se ci fosse dietro Ludovico.

Non aveva mai avuto buoni rapporti con Caterina, benché fossero imparentati, e, anzi, in passato tra Pesaro e Forlì c'erano stati degli screzi anche di un certo rilievo, di natura economica, ma comunque non simpatici.

“Allora?! Possibile che non ne sappiate nulla!” il volto di Rodrigo era così contratto da sembrare una maschera.

Da quando era venuto a sapere che, una rocchetta dopo l'altra, la Tigre aveva cominciato a mangiarsi tutti i territori del Conte Guido Guerra, il papa era diventato una bestia.

Quello che più lo infastidiva era non capire cosa significasse quella sottospecie di guerricciola tra suoi sottoposti.

Perché se la signora Contessa Sforza e il signor Conte Guerra se l'erano dimenticati, i paesi che si stavano litigando erano, in definitiva, proprietà pontificia.

E la cosa che sconcertava inoltre Rodrigo era l'apparente totale indolenza di Guerra, che se ne stava rintanato a Cesena, senza sparare nemmeno un colpo di colubrina contro la sua nemica.

Che quel pusillanime avesse delle informazioni in più? Che sapesse chi stava dietro alla mossa sconsiderata della Tigre? Che non volesse mettersi contro potenze come Firenze o Milano?

“Siete uno Sforza, ma sembrate un pescivendolo a cui hanno tagliato la lingua!” inveì Alessandro VI, alzandosi dal suo scranno e muovendo rapidi passi verso il genero, che, ammutolito, indietreggiò di qualche centimetro, come se temesse di essere preso a schiaffi da un momento all'altro.

“Non fate giochetti con me, Sforza.” sibilò Rodrigo, non appena fu abbastanza vicino da farsi sentire solo da Giovanni: “So che avete fatto il doppiogioco durante tutta la guerra tra Napoli e la Francia, ma ho soprasseduto, perché siete il marito di mia figlia.”

Il signore di Pesaro deglutì rumorosamente, mentre il papa avvicinava minaccioso il naso adunco al suo volto imperlato di sudore freddo: “Ma se anche questa volta state giocando su due tavoli contemporaneamente, sappiate che non sarò più così indulgente.”

Giovanni non riuscì più a sostenere lo sguardo rapace di Rodrigo e così chiuse gli occhi, in un atteggiamento di difesa che sarebbe risultato comico, se solo nella sala delle udienze non ci fosse stata tanta tensione da togliere anche ai porporati più ridanciani la capacità di cogliere l'ilarità del momento.

“Po... Potreste chiedere a... Al Cardinale Sansoni Riario.” si azzardò a balbettare Giovanni, cercando di scaricare da sé quel macigno.

Rodrigo sollevò un sopracciglio: “Come se non l'avessi già fatto...” ammise a malincuore, ricordando la scena patetica durante la quale il cugino della Leonessa si era quasi messo a piangere, terrorizzato, giurando disperato di non sapere nulla.

Il papa alzò le mani e lo Sforza si curvò ancora di più. Alla fine, però, Alessandro VI si limitò a dare uno sbuffetto per parte alle spalle del genero, come se volesse togliergli la polvere dall'abito.

“Vi tengo d'occhio.” concluse il papa, costringendo Giovanni a fissarlo dritto nelle pupille: “E se avete contatti con la Contessa Riario, ditele che tengo d'occhio pure lei. Ho sorvolato sulla strage che ha fatto alla morte del suo insignificante amante, ma deve stare attenta a non tirare troppo la corda. Anche se è robusta, alla fine si può spezzare.”

Lo Sforza ritornò a respirare solo quando il papa si ritrasse di mezzo metro ed esclamò, rivolgendo un gesto imperioso ai servi che attendevano in un angolo: “Trovo che faccia molto caldo, quest'oggi. Fatemi portare del vino fresco!”

 

'Questa Lionessa che sta spaventando la Romagna tucta – aveva scritto Pandolfo Malatesta – va contrastata e lo si deve far subito. Sotterriamo i nostri antichi rancori e dissapori e uniamoci contro questa belva feroce.'

Guido Guerra rilesse altre cento volte il seguito della lettera, in cui il signore di Rimini lo invitava al suo palazzo per discutere con calma il piano di contrattacco.

Quella era l'ultima cosa che il Conte voleva, ma che altro avrebbe potuto fare? La Sforza aveva attaccato i suoi confini apparentemente senza alcun timore, dispiegando un numero di soldati più che considerevole e ciò gli faceva pensare che avesse una disponibilità almeno tripla pronta a entrare in azione.

Doveva avere le spalle coperte da qualcuno, quello era chiaro. Far scoppiare un conflitto in quel momento doveva essere stata un'idea di Milano o di Firenze. O di Venezia... In fondo il Doge non stava facendo mistero di volersi espandere anche verso il centro Italia.

Magari la Tigre non aveva nemmeno deciso nulla, forse qualche potente come il Moro o Barbarigo avevano sfruttato la sua pazzia per fare di Forlì una mera pedina.

Quale che fosse la verità, la mano tesa di Pandolfo era una manna per il povero Conte Guerra, che, paralizzato dalla paura, non aveva ancora avuto il coraggio di muovere nemmeno un manipolo di cavalieri contro i soldati della Leonessa.

Intingendo in fretta la punta della penna nell'inchiostro, il signore di Cesena si risolse a rispondere al suo acerrimo nemico.

Era vero, i loro dissapori erano antichi e ormai non era più il caso di pensarci. Si trattava di cose private, che non avrebbero dovuto influenzare in alcun modo gli affari di Stato. Era da sciocchi lasciarsi conquistare dalla Tigre solo per orgoglio. Inoltre era Pandolfo quello che aveva più motivo di rancore, quindi se lui per primo era disposto a ricominciare da capo, tanto meglio, Guido non si sarebbe opposto.

'Verrò in Rimini tra due giorni – scrisse Guerra, con mano un po' tremante – e lì si deciderà come uccidere la belva selvatica che vuole mangiarci.'

 

Caterina era seduta su uno degli sgabelli della sala delle armi. Quel giorno, come le capitava spesso da quando era scesa in guerra contro Cesena, indossava abiti più adatti a una serva che non a una Contessa. Forse qualcuno, magari sua madre, avrebbe voluto riprenderla per quella scelta poco adatta al suo rango, ma l'aria bellicosa che la permeava faceva sì che nessuno osasse criticarla.

Quando la Contessa notava qualche sguardo contrariato, specie se proveniente dal castellano o da uno dei Consiglieri, doveva trattenersi a stento dalla tentazione di farsi prestare un paio di brache e indossare quelle, tanto per scandalizzarli un po' di più.

In quel momento stava sostituendo la corda a un arco ed era così assorta nel suo lavoro da sentire i passi della madre solo quando l'ebbe difronte.

Lucrezia abbassò gli occhi sulle mani della figlia, che stavano sapientemente legando una delle estremità della corda all'anima di legno e attese che fosse Caterina a dire qualcosa per prima.

Infastidita dalla sensazione di essere osservata – non a caso era andata alla sala delle armi a quell'ora, quando di norma lì non c'era nessuno – la Contessa, senza distogliere l'attenzione dell'arma che teneva ferma con le ginocchia, chiese: “Devi dirmi qualcosa?”

Al che Lucrezia scrutò la penombra della sala e, quando fu certa che non vi fosse nessun altro, disse: “Stamattina, prima dell'alba, ho visto un uomo uscire dalla tua stanza.”

Benché Caterina volesse apparire impassibile, sua madre notò un lieve fremito nelle sue dita, che stavano facendo fare l'ultimo giro alla corda: “Che ci facevi in giro per la rocca a quell'ora?” ribatté la Contessa, atona.

La madre scosse piano il capo, come a dire che quello era un dettaglio insignificante, e proseguì con il discorso che si era ripetuta nella mente mentre cercava la figlia tra le stanze umide di Ravaldino: “Che ci faceva un uomo nella tua camera, di notte?”

A quel punto Caterina sollevò un angolo della bocca e rispose, pungente: “Secondo te, cosa si fa con uomo, in piena notte, in una camera da letto?”

Lucrezia guardò impotente la figlia che rimetteva sul tavolo l'arco e prendeva una spada per farle il filo: “Hai un amante?”

La Contessa non disse nulla, iniziando a passare la pietra su un lato della lama, così sua madre la incalzò: “Caterina, hai ucciso metà della nobiltà di questa città per vendicare l'uomo che dicevi di amare e ora mi stai dicendo che hai già un nuovo amante? O è più di uno?”

Ancora una volta, la Tigre non rispose, lasciando che il rumore monotono della pietra contro l'acciaio parlasse per lei.

“Eri pazza di lui, hai rischiato di perdere tutto per lui, hai ucciso per lui. E adesso, a nemmeno tre mesi dalla sua morte, l'hai già dimenticato?” tentò Lucrezia, nella speranza di scuotere la figlia.

E ci riuscì.

Prima di potersi a controllare, Caterina scattò in piedi e puntò la punta della spada alla gola della madre: “Come puoi parlarmi così, tu?!” gridò, mentre il ferro gelido faceva accapponare la pelle di Lucrezia: “Che ne sai del tormento che provo? Come puoi giudicarmi? Proprio tu, che dicevi di amare mio padre eppure hai fatto due figli con un altro!”

La madre non accennò ad indietreggiare, né parve particolarmente spaventata dalla spada tenuta in mano dalla figlia. I suoi occhi color ghiaccio si stavano velando di lacrime, ma chiunque avrebbe capito che erano dovute solo alla rabbia e non alla paura.

“Non starai meglio portandoti a letto un uomo diverso ogni notte o facendo la guerra contro qualcuno che nemmeno conosci.” sussurrò Lucrezia, mentre la sua gola veniva sfiorata pericolosamente dalla punta della lama a ogni parola.

“E tu che ne sai?” contrattaccò la Tigre, che non sembrava intenzionata a riabbassare l'arma.

“Stai sbagliando tutto, Caterina.” la redarguì la madre, prendendo con i polpastrelli di indice e pollice il piatto della spada e spostandola da sé.

La Contessa non si oppose a quel gesto, ma il suo sguardo restò aggressivo, mentre diceva tra i denti: “Ah, sì? Sto sbagliando tutto? E che dovrei fare, invece, secondo te? Sentiamo.”

Lucrezia, che non si aspettava quella serie di domande, restò con la bocca mezza aperta, incapace di dare risposte soddisfacenti.

“Avrei dovuto cercare la protezione di mio zio?” cominciò Caterina, puntellandosi sul pomo della spada, assumendo una posa adatta a un mercenario e non a una dama: “Quella del papa? Di Firenze? Magari perfino di Venezia? Guarda che tutti loro avrebbero voluto qualcosa in cambio. E non si sarebbe trattato di un prezzo di favore, ci puoi giurare. Credi davvero che mi avrebbero aiutata per pura pietà umana? Perché sono una povera vedova con sette figli a carico? Perché sono una donna?”

A ogni parola della figlia, Lucrezia sentiva le lacrime farsi più dense dietro le ciglia, ma non voleva scoppiare a piangere e avvallare la convinzione che già albergava nell'animo di Caterina, ovvero che lei era solo una misera cortigiana, senza arte, né parte, né intelletto, né valore.

“Se hai pensato così – riprese amaramente la Contessa, rimettendosi seduta e ricominciando a lavorare il filo con la pietra – hai vissuto per cinquantacinque anni per niente. Non hai capito niente del mondo in cui viviamo. E se non ti sta bene quello che ti sto dicendo, tornatene a Milano. Vediamo se con te Ludovico sarà così accomodante come lo credi tu.”

Proprio in quel momento due armigeri fecero capolino all'ingresso e così Caterina dedicò un cenno del capo alla madre, per farla andare via: “Ho da fare. Ci vediamo a cena.”

Lucrezia avrebbe voluto ribadire alla figlia che non era d'accordo su come stava affrontando il suo dolore e il momento di crisi, ma la presenza scomoda e ingombrante dei due soldati, che avevano subito cominciato a scambiarsi battute volgari mentre cercavano delle armi, la scoraggiò e così la donna se ne andò, lasciando Caterina libera di sistemare archi, lucidare spade e rovinarsi la vita come preferiva.

 
   
 
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