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Autore: Ormhaxan    11/04/2017    3 recensioni
Scozia, XI secolo. Edith di Scozia è la prima figlia di Malcolm III e Margaret del Wessex; cresciuta secondo i precetti cattolici, a soli sei anni viene condotta, insieme a sua sorella minore Mary, presso il convento inglese di Romsay, dove sua zia materna, Christina, è badessa.
Henry di Normandia è il quartogenito di William il Conquistatore, un giovane uomo ambizioso che, pur di arrivare al trono lasciato vuoto dopo la prematura scomparsa di suo fratello William II, è disposto a tutto.
Quando la sua pretesa al trono d'Inghilterra vacillerà, sarà proprio Edith, discendente dei sovrani sassoni e del valoroso Alfredo il Grande, a salvaguardare la corona di Henry attraverso il sacro vincolo del matrimonio.
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Avviso: Il capitolo che state per leggere contiene scene delicate, a tratti violente, non adatte ai più giovani.






 
Domfront, Normandia – Parigi, Île-de-France, 1092


 



Il giovane uomo venne trascinato nel cortile del castello di Domfront con una brutalità che poche volte Sybilla aveva visto: mani legate con una corda spessa che gli aveva logorato i polsi, ad una fune legata alla sella dell’imponente stallone da guerra del Conte di Ponthieu, portava in dosso delle vesti un tempo eleganti e aveva il viso scarno, pallido, incorniciato da capelli incrostati di fango appiccicati sulla fronte e sugli zigomi pronunciati.
Si diceva fosse un cavaliere al servizio dell’anziano lord di Courcì, Lord Hugh, il quale da sempre era in lotta con l’avaro de Belesme che, più di una volta, aveva cercato di conquistare con la forza i territori vicini e schiacciare i suoi pari con l’aiuto di subdoli stratagemmi o dello stesso Duca di Normandia, che molto era in debito con lui e che, in quel momento, stava smontando dal suo stallone bianco dopo aver fatto il suo regale ingresso, attraverso il ponte levatoio sospeso su di un largo fossato, nel cortile.
Era stato accusato, come Sybilla scoprì poche ore dopo, quando fu eretta in pubblica piazza un patibolo di solido degno, di aver complottato con il suo padrone, il cui nome aveva rifiutato di pronunciare nonostante le percosse e le lievi torture già subite – gli mancava un orecchio mozzato di netto e un paio di denti erano stati spezzati o fatti saltare con dei guanti di ferro — e per questo motivo era stato messo a morte.

«Chi ti ha mandato? Ve lo chiedo un’ultima volta».
La voce di Robert de Belèsme era algida, incolore, priva di ogni sentimento. La sua era una frase di circostanza più che una misericordiosa, poiché tutti sapevano che non c’era nulla che il subdolo conte amasse di più che vedere i suoi nemici piegati e spezzati.
L’uomo mugugnò e scosse la testa nonostante tutto, nonostante l’occhio che gli era stato cavato poco dopo l’arrivo nella città, nonostante le ferite e tutto il resto: non avrebbe detto nulla, oramai lo avevano capito tutti, quindi non ci fu altro da fare che procedere.
Sybilla osservò senza davvero guardare mentre lo trascinavano sulla forca, azzardò un’occhiata in direzione del Duca di Normandia, verso il Conte e, infine, verso Agnes, che nascondeva sotto un candido velo gli ultimi aloni giallastri delle percosse che suo marito le aveva inflitto giorni prima.
Tutto ciò sembrava l’inferno, si ritrovò a pensare con timore, un incubo dal quale nessuno l’avrebbe svegliata: il suo futuro era in bilico, avrebbe potuto ritrovarsi al posto di quel giovane da un giorno all’altro, senza un motivo preciso.
Lord Robert era pazzo, anche se non abbastanza pazzo da andar contro al suo signore, al Duca che stravedeva per lei. Ma per quanto ancora?
Mentre il nodo scorsoio veniva fatto passare attorno al lungo collo del condannato, nella mente di Sybilla riecheggiarono gli avvertimenti di Agnes: «Siete una donna forte, ma pur sempre una donna».
Una donna, una lady in esilio, dimenticata dalla sua famiglia e dall’uomo che amava, che poteva contare solo su se stessa, sulle sue arti, sul suo coraggio e sul suo spirito di sopravvivenza: non avrebbe permesso a nessuno di torcere un capello ai suoi figli, di metterli in pericolo; avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerli al sicuro, persino concedersi al duca di Normandia, diventare la sua amante.
La botola della forca venne aperta con un rumore sordo, muovendo l’aria fredda del tardo pomeriggio e tutto ciò che per minuti riecheggiò nel cortile fu il rumore di un collo che si spezzava di netto e quello di molti respiri che venivano trattenuti.

 


**



Il banchetto che fu organizzato poche ore dopo la sentenza di morte era fastoso, ricco di pietanze succulente, cucinate da cuochi esperti; sulla tavola, nei pregiati calici, veniva versato vino dal colore scarlatto, di un colore talmente intenso che ricordò a Sybilla il sangue incrostato sul viso e sulla tunica stracciata del ragazzo giustiziato quel pomeriggio.
Un conato di vomito le fece contrarre lo stomaco, la sua già poca appetenza svanì e persino il vino le sembrò imbevibile: non che quella fosse stata la prima messa a morte che avesse mai visto, suo padre aveva pensato a metterla davanti alla morte all’età di dodici anni quando, insieme ai suoi fratelli, fu convocata nel cortile della dimora in cui era nata per assistere alla decapitazione di un ladro e un omicida.
Un uomo che meritava la morte, non un giovane innocente.
Neanche quell’uomo, seppur crudele e con mani lorde del sangue di donne e bambini, aveva subito quello che aveva subito quel giovane, delle torture tanto atroci e barbariche da far inorridire anche un uomo nel pieno degli anni.
«Spero voi abbiate pensato alle ultime parole che ci siamo scambiati. — sussurrò Robert di Normandia al suo orecchio, attraverso il velo turchese appuntato tra i suoi capelli raccolti — Sono oramai passati mesi da quel giorno, voi avete avuto un secondo figlio e io sono stato impegnato in urgenti e delicate questioni, ma non per questo non ho pensato di tanto in tanto a voi e alla risposta che mi avreste dato».
«Preferirei non parlarne qui». disse asciutta Sybilla, continuando a guardare verso il fondo della sala grande, i ricami del pregato arazzo di cui ignorava la provenienza.
«Capisco. — Robert accennò un sorriso — Perché non ci ritiriamo nelle mie stanze, così da avere l’intimità che necessitate».
Le tese una mano, un braccio che, suo malgrado, non avrebbe potuto rifiutare e, senza troppa fretta, abbandonò il banchetto al fianco dell’imponente signore di Normandia, catturando lo sguardo di ogni commensale. 


Le stanze di Robert erano riccamente addobbate, arredate con gusto: i mobili erano di ciliegio scuro, intagliati dai migliori artigiani della Normandia e sul maestoso letto a baldacchino posto al centro svettavano pesanti tendaggi color porpora, coperte di lino e morbide pellicce appartenuti a fieri animali.
Un imponente camino fatto di pietra, al cui interno bruciava da ore della legna, riscaldava le pareti in pietra nell’angolo che volgeva a Ovest, illuminando la stanza con fiammelle scarlatte, in un gioco di vividi arancioni e gialli. Altre candele bruciavano qua e là, senza però annullare completamente la penombra che ammantava gli angoli della stanza, alcuni punti vicino alla finestra da cui si potevano vedere i campi e il verdeggiante bosco poco lontano.
«Mia bellissima Sybilla». Robert posò entrambe le mani sulle spalle della giovane donna, facendola lentamente girare.
Benché non fosse molto alto, il primogenito del Conquistatore aveva un portamento fiero, dei vivaci occhi chiari che avevano ammirato molteplici angoli di mondo, visi di fanciulle che aveva bramato e avuto senza troppa fatica; i suoi capelli, leggermente ingrigiti all’altezza delle tempie, erano ricci come quelli di Henry, ma di alcuni toni più chiari; le sue mani, ampie e callose, erano molto più ruvide del minore, molto meno delicate.
«Ditemi, siete contenta? Avete tutto ciò che vi occorre per voi e per i vostri figli?»
«Come posso esserlo quando sono un ostaggio condannato a vagare come un fantasma per questi freddi corridoi, senza mai poter lasciare questo castello, la corte del sadico lord che lo abita?»
«Robert ha dei bruschi modi ed è poco incline al perdono, questo lo concedo, ma è anche un leale suddito, uno dei migliori che ho e mi fido ciecamente di lui. – disse Robert, assottigliando le labbra — Inoltre, i suoi ordini arrivano direttamente da me, e sebbene non ritengo che sia ancora giunto il tempo di farvi lasciare questo castello, sono anche certo che nessun male mai capiterà a voi o ai vostri preziosi figli».
«Non fino a quando non farò qualcosa di stupido o mi rifiuterò di giacere con voi».
Le labbra di Robert si incresparono in un ghigno furbo: «Siete sempre stata perspicace, Sybilla, alle volte credo che siate anche più intelligente del mio sciocco fratello. Io vi desidero, farei qualsiasi cosa pur di avervi, ma di certo non ho alcun desiderio nel trascinavi di forza su quel letto alle vostre spalle, denudarvi delle vostre belle vesti e prendervi con la forza. Non sono un barbaro».
«Alle volte, spesso, mi chiedo se la vostra bramosia non derivi solo ed esclusivamente dal fatto che io sia l’amante di vostro fratello. — confessò senza timore — Se, tramite me, non state cercando di dimostrare qualcosa a Henry, agli altri, a voi stesso».
«In questo caso non dovete temere: mi stancherò di voi non appena vi avrò avuta».

Sybilla indietreggiò fino ai piedi del letto a baldacchino, i suoi passi specchi di quelli di Robert che, senza perdere altro tempo, le tolse il velo dal capo e iniziò a slacciare i lacci del suo abito, delle sue sopratunica riccamente decorata e dalla quale si poteva intravedere, nella parte superiore, la bianca tunica.
Percependo i suoi capelli scuri ricadere in onde sulle sue spalle, Sybilla chiuse gli occhi e contrasse il viso, preparandosi al momento in cui sarebbe rimasta con solo la tunica da notte, la tunica attraverso la quale Robert avrebbe potuto ammirare ogni suo centimetro di pelle, davanti all’uomo che era la causa della sua infelicità.
Le mani del normanno erano fredde, erano ruvide a contatto con la pelle liscia e lattiginosa di lei, bramose mentre si spostavano sul suo corpo, la denudavano pezzo per pezzo: Sybilla trattenne il fiato quando, con un gesto brusco, la sua tunica venne abbassata e lei rimase totalmente nuda davanti a lui, all’uomo che adesso la stava osservando con lussuria, impaziente di mettere le mani sui suoi fianchi morbidi, sui seni divenuti abbondanti dopo due parti, sul suo inguine coperto da una morbida peluria scura.
Un groppo in gola la fece sussultare quando, con una dolcezza inaspettata, Robert le prese il viso tra le sue mani, costringendola ad alzare lo sguardo fino a quel momento tenuto basso: le labbra screpolate dell’uomo si schiantarono sulle sue con la forza di una tempesta, la sua lingua si insinuò nella sua bocca come il gelido vento tra le fessure di una porta e le sue braccia la strinsero forte, come a volerla marchiare a fuoco.
Niente di tutto ciò che stava accadendo era paragonabile e alle emozioni che provava quando stava con Henry, neanche la carezza più lieve alleggeriva il senso di colpa, il desiderio di piangere, urlare, ribellarsi.
Si impose di non pensare, di non pensare al presente, a ciò che stava accadendo, ma ai giorni che erano stati, alle lunghe notti trascorse con Henry, alle albe che avevano assistito al loro amore, testimoni della passione che da sempre contraddistingueva entrambi; pensò ai suoi figli, che dormivano tranquilli nell’ala opposta del castello, a come quel sacrificio li avrebbe tenuti al sicuro.
Sussultò e strinse le labbra fino quasi a farsele sanguinare quando Robert iniziò a baciarla ovunque, a mordere i suoi seni, i suoi fianchi, il suo collo; era vorace, egoista, non aveva considerazione di lei, di ciò che provava, dei suoi punti più sensibili – Henry avrebbe saputo come baciarla, l’avrebbe fatta ridere sfiorando con la punta del naso il suo collo, rabbrividire baciandola lascivamente dietro l’orecchio sinistro.
Henry. Henry. Henry. Solo e sempre Henry.

«No. No, io... — mugugnò, scuotendo il capo e i riccioli neri — Henry…» sussurrò in un singhiozzo, percependo le lacrime bagnarle il viso.
In quel momento tutto si arrestò: Robert la fissò con astio, con odio, avendo udito chiaramente quella parola, quel singolo nome che, più di ogni altro, era bandito.
Nei suoi occhi bruciò odio, ripugnanza, un disgusto così profondo da far scaturire in lui una reazione bestiale: una mano si chiuse attorno al collo di Sybilla, stringendo forte, sempre più forte, così tanto da farle mancare il respiro e temere il peggio.
«Meretrice…» sussurrò a pochi centimetro dal suo viso paonazzo, continuando a stringere.
«Avresti potuto avere me, il duca di Normandia; avresti potuto avere un futuro roseo al mio fianco, così come avresti potuto dare ai tuoi figli un titolo nobiliare, un matrimonio vantaggioso che io stesso avrei combinato. E invece…»
La scaraventò a terra, violentemente, poi la prese per i capelli e la trascinò per tutta la stanza, ignorando le sue proteste, le sue urla, le sue suppliche: il desiderio era scemato del tutto, ogni sua pulsione per lei era morta, sembrava un ricordo lontano. La sua pazienza  e la sua gentilezza si erano esaurite, ogni suo buon proposito nei confronti della meretrice amante di suo fratello si era estinto come una candela oramai consumata.
«Sparite dalla mia vista, non provate a farvi rivedere oppure la prossima testa che penzolerà dalla forca di questo castello sarà la vostra.»
Continuandola a trascinare per i capelli, Robert aprì la pesante porta di legno, e, incurante della nudità della dama, la spinse fuori dalla sua stanza, sotto gli occhi impassibili di due guardie poco lontane.
«Vi prego, Milord, pietà! – esclamò in lacrime — Concedetemi almeno una tunica».
«Pietà, dite? – Robert rise, poi afferrò la tunica di Sybilla, lasciata poco lontana dalla porta e, dopo averla strappata in più punti, la ridiede divertito alla legittima proprietaria — Ecco la mia pietà, Milady, la mia misericordia».


La pesante porta si richiuse con un tonfo davanti a lei, che fu costretta a ritornare quasi completamente nuda verso le sue stanze, sottoporsi allo sguardo spezzante, divertito e irrisorio di tutti coloro che incontrava nella penombra delle notte e che assistevano impassibili a quel misero spettacolo.
Sybilla non pianse mai durante il tragitto, ferita nell’orgoglio ma non piegata, senza sapere che altri avevano assistito a quell’umiliazione, persone che presto si sarebbero ridestate dal loro torpore forzato, avrebbero fatto sentire la propria voce e cessato quel dominio fatto di violenza e ingiustizie.


 


**





Venti giorni.
Tanto c’era voluto all’esercito di Robert e Rufus per sconfiggere il suo, mettere in ginocchio ogni singolo uomo rinchiuso dietro la fortezza tramutata in prigione di Mont-Saint-Michel, per piegare il suo animo e avere la sua incondizionata resa.
Sebbene i suoi fratelli maggiori avevano concesso, a lui come ai suoi pochi uomini rimasti fedeli in quei giorni bui, un sicuro lasciapassare verso le terre sotto il dominio dei Capetingi, verso la Véxin Français, lasciandogli almeno l’onore delle armi, un briciolo di amor proprio, ancora adesso, a distanza di quasi sei mesi, la sconfitta bruciava al centro del suo petto come una ferita ancora aperta e sanguinante.
Anche quella notte trascorsa alla corte di Filippo, come molte delle altre passate, non aveva trovato ristoro, un sonno profondo e tranquillo, capace di alleviare tanto il suo corpo quanto la sua mente.
Filippo continuava ad ignorarlo, così come lo ignoravano i nobili e, suo malgrado, Henry non poteva dar loro torto: con solo una manciata di cavalieri, un clerico e tre scudieri1 al suo seguito, quale signore lo avrebbe mai preso seriamente? Nessuno.
Inoltre, nonostante le richieste di soldi per assoldare un modesto esercito, a cui si sarebbero poi aggiunti gli uomini che lo attendevano fedeli in Normandia, nessuno avrebbe mai acconsentito a tale foraggio senza una reale garanzia di vittoria.
Una vittoria contro chi, poi e per fare cosa?
Se solo avesse avuto il supporto di qualche nobile, la certezza di poter conquistare con facilità qualche castello, magari con l’aiuto da parte degli stessi abitanti…

«Milord?» uno dei suoi scudieri aprì con timore la porta. Henry non si era neanche accorto che qualcuno aveva bussato più volte, chiedendo il permesso di entrare e fu sorpreso quando si vide poco distante il volto equino del giovane.
«Cosa vuoi?» chiese, seccato.
«Un uomo chiede di parlare con voi. — rispose — Sostiene di essere un amico, di avere notizie preziose per voi, di essere giunto da lontano solo per vedervi».
«Lontano, dice? E dimmi, da dove afferma di venire costui?»
«Da Domfront, Milord. Afferma di venire da Domfront».


 


*
 


1. Nel suo "The Ecclesiastical History of England and Normandy" Orderico Vitale scrive che il seguito di Henry all'epoca dell'esilio era composto di tali persone.
  
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