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Autore: Adeia Di Elferas    27/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Ottaviano Manfredi, i lunghi capelli al vento e l'elmo sotto al braccio, montava un immenso cavallo nero da guerra e al suo fianco stava Vincenzo Naldi, con indosso un'armatura adornata da scaglie d'oro.

Faenza era sempre più vicina e così l'esule, ancora non del tutto persuaso dalle promesse dei cugini Naldi, si decise a dare il via definitivo alla sua riconquista.

Si infilò l'elmo con un colpo secco, abbassò la pesante celata, e poi fece segno a quelli che lo seguivano – ovvero quasi tutti i valdilamonesi – e così questi cominciarono a intonare un unico motteggio cadenzato e ritmico, quasi simile al monotono e mortale rullare di una schiera di tamburi da guerra: “Ottaviano! Ottaviano! Ottaviano!”

Se i Naldi avevano fatto bene il loro lavoro, nel sentire quel grido, i partigiani del Manfredi esiliato si sarebbero sollevati all'istante contro Astorre e Castagnino, aprendo le porte della città al loro legittimo signore e imbracciando le armi per portarlo in trionfo fino al palazzo.

“Avanti!” ordinò Ottaviano Manfredi, alzando verso il cielo collerico la spada e spronando il suo destriero.

Avanzò con decisione, seguito da Vincenzo Naldi e da una manciata di altri uomini a cavallo. I fanti seguivano in corsa, il grido di guerra sempre ben distinguibile, per quanto ormai quasi coperto dal rumore di ferraglia in movimento.

La polvere spessa si sollevava dal terreno secco, mentre gli uomini di Ottaviano guadagnavano metri, e il vento freddo che spirava dalla città riduceva la loro visibilità.

La ridusse così tanto che nessuno si accorse dei soldati che li attendevano appena fuori dalle mura faentine.

“All'attacco!” risuonarono le urla di più uomini e solo allora Ottaviano Manfredi comprese di essere stato anticipato su tutta la linea.

Lanciati alla carica com'erano, i ribelli non riuscirono a frenare per tempo la corsa, mentre dalle porte di Faenza arrivavano tre colonne compatte a gran velocità, due davanti e una dietro, come riserva per un eventuale secondo slancio.

L'impatto fu terribile e violentissimo e per parecchi minuti fu impossibile capire chi stesse prevalendo.

Ottaviano, mentre si riprendeva da un colpo alla testa che gli aveva fatto saltar via la celata dell'elmo, in un lampo di lucidità, riconobbe gli stendardi portati da almeno due delle tre colonne.

Il primo era quello di Venezia, inconfondibile con il leone di San Marco che incombeva con cupezza portando tra le zampe le parole di Dio. L'altro era il trinciato dentato di oro e rosso dei Bentivoglio di Bologna. Il terzo simbolo era troppo distante, per il momento. Gli armigeri che lo seguivano restavano nelle retrovie, colpendo duro quei pochi valdilamonesi che riuscivano a sfondare le linee fino a loro.

“Dove diavolo sono i vostri dannati partigiani?!” ringhiò Manfredi quando, nella confusione della battaglia, il suo cavallo si trovò a sbattere contro quello di Vincenzo Naldi.

Questi, che aveva già perso lo scudo, voltò il viso verso la voce di Ottaviano, facendo molto fatica a vederlo, per via della strettissima celata abbassata, che gli permetteva a stento di scorgere un filo d'orizzonte, inficiato, tra l'altro, dalla polvere portata dal vento e sollevata dagli zoccoli dei cavalli e dai piedi pesanti dei soldati.

“Vi avevo detto di non scrivere a vostro cugino! Avete voluto fare di testa vostra! Ed ecco il risultato!” contrattaccò Naldi, tenendo lontano un bolognese con la spada lunga, ma attirandosi subito contro due veneziani: “Siete stato uno sciocco! Ci hanno scoperti!”

Ottaviano Manfredi lasciò Vincenzo al suo destino e, infilzando in un occhio un nemico che aveva cercato di squarciare il ventre del suo cavallo, si levò con rabbia l'elmo, gettandolo in terra, e diede un'occhiata critica al campo, mentre i suoi capelli impastati di sudore venivano scompigliati dal vento.

La battaglia era persa, non c'era altro da dire. Anche uno stoltol'avrebbe capito. Loro erano troppo pochi. Era una disfatta. Il modo peggiore in assoluto per dar fondo alle ultime risorse che erano in suo possesso. Aveva fatto troppo affidamento sulle promesse dei Naldi e ora non c'era altro da fare se non chiamare la ritirata.

Un'occhiata tiepida di sole fece brillare uno degli stendardi delle retrovie e finalmente Ottaviano Manfredi scoprì chi era il terzo nemico da cui doveva guardarsi. Aveva creduto che si trattasse dell'esercito faentino – che, invece, si era chiaramente trattenuto in città per difenderla in caso i valdilamonesi fossero riusciti a espugnare le mura – ma invece si trovò a rimirare il biscione degli Sforza accostato alla rosa d'oro dei Riario.

“Strega...” sussurrò tra sé l'esule cugino di Astorre, mentre tirava le redini e induceva il suo cavallo a invertire la rotta.

Achille Tiberti estrasse la spada dal corpo senza vita di uno dei ribelli, ma quando si accorse che Manfredi stava radunando i suoi per scappare, non si trattenne più.

Tranciò di netto una testa a un altro nemico e il sangue caldo che schizzò dal collo reciso del malcapitato gli sporcò la faccia. L'odore ferrigno e rovente lo accese ancora di più e così la sua mente lavorò in fretta per trovare il modo di soddisfare appieno le sue voglie.

Aveva tenuto la seconda linea, come la Contessa gli aveva chiesto di fare, per contenere le perdite e poter sfruttare il momento buono e presentarsi al tavolo dei vincitori con il minimo sforzo. Però la sua indole lo stava portando a peccare di avidità. Voleva la vittoria per sé, più ancora che per la Contessa. Voleva che tutti dessero a lui il merito della sconfitta di Ottaviano Manfredi.

Così, afferrando con maestria per i finimenti un cavallo imbizzarrito e senza più fantino che gli stava passando al fianco, Tiberti vi saltò in groppa e, gridando con un pazzo, mentre il sangue delle sue vittime gli colava sulle guance fino alle labbra, immergendolo nel gusto ferale della guerra, chiamò a sé i suoi uomini.

Una volta recuperata una formazione discreta, il forlivese sperono con furore i fianchi della sua bestia e i suoi lo seguirono senza nemmeno pensarci, con completa fiducia nel loro comandante.

I valdilamonesi in rotta erano stremati e la loro colonna era spezzettata. Emulando in modo egregio i germani che avevano spazzato via le legioni romane nella clades variana, i forlivesi li inseguirono fino nel primo bosco, raggiungendoli uno dopo l'altro e uccidendoli pressoché tutti.

Arrivarono fino a Brisighella e Achille Tiberti, rendendosi conto con frustrazione di aver perso di vista tanto Vincenzo Naldi, quanto Ottaviano Manfredi, diede ordine ai suoi di mettere a ferro e fuoco le case dei ribelli, in particolare, quella di Naldi.

Mentre il paese si illuminava di roghi e di pianti disperati, il comandante dei forlivesi si andò a sedere su una pietra, lontano dalla strada principale e, senza più fiato in corpo per il lungo inseguimento, recuperò dalla cinta uno straccio e se lo passò sul viso, riuscendo a togliersi di dosso solo in parte l'odore della morte.

 

“Allora?” Caterina era volata fuori dalla rocca, non appena aveva visto arrivare uno dei suoi soldati, ancora con addosso l'armatura, insanguinato e impolverato.

Un simile arrivo precipitoso poteva voler dire solo due cose. O una grande vittoria o una colossale sconfitta.

“Ottaviano Manfredi ha attaccato Faenza – riportò l'uomo, mentre Luffo Numai, l'Oliva e Mongardini raggiungevano la Contessa sul ponte levatoio – ma è stato respinto.”

“Chi ha preso parte all'azione?” chiese subito la donna, senza lasciargli il tempo di aggiungere altro di propria iniziativa.

“I soldati di Venezia e dei Bentivoglio. Circa duecento per parte.” rispose il soldato.

La Tigre si accigliò, imprimendo una linea dura alle sua labbra, mentre chiedeva: “E i nostri?”

“Siamo rimasti indietro, all'inizio – spiegò il militare, tenendo gli occhi fissi sulla sua signora, ignorando i mezzi commenti che si stavano alzando tra i suoi consiglieri – come da ordini, ma alla fine, quando il Manfredi è scappato, il comandante Tiberti ha voluto inseguirlo fino a Brisighella.”

“E..?” lo incoraggiò Caterina, dato che il soldato sembrava voler chiudere in quel modo brusco il discorso.

Deglutendo rumorosamente, l'uomo si massaggiò un momento il mento impolverato con il dorso della mano e concluse: “Manfredi era scappato, ma il comandante ha fatto radere al suole le case dei Naldi, che lo avevano ospitato.”

“Va bene.” annuì Caterina, appoggiando una mano sulla spalla del soldato: “Ora sistematevi a dovere, più tardi voglio sapere con esattezza di tutte le fasi della battaglia. Andate dal castellano, vi dirà lui dove potrete trovare vestiti puliti, dell'acqua e un po' di cibo.”

“Grazie, mia signora.” rispose egli, avviandosi già verso l'interno della rocca.

“Non spettava a Tiberti, punire a quel modo i Naldi per il loro tradimento ai danni di Faenza. Che gesto avventato...” sbuffò Numai, scuotendo la testa, i canuti capelli un po' smossi dal vento freddo che spirava senza sosta da ore.

Caterina sollevò il mento, e, rivolgendosi al suo Consigliere, commentò: “Tiberti ha fatto quello che avrei fatto anche io.”

A quelle parole, Luffo non poté far altro che accennare un inchino e, seguito dall'Oliva, rientrò nella rocca, per tornare ai suoi impegni burocratici.

Mongardini, rimasto alla presenza della Contessa, controllò con un rapido sguardo chi fossero le due guardie in quel momento ai fianchi del portone. Appurato che si trattava di due soldati discreti, ma non particolarmente acuti, si sentì libero di parlare apertamente.

“Tiberti non ha esagerato, secondo me.” disse il Capitano, gli occhietti rivolti all'orizzonte un po' grigio di Forlì, che in quei giorni di gelo sembrava un unico camino fumante: “Ma non è stato all'altezza del suo compito. Non doveva lasciar scappare Ottaviano Manfredi. Così facendo, la minaccia tornerà, prima o poi.”

“Non me ne importa un accidenti di Ottaviano Manfredi.” mise in chiaro Caterina, voltandosi verso l'uomo e inducendolo a guardarla: “Le beghe interne tra lui e suo cugino sono solo chiacchiere da monaci.”

Mongardini, che aveva creduto di leggere nel volto della sua signora l'inquietudine di chi non si sente al sicuro, si era arrogato la capacità di comprendere a cosa fosse legata, ed evidentemente aveva sbagliato, adducendola alla fuga del Manfredi.

“E allora che cosa..?” iniziò a chiedere Mongardini.

La Tigre, però, non aveva alcuna intenzione di discutere di argomenti del genere con un semplice Capitano, per altro uomo dalla dubbia morale e dallo spiccato senso per la crudeltà.

Ci voleva un politico, un diplomatico, qualcuno che potesse consigliarla basandosi su una profonda conoscenza degli uomini e delle loro leggi non scritte.

“Dite al mio cancelliere di rimandare il Consiglio degli Anziani a domani. Adesso ho da fare.” fu l'unica risposta che Mongardini ottenne.

L'uomo, un po' infastidito per quel repentino cambio di discorso da parte della Contessa, si impose di restare disteso e assicurò che avrebbe riferito a Cardella le volontà della sua signora.

A quel punto Caterina si congedò da lui e, senza badare al freddo che le pungeva le spalle, non pensò nemmeno di tornare nella rocca per prendersi qualcosa di pesante con cui coprirsi e andò alla barberia di Andrea Bernardi, sperando che il suo vecchio amico avesse qualche buon consiglio da darle.

 

Pandolfo Malatesta teneva le braccia incrociate sul petto, mentre misurava a lunghi passi nervosi la sua stanza.

Improvvisamente tutto quanto gli dava fastidio, dal calore del camino, alla condensa che copriva la finestra, all'odore di stantio che mandavano le cortine, finanche al tanfo di lavanda che sua moglie si ostinava a chiamare 'profumo'.

Una sensazione inveterata di freddo lo aveva preso alla base del collo nel momento stesso in cui la notizia era arrivata al suo orecchio, ovattata e letale, come il morso di un serpente piccolo, ma velenosissimo.

Già il fatto che nessuno si fosse preso il disturbo di andare a riferirglielo di persona, o almeno di scrivergli due righe, la diceva lunga sulla sua situazione.

I capelli lunghi e untuosi continuavano a scivolargli davanti agli occhi ogni volta che cambiava bruscamente verso di marcia, e, dopo una decina di volte, il signore di Rimini rinunciò con uno sbuffo al futile gesto di rimetterli in ordine.

Violante Bentivoglio, che lui stesso aveva spedito nelle cucine come l'ultima delle serve, era finalmente tornata con il vino che il Pandolfaccio aveva chiesto.

Appena si trovò davanti la caraffa e il calice, l'uomo non ebbe dubbi e accantonò il bicchiere, iniziando a bere a collo dalla brocca.

“Perché fate così?” chiese Violante, il mento sfuggente tanto retratto da sembrare inesistente, mentre prendeva un atteggiamento stolido.

“Stupida donna!” sbottò Pandolfo, sbrodolandosi con il vino bianco tutto il colletto del giaccotto di seta: “Ma non lo capisci? Venezia non si fida più di me!”

La Bentivoglio sbatté due volte le palpebre e restò in silenzio, apparentemente confusa da quella dichiarazione.

Pandolfo finì il vino con due lunghe sorsate e poi, avvicinandosi a lei, le spiegò con il tono minaccioso di un insegnante che si trova difronte un alunno particolarmente ottuso: “Giacomaccio da Venezia sta per entrare a Ravenna con ottocento stradiotti. Passerà la città senza problemi e poi marcerà su Cesena, che è nella nebbia di una guerra di successione che non farà altro che spianare la strada al suo passaggio. A quel punto, per rimettermi in riga, Venezia non dovrà fare altro che avanzare sul mio Stato. Al Doge dà fastidio la libertà che mi sto prendendo. Allearmi con la Sforza... Per i miei amici veneziani la mia iniziativa è solo un rischio. Se facessi quadrato con lei, loro non riuscirebbero più a prendere piede qui in Romagna. Solo che mi chiedo come facciano ad aver scoperto i miei maneggi segreti con la Tigre...”

Violante, che stupida in realtà non era, comprese fino in fondo anche la più recondita sfumatura del monologo del Malatesta e venne tradita da un lampo di allarme che le attraversò gli occhi.

Il marito, che tutto accettava da lei, fuorché il sentirsene gabbato, si erse in tutta la sua altezza e la sovrastò, gridando con l'alito che puzzava di vino: “Sei stata tu?!”

La donna si affrettò a mettersi a piagnucolare, nascondendosi il viso con le braccia, ma il bere aveva tolto a Pandolfo anche quei pochi freni che la sua mente gli imponeva e così l'uomo la colpì con forza due, tre, dieci volte, fino a farla cadere in terra.

“Non sono stata io!” si difese Violante, in lacrime, incapace di parare i colpi furiosi di Pandolfo.

Afferrandola per entrambi i polsi e costringendola a rimettersi in piedi, il Malatesta se la mise davanti e le domandò, sollevando il sottile labbro superiore e mettendo in mostra i denti: “A Faenza gli uomini di tuo padre hanno combattuto al fianco di quelli del Doge. È una coincidenza?”

Violante, tremando, trovò la forza d'animo di schiarirsi la voce e rispondere: “Erano anche al fianco di quelli della Sforza. Anche quella era una coincidenza?”

Impantanato nei ragionamenti che quella semplice costatazione aveva aperto nella sua mente, il Pandolfaccio lasciò di colpo la moglie, sgranando gli occhi.

Violante si massaggiò i polsi e, dopo un momento di impasse, sbottò: “È quel che ti meriti per esserti messo in accordi con quell'etera della Sforza.” e poi si girò e fece per lasciare la stanza del marito.

Il Malatesta, però, non aveva intenzione di permetterle di andarsene a quel modo. La riafferrò per il vestito, con tanta forza da strapparglielo.

La Bentivoglio restò sconvolta da quel gesto, ma quando, sull'onda del coraggio che l'aveva animata poco prima, provò a dire qualcosa per rimproverare il marito, l'uomo la tirò a sé e, dopo averla baciata contro la sua volontà, le fece a brandelli anche il resto dell'abito e la buttò con violenza sul letto.

Benché la puzza della lavanda ancora gli stesse pizzicando fastidiosamente il naso, Pandolfo si prese quello che credeva suo di diritto con la forza ed ebbe anche la faccia di aggiungere: “Così impari a dire quello che pensi quando sei in mia presenza.”

 

Caterina era appena tornata alla rocca, dopo un intero pomeriggio passato nel retrobottega del Novacula – che per l'occasione aveva chiuso la barberia – a discutere sui motivi di una presenza così attiva dei veneziani a Faenza.

La Contessa sapeva da tempo che Castagnino stava prendendo accordi più o meno confidenziali con il Doge, ma non credeva che Venezia avrebbe davvero preso parte alla difesa della città.

Che la Serenissima avesse mandato degli uomini ci stava, nel clima di distensione con Faenza, ma la Tigre non era convinta delle buone intenzioni dei veneziani. Quelli non erano tipi da fare qualcosa senza chiedere qualcosa di molto prezioso in cambio.

Cosa aveva promesso loro Castagnino per portarli a farsi paladini di Astorre Manfredi con una tale solerzia?

Lucrezia teneva in mano due lettere e quando intravide la figlia in fondo alle scale, la chiamò e la raggiunse, facendo i gradini a una velocità che poco si addiceva alle sue giunture scricchiolanti.

“C'è un messaggio per te, da Imola. È arrivato mentre eri fuori, così l'ho presa io.” spiegò la donna, porgendole la missiva e tenendo l'altra gelosamente per sé.

Caterina afferrò la lettera destinata a lei: “L'hai già letta?”

Lucrezia scosse il capo: “Non mi sarei mai permessa.”, ma il suo sguardò continuava a cadere sul biglietto chiuso, come se si aspettasse che la figlia l'aprisse e lo leggesse ad alta voce difronte a lei.

La Tigre, cogliendo quella curiosità che le pareva fuori luogo, mise la missiva nel tascone della gonna da lavoro che indossava quel giorno e chiese: “E l'altra lettera?”

La madre tirò la bocca in un sorriso un po' storto, spiegando: “È di tua sorella Bianca. Credo che abbia approfittato della staffetta di Tommaso per scrivere anche a me...”

Con un cenno di comprensione, Caterina si apprestò a raggiungere la sua stanza, per leggere in santa pace, senonché Lucrezia la fermò, dicendo, con un tono casuale: “Mi piacerebbe tornare a Imola per Natale. Bianca mi chiede di vederci, perché vuole parlarmi di una cosa...”

La Tigre strinse il morso e, guardando la madre da sopra la spalla, disse: “Non ho nulla in contrario. Per me, vai pure, ma sappi che a Faenza c'è la guerra e nemmeno i boschi lontani dalla strada sono sicuri. Se dovessero riconoscerti e rapirti o farti qualcosa, non avrei né i mezzi né il tempo per venire in tuo aiuto.”

La Landriani, che aveva sperato in un atteggiamento più conciliante da parte della figlia, magari addirittura la proposta di una scorta fino a Imola, chinò il capo e, stringendo al petto la lettera di Bianca come una reliquia, sussurrò: “Aspetterò la fine della guerra, allora.”

Caterina ricominciò a camminare, con un'espirazione profonda e non si fermò più finché non fu nella sua camera.

Aprì con una rabbia che lei stessa non capiva la lettera di Tommaso Feo e, prima di arrivare all'ultima frase, sentì il bisogno di sedersi sul letto.

'Giacomaccio, il condottiero di Venezia, ha condotto ottocento stradiotti a Ravenna e si crede che proseguirà presto verso Cesena e da lì potrebbe decidere di colpire o noi o Rimini.' aveva scritto il Governatore di Imola.

La Tigre chiuse gli occhi, maledicendo la sua cattiva sorte e la sua mancanza di prudenza. Aveva pensato ai pericoli di Milano, di Roma, di Firenze, perfino di Napoli, benché i partenopei fossero troppo impegnati con le loro diatribe interne, ma non di Venezia.

Anche se aveva valutato il potere del Doge come un rischio, non aveva creduto possibile che si sarebbe spinto tanto oltre.

Il papa avrebbe reagito, forse, vedendosi invadere così dalla Serenissima, ma intanto Caterina poteva venir spazzata via come una foglia secca. Ottocento stradiotti valevano come duemila fanti scelti e quella poteva essere solo un'avanguardia.

Sarebbe stata in grado di anticiparli, e marciare su Cesena, ma che speranze poteva avere di vincere, in caso di assedio a Imola o a Forlì, se avesse disperso le forze cercando di recuperare una città dilaniata dalla guerra civile tra i sostenitori di questo o quel possibile erede del Conte Guido Guerra?

Finì di leggere il messaggio di Tommaso, che, in modo puntuale e chiaro, com'era suo costume, riassumeva le risorse di Imola e le sue possibilità. Continuava ricordandole pleonasticamente le forze dispiegate dal loro Stato in quel momento, e solo in chiusura si era permesso uno sprazzo di tocco personale.

'Resto sempre il vostro soldato più fedele – aveva scritto – e sono pronto a seguirvi sempre, ovunque, qualsiasi cosa accada. Una parola, e sarò di nuovo a Forlì a combattere per voi, fianco a fianco, fino all'ultimo fiato.'

Caterina sentì la bocca secca e un crampo allo stomaco al pensiero che da lì a poco avrebbe dovuto prendere decisioni difficili da cui sarebbero dipese la sua vita e quella di tutti coloro che amava.

Perché tant'era. Poteva strepitare e allontanare tutti, ma alla fine la Tigre non poteva negare di amare la sua famiglia, e Tommaso ne faceva parte.

Anche quando i suoi parenti più stretti l'avevano tradita, venduta, umiliata e abbandonata, non era mai riuscita realmente a ricambiarli con la stessa moneta.

Anche quando sua madre le aveva chiesto indirettamente il permesso per andare a Imola, Caterina aveva risposto in modo ruvido, come se non le importasse nulla della sua incolumità, ma l'aveva fatto solo per convincerla a non partire.

Forse, anzi, di certo i suoi modi non erano i migliori ed erano facili da travisare, ma i suoi gesti erano sempre volti a difendere il più possibile i suoi familiari.

Non era nemmeno riuscita a punire suo figlio Ottaviano come avrebbe dovuto, malgrado le avesse ucciso l'uomo che aveva adorato. Era una debolezza contro cui non poteva far nulla.

Si rendeva conto di non essere una donna facile da amare e perciò non si aspettava che i suoi figli, sua madre e i suoi fratelli l'amassero.

Sapeva solo che avrebbe fatto del suo meglio per proteggerli anche da quello.

Avrebbe ruggito più forte di tutti, se fosse stato necessario, sarebbe morta combattendo, pur di trovarsi in pace con la sua coscienza.

Quando Giacomo era stato al suo fianco, Caterina aveva accantonato tutti gli altri, ma adesso che non le restava altro, si sentiva in dovere di fare da scudo vivente a ciò che restava della sua famiglia.

Piegò il messaggio, dopo aver dato un'ultima rilettura alla frase finale e poi lo gettò nel fuoco.

Andò allo specchio. Si sistemò i capelli dietro la nuca, cercando di darsi un aspetto più ordinato e si rassettò l'abito. Non si cambiò, però, temendo che mostrarsi all'improvviso con un vestito più elegante avrebbe potuto insospettire qualcuno. Sua figlia, in particolare, che da un po' la teneva d'occhio e non si lasciava scappare il minimo dettaglio.

Ci mise un po', ma alla fine riuscì a ritrovare un'espressione neutrale. Si controllò per l'ultima volta allo specchio, accorgendosi all'improvviso di un paio di capelli bianchi che erano spuntati vicino alla tempia. Li nascose sotto agli altri e poi tossicchiò e raddrizzò la schiena.

Finiti questi preparativi, uscì dalla sua camera e si diresse alla sala in cui di certo parte della sua famiglia la stava aspettando per cenare.

Non doveva trapelare la sua inquietudine, né con loro né coi suoi soldati.

Quella che si apprestava ad affrontare sarebbe stata anche una prova di nervi, quindi per vincerla sarebbe stato necessario iniziare a giocare bene fin dall'inizio.

 
   
 
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