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Autore: Belarus    04/05/2017    3 recensioni
Un Drago Celeste che nobile non è mai voluta essere, una fuga bramata da sempre e un mondo del tutto sconosciuto ad allargarsi ai piedi della Linea Rossa. Speranze e sogni che si accavallano per una vita diversa da quella che gli è da sempre stata destinata. Una storia improbabile su cui la Marina stende il proprio velo di silenzio, navi e un sottomarino che custodiscono un mistero irrivelabile tanto quanto quello del secolo vuoto.
#Cap.LXXXV:" «Certo che ci penso invece! Tornate a Myramera e piantatela con questa storia dello stare insieme! Io devo… non potete restare con me, nessuno di voi può. Sparite! Non vi voglio!» urlò senza riuscire o volere piuttosto trattenersi.
Per un momento interminabile nessuno accennò un movimento in più al semplice respirare e solo quando Aya fu sul punto di voltarsi per andare chissà dove pur di mettere distanza tra loro, Diante si azzardò a farsi avanti.
«Ci hai fatto giurare di non ripetere gli errori passati. I giuramenti sono voti e vanno rispettati.» le rammentò. "
Genere: Avventura, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eustass Kidd, Nuovo personaggio, Trafalgar Law
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Teru-Teru Bouzu '
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Titolo: Teru-Teru Bouzu
Genere: Avventura; Romantico; Generale {solo perché c’è davvero di tutto}.
Rating: Arancione {voglio farmi del male, oui.}
Personaggi: Nuovo personaggio; Eustass Capitano Kidd; Pirati di Kidd; Trafalgar Law; Heart pirates.
Note: Purtroppo per felici motivi personali che mi hanno accerchiata di nipoti ho dovuto saltare l’aggiornamento di aprile, ma ho cercato di provvedere il prima possibile e con un po’ di sano romanticismo stitico del Dottore che non guasta mai. Non è una virata di rotta da parte mia per accantonare Kidd né l’avvio improvviso d’una threesome, semplicemente ho deciso che un po’ come nella realtà c’è a chi viene detto sì e chi invece viene rifiutato, sebbene questo non sia uno spoiler chiariamo… io non rifiuterei nessuno dei due sia chiaro, ma io non ho le botte di fortuna di Aya, per cui! Ringrazio come di rito gli ultimi avventori di questa storia, chi si fa avanti da buon OC e sparisce per altri viaggi. Vi sono e sarò sempre debitrice mes amis~



CAPITOLO LXXVII






Non poteva dire d'essere un esperto considerati gli stracci che indossava, ma Samedy aveva un gusto a dir poco pacchiano nel vestire e durante eventi eccezionali come lo erano le feste al Karyukai dava il peggio di sè, Amaro ne ebbe l’ennesima conferma spingendo la propria farmacia ambulante sino all’entrata, dove l’altro sfoggiava il suo cilindro bianco su completo a fiori blu sbirciando l’interno con un po’ d’invidia.
«Ti tocca guardare soltanto?» domandò in una risata trattenuta, fermandosi in uno scricchiolio di ruote alle sue spalle senza che se ne accorgesse.
Lo vide girarsi con l’aria scontrosa che mostrava verso chiunque osasse tentare d’entrare nell’emporio, ma la sostituì presto con un sorriso amichevole nel riconoscerlo alla luce delle gigantesche lettere lampeggianti che penzolavano sulla bocca del geyser.
«Amaro! Ho avuto un brutto giro a carte… almeno però non devo faticare insieme alle ragazze.» si confortò dall’amarezza, rivolgendo un cenno distratto alle giovani che già sgambettavano da una parte all’altra del locale per soddisfare i capricci degli ospiti che chiacchieravano spensierati.
«Sei fortunato allora! Io ho portato “kusudama speciali” che aveva ordinato Madame per gli ospiti della festa. Ho fatto prima che ho potuto.» annunciò, scoprendo il fondo della sua farmacia su ruote per mostrargli il frutto di tanto lavoro.
A differenza di Samedy e molti altri graziati dal dio della fortuna lì a Down Under che si arricchivano o potevano beneficiare di una vita agevole, le sue giornate trascorrevano monotone e ugualmente faticose attorno a quel banco che aveva comprato quasi con tutti i berry che aveva avuto in tasca al suo arrivo sull’isola.
Dormiva su per giù quattro ore scarse, dedicando le restanti alla preparazione dei farmaci che provava a rivendere nei vari livelli e i cui introiti gli davano a malapena di ché mangiare dato che quasi nessuno trovava rassicurante comprare rimedi per le proprie o altrui malattie in un baracchino che minacciava di collassare su se stesso ad ogni spinta. Aveva deciso d’investire pagando altri affinché vendessero il suo lavoro in luoghi più allettanti, ma con Madame Faraouki, che era la più prestigiosa tra i suoi acquirenti, era entrato in contatto durante l’unica battuta di pesca al Re del Mare cui aveva partecipato per scampare disperato ad un debito che non s’era nemmeno accorto d’aver contratto. Possedeva un’attitudine innata per le canne da pesca che se in passato gli avevano rovinato la vita in quell’occasione gli avevano fatto dono d’una svolta fruttuosa. Madame capì presto con occhio allenato che la sua attitudine s’estendeva anche ai farmaci e decise d’allora di acquistarne di particolari per i suoi clienti. Gli ordini erano discontinui, ma Amaro era grato di poter lavorare per lei quando lo richiedeva perché lo faceva sempre in grandi quantità e pagando bene la sua fatica.
Samedy si tuffò a capo chino nel banchetto controllando meticolosamente e con interesse ognuno dei settecento involti a forma di stella che Amaro aveva incartato sino a qualche ora prima e al cui interno stavano nascoste rotonde praline medicinali: rosse per indurre allucinazioni, gialle per provocare narcolessia, verdi con piccole dosi di veleno, viola e blu per arrestare emorragie gravi.
Quelli che la donna chiamava “kusudama speciali”, più che altro droghe, erano una vergogna per l’uso che ne facevano i compratori, persone dall’etica inesistente e con taglie esorbitanti da ricercati del Governo, ma Amaro non si immischiava se non per limitare gli acquisti. Non perché anche lui fosse una persona spregevole quanto piuttosto perché i berry che gli venivano ceduti in cambio in un unico ordine gli garantivano almeno per metà anno una vita decente e per un uomo come lui una vita decente era quasi un miracolo.
«Sembra proprio una bella festa.» notò con un sorriso distante attraversato dalla cicatrice che gli tagliava metà guancia, ammirando l’esibizione di sfarzo e lusso che si faceva all’interno del Karyukai.
«Madame sa come organizzarne di indimenticabili, ha gran gusto.» concordò Samedy alla cieca, continuando celere il proprio controllo.
Amaro annuì in silenzio osservando gli ospiti ridere e cominciare a brindare alla proprietaria che aveva arricchito probabilmente la sua già incredibile fortuna con una nuova vendita e badò bene di restare al proprio posto, oltre la soglia, con i suoi sandali intrecciati e la camicia dal bordo rovinato che teneva all’interno dei pantaloni a righe affinché nessuno lo notasse troppo, conoscendo le insidie che si nascondevano in un tale sfoggio di ricchezza. Fu sul punto di voltarsi per chiacchierare con Samedy nell’attesa che terminasse di controllare, ma sul passaggio del piano superiore del Karyukai intravide la Vedova e la figura che la accompagnava lo raggelò.
«Non può essere…» farfugliò incredulo, sentendosi scuotere da un brivido da capo a piedi.
Era trascorso molto tempo e i ricordi, simili ad incubi, dei quattro anni che aveva trascorso da schiavo erano sepolti nella sua memoria tutti indistinti e cupi. Poteva trattarsi di un brutto scherzo tiratogli dai suoi occhi, dalla distanza, dalle luci soffuse e accecanti nello stesso momento, persino dalla stanchezza per il troppo lavoro o da una crudele somiglianza. Non sapeva come fosse adesso, la ricordava piccola, magra e sempre con qualche livido per una caduta o una fuga dal giardino, adesso doveva essere una donna come quella e in pochi istanti Amaro era terrorizzato all’idea che forse si trattava proprio di quella donna.
«Quella ragazza… chi è quella ragazza? Laggiù! Come si chiama? La conosci? Chi è?» pretese di sapere trafelato da Samedy, scuotendolo per una spalla con mani tremanti in una smorfia già di dolore.
A Down Under non sarebbe mai potuto entrare un Drago Celeste, era un luogo di libertà dove non erano ammesse distinzioni sociali e tutti dovevano senza eccezioni egualmente rispettare le medesime regole. Esisteva persino un tacito accordo con l’Armata rivoluzionaria e un Nobile mondiale sarebbe stato il crollo di tutto ciò che Down Under rappresentava: Shinkiro, il miraggio della terra felice. Amaro lo sapeva, per questo aveva patito di buon grado ogni fatica per raggiungere quel luogo e stabilircisi, ma la sua ragione non esisteva davanti a quegli esseri. Anche la loro rievocazione lo riduceva ad un ammasso di carne intriso di paura.
«Calmati, quale ragazza? È pieno di donne là dentro.» berciò l’usciere del Karyukai, togliendoselo di dosso a fatica con un gesto scocciato.
«Quella con i capelli rossi, vicino alla Vedova.» indicò, nascondendo subito la mano con cui aveva compiuto quel gesto dietro la schiena.
Se l’avessero visto commettere una simile mancanza di rispetto gliel’avrebbero tagliata via senza esitazioni e allora non avrebbe più potuto produrre i suoi farmaci né pescare, sarebbe morto da miserabile supplicando per un po’ di cibo che nessuno gli avrebbe dato. Non l’avrebbero ucciso subito, per quei mostri era più divertente assistere alla sofferenza che punire in maniera definitiva.
«Ah… un’amica di Celya, credo si chiami Aya se ho ben capito. Buffa storia, pare abbia salvato Celya da un gruppo di pirati che volevano entrare al Karyukai, ti sembra possibile? Un infrazione delle regole contro Celya! A chi mai sano di mente verrebbe in mente di provare ad attaccare quella pazza furiosa?!» rifletté sconvolto Samedy, perdendosi in una discussione che l’altro non ascoltò affatto.
Le sue orecchie furono in grado di sopportare solo quel nome prima che il resto si annullasse, la festa e l’intera città svanissero, l’uomo che gli stava accanto diventasse un’ombra insieme a ogni altro abitante e lui precipitasse nell’abisso da cui credeva d’essere scampato grazie ad un certo Fisher Tiger di cui non aveva mai conosciuto neppure il volto. Gli si bloccò l’aria nei polmoni, la sua testa sopperì alla confusione della disperazione e il collo, dove lo avevano marchiato con il zoccolo celeste prese a bruciare, mentre il resto del corpo si gelava.
«Che ti prende Amaro?» s’informò preoccupato Samedy, vedendolo incespicare nei suoi stessi passi di colpo, ma non vi badò neppure quando ebbe provato a trattenerlo per la camicia che si strappò irrimediabilmente.
Continuò a guardare “Hime-sama” come allora la chiamavano coraggiosamente alcuni dei suoi compagni di sventura cui lei rivolgeva sempre sorrisi in cambio trovando normale provare affetto per la feccia del mondo e i ricordi di quella bambina che chiunque di loro avrebbe potuto uccidere per vendetta e che nessuno aveva mai neppure sfiorato se non Ko, la sua balia, per delle carezze riaffiorarono incontrollati. La ricordò buona, gentile ed educata, priva di qualsiasi percezione per la disparità tra loro, ma quando la vide osservare la folla non riuscì a reggere e scappò via con il terrore che da lassù potesse vederlo. Che potesse rimettergli le catene, lei che s’imbronciava sempre guardandole.
«Ohi! Amaro fermo! Dove vai?! Devo ancora pagarti e hai lasciato il tuo banco qui! Blocca l’entrata! Amaro!» urlò Samedì sconvolto, muovendo un paio di passi per arrestare la sua corsa prima di ritornare al proprio posto per non abbandonare l’entrata.
Un tonfo scosse in quel momento il Karyukai, ma anche quello passò inascoltato dalle sue orecchie e proseguì la propria corsa, cozzando tra la folla, dimentico della paga che avrebbe migliorato i mesi futuri e della farmacia mobile che era diventata la sua unica casa. Continuò a correre spingendo il corpo che non sentiva giù più per pura disperazione e in quel labirinto che minacciava d’intrappolarlo si tuffò sotto le grate delle gallerie prima che si chiudessero definitivamente per quel giorno. La gente lo osservò ad occhi sgranati per quello scivolone che avrebbe potuto ucciderlo, mentre stringeva le braccia al petto e solo quando fu certo che le sbarre si fossero bloccate, si rannicchiò senza guardarli in un angolo riprendendo a respirare almeno finché il mostro dei Tenryuubito non l’avesse raggiunto punendolo per aver provato a salvarsi.
«… mi spiace… non volevo…» mormorò quella che non era più la sua voce.



La ciocca che Celya stava finendo di annodarle su un lato in una complicata acconciatura ad onda, minacciò di restarle in mano quando Aya si volse a guardarla seriamente sconvolta.
«Quindici mariti?! Hai solo quattro anni più di me.» calcolò, mentre la sua nuova amica terminata con pazienza selettiva di sistemarle i capelli, storcendo il naso solo al pensiero di tutti quegli uomini.
«Avevo la pessima abitudine d’innamorarmi facilmente, ero giovane. Ora non commetto più errori simili.» spiegò velenosa, guardandola da capo a piedi con occhio critico alla ricerca di una possibile pecca da sistemare prima d’unirsi ai festeggiamenti.
Cedendo alla curiosità Aya aveva osato chiederle il motivo del soprannome che le era stato affibbiato e che aveva già udito al loro primo incontro tra le gallerie, quando Celya era impossibilitata da regole, che lei ancora non conosceva, a difendersi dal gruppetto che la minacciava. Avrebbe, ma non era accaduto, dovuto quantomeno tenere in considerazione la possibilità che la chiamassero “la Vedova” perché in effetti lo era, tuttavia persino in quel momento le sembrava assurdo persino da sentire. Sua madre a Marijoa aveva provato a trovarle un pretendente di sangue sacro che garantisse la fortuna dei Mononobe e aveva fallito irrimediabilmente in ogni occasione, certo lei non era Celya, tra i Tenryuubito le cose erano complicate e dalla sua avrebbe potuto in un attimo di pura follia annoverare Nau El Pilar, ma quindici mariti erano comunque una cifra spropositatamente alta per una ragazza di ventisette anni che non sopportava gli uomini.
Soffocando lo stupore si mordicchiò un secondo il labbro in imbarazzo, quando l’altra terminò il controllo, per non aver saputo trattenersi di fronte a quella che non era un aneddoto da raccontare a cuor leggero.
«E li hai… persi tutti, è orribile.» si scusò rammaricata, vedendola subito incrociare le braccia sotto il seno.
«Orribile proprio per niente. Il primo è scappato con una ballerina, il secondo su una nave, il terzo ha rivenduto la casa in cui vivevo per pagare un viaggio di nozze con un’altra, il quarto si è finto morto per liberarsi da ogni obbligo e il quinto è sparito dopo avermi fatta indebitare con Madame Faraouki per il matrimonio. Tutti volevano che io fossi diversa da ciò che sono, non andavo bene pare e io cambiavo di continuo per accontentarli con l’unico risultato d’essere abbandonata comunque e costretta a mettere da parte il mio desiderio d’andarmene da questo posto per estinguere i debiti.» sputò fuori tutto d’un fiato con un ultimo moto di stizza che le fece conficcare un tacco nel pavimento e Aya batté in silenzio le ciglia, trattenendosi.
Quello spiegava decisamente perché fosse solita rifilare commenti e trattamenti poco gentili agli uomini. Ci sarebbe stato da chiederle di che genere di individui si fosse invaghita in passato per ridursi in certe condizioni certo, ma preferiva di gran lunga non indagare oltre, anche se un minimo di curiosità le era rimasto nei confronti dei mariti restanti.
«Gli altri dieci li ho sistemati io per ricambiare la popolazione maschile con la stessa moneta, ma due volte di più. Sicura di non volerti cambiare?» annunciò fiera nel captare la domanda in sospeso, venendo travolta mentre uscivano per unirsi alla festa da un moto di buonumore al ricordo.
Aya si abbandonò ad una risata sincera per quella vendetta, trovandosi a pensare che solo a Celya sarebbe potuta venire in mente un’idea del genere per rifarsi piuttosto che sprofondare nella tristezza.
«Preferisco questo, le feste mi mettono già abbastanza a disagio senza dovermi trascinare avvolta da un abito scintillante che accecherebbe un ospite. Ti manca ancora molto per saldare il debito con Madame Faraouki?» s’informò subito cambiando discorso un po’ perché le interessava davvero saperlo, magari aiutarla e un po’ per distrarla dal proposito d’infilarla a forza in quelle che erano opere d’ingegneria non abiti.
«Ho terminato un anno fa.» negò serafica, aggiustando con un gesto distratto le pieghe della lunga gonna nera.
«Allora perché non sei andata via come volevi?» chiese incredula, fermandosi sulla soglia.
Si era aspettata di sentire una qualche cifra spropositata degna del Karyukai, era pronta ad impegnarsi ad aiutarla con ogni mezzo per liberarla da quell’incombenza e chissà persino se fosse stato necessario chiedere a Kidd quella sera se avesse potuto arruolarla e lei se ne veniva fuori così invece.
«Nel tempo libero ho letto qualcosa sulla navigazione, ma sono francamente un mucchio di follie complicate di proposito! E poi qui c’è bisogno di me, lavoro da organizzare, merci da controllare, mi sto anche arricchendo!» sorrise ammirando di fretta l’anello enorme che indossava e che sicuramente doveva aver preso in prestito dando libero sfogo alla sua innocua vena da cleptomane.
Silenziosa Aya la osservò precederla nel lungo corridoio del piano superiore e dopo un’istante si decise a seguirla nel suo abito color té senza replicare.
Si conoscevano da poco e Celya non sembrava in ogni caso ragionare secondo la logica comune, eppure aveva avuto la chiara impressione che quelle parole fossero solo delle scuse articolate per mettere fine al discorso e di certo non sarebbe stata a lei a forzarla nel continuarlo. Avventurarsi alla ricerca di una vita nuova era difficile, ci si lasciava alle spalle tutto ciò da cui si era stati circondati da sempre, le sicurezze di una quotidianità che si conosceva per l’ignoto. Magari Celya preferiva le certezze ai dubbi, forse non era ancora pronta e non le andava di fare i conti con un fallimento che avrebbe riguardato lei sola.
Accostandolesi ammirò lo spettacolo di luci, addobbi ed invitati che si era creato all’interno del Karyukai e per il sollievo della sua compagna decise di cambiare discorso, poggiandosi alla paratia del corridoio con gli occhi che brillavano per la meraviglia.
«Ci sono già così tanti ospiti! Madame Faraouki deve avere parecchi amici.» sbottò stupita, non essendosi aspettata tutta quella folla di gente ad una festa che avrebbe dovuto raccogliere solamente i più vicini.
«Tu meno dolcezza.» soffiò qualcun altro al posto di Celya con voce raschiante e il lezzo di sangue secco la investì insieme alla sensazione di morte, spingendola ad irrigidirsi senza neanche voltarsi a controllare chi fosse.
Lo fece Celya piuttosto, già pronta a freddare chiunque si stesse intromettendo con tanto sgarbo, ma dovette trattenersi quando un braccio armato di machete guizzò svelto tra loro minacciando di poggiarsi alla gola di Aya. Nel sentirlo così vicino lei invece agì d’impulso allungando le mani verso l’impugnatura per bloccarne i movimenti ed evitare qualsiasi contatto, si vide riflessa nella lama insieme alla bocca scura e ampia dell’uomo e diede un colpo di tacco alle proprie spalle. Sorpreso dalla forza l’uomo si piegò appena su di lei con il busto e Aya tolse una mano dall’impugnatura del machete per fargliela passare sul collo tozzo, riuscendo a farlo volare sopra di sé per poi mollarlo con un tonfo al suolo.
«Aya!» la chiamò preoccupata Celya riconoscendo forse chiunque fosse quel tipo, mentre tutti gli ospiti più in basso sollevavano gli sguardi curiosi per vedere cosa stesse accadendo.
Non se ne curò, concentrandosi piuttosto sullo sconosciuto che si rimetteva in piedi con un gran scrocchiare del collo tozzo adornato da una cicatrice per poi lanciarle il machete dritto contro il viso con tutta l’intenzione d’aprirglielo in due. Lo scansò per un soffio perdendo una ciocca ribelle nell’impresa, ma subito l’uomo le fu nuovamente addosso ed Aya si ritrovò suo malgrado schiacciata sulla paratia con tutto il suo peso sopra e il capo che ciondolava nel vuoto.
«Sembri fatta di porcellana, mi porterò via un pezzetto di te quando avrò finito!» programmò esaltato, squadrandola come fosse già un pezzo di carne morta nel trattenerla con forza.
«Lusingata, ma preferirei proprio di no! Sok!» calciò disgustata dal contatto sulla pelle.
Prevedendo la sua reazione l’uomo però si fece indietro d’appena qualche passo riuscendo ad evitare con successo il colpo diretto al fianco e il pugno che le scagliò contro per stordirla piegò il ferro della paratia sino al pavimento smaltato. Approfittando della sua inclinazione gli si poggiò al bicipite ingrossato per liberarsi e lo superò liberandosi da quella che stava diventando per lei una posizione affatto comoda. Armata di coraggio e affatto intenzionata a rimetterci ruotò sui tacchi nella speranza di gettarlo di sotto, il calcio, più duro di quanto s’aspettasse, lo obbligò a voltare malamente il viso con uno scrocchio e la serie di pugni a costato, collo e sterno gli fece perdere terreno in un ringhio. Metri più in fondo il pappagallino di Madame Faraouki strepitava allarmato un continuo “violazione! violazione!” alla vista dei disastri che stavano creando, ma presa dallo scontro Aya non lo udì affatto e non parvero farlo neppure il resto degli invitati, rapiti da quello che credevano uno spettacolo e in cui la sua dose di fortuna s’esaurì di colpo quando l’uomo tornò a riprendersi. Nonostante la mascella fratturata e le costole incrinate si fece forza della propria taglia e la agguantò per la caviglia all’ennesimo tocco mirato, tirandosela addosso per schiacciarla sulla parete. Il contatto con il machete sul viso e il peso dell’uomo sulla schiena le strapparono un verso soffocato di dolore, si morse il labbro cercando di liberarsi, ma l’arma si sollevò inclemente e un brivido le corse lungo la schiena.
«Huerto de los muertos.» sentì ordinare a Celya, intervenuta tra la confusione nel vederla in difficoltà e una massa di miele ben più minacciosa del previsto scaraventò alle spalle l’uomo al suolo.
Lo vide sprofondare nel pavimento ad occhi strabuzzati come fosse stato in una tomba e tenerlo invischiato il tempo necessario affinché si quietasse per la mancanza d’aria, solo allora lo ritirò su resuscitato di slancio. Aya lo vide drizzarsi di fronte a sé soffocato nella sua bara dorata e approfittò del varco creato appositamente per lei, colpendolo una volta ancora al viso, ma questa volta abbastanza forte da scaraventarlo dalla parte opposta del corridoio ormai esanime. Un silenzio greve calò sull’intero Karyukai, mentre lei riprendeva fiato per quell’attacco imprevisto alle spalle di una Celya che furiosa marciava in direzione dell’aggressore per agguantare un pezzo di carta sfuggitogli dal panciotto.
«Tobe “il macellaio”… è un mercenario, ha un volantino approvato per cacciare la tua taglia, senza sarebbe stata una violazione delle regole… ma non era comunque un invitato. Samedy capiti proprio nel momento giusto.» spiegò sibillina, fulminando l’usciere dell’emporio giunto di corsa dalla propria solita postazione.
Aya lo vide in ritardo, troppo scioccata dagli applausi scroscianti che erano esplosi al piano di sotto dove tutti elogiavano una Madame Faraouki che nascondeva magistralmente il proprio disappunto per l’accaduto, ritenendolo davvero uno degli spettacoli previsti per intrattenerli durante la festa.
«… s-splendidi vestiti, siete meravigliose.» provò a blandirle Samedy, allargando le braccia teatrale.
«Sono vestita di nero per ricordarti che non puoi scherzare con me perché sono già pronta al tuo funerale. Cosa ci faceva qui dentro lui?» lo freddò affatto intenzionata ad abboccare Celya, accarezzandogli il bordo del completo con fare minaccioso.
Il poveretto dovette trattenersi dallo svenire probabilmente solo perché consapevole che farlo sarebbe stato ben peggio del non rispondere alla domanda, ma la voce gli venne fuori strozzata e il viso gli si sbiancò del tutto.
«S-stava… comprando.» riuscì a bisbigliare e il sorriso inquietante di Celya si allargò ulteriormente.
«Il Karyukai è chiuso e c’è una festa con ospiti importanti a cui Madame tiene. Poteva uccidere Aya se non fossimo state così brave da fare a meno di te che correvi tenendoti questo stupido cilindro, quindi vedi di rimediare e controlla chiunque varchi quella soglia o ti affogo nel miele.» promise radiosa, strappandogli un verso terrorizzato nel mollarlo affinché s’allontanasse «…e fa spostare quel banchetto dall’entrata, inutile decerebrato.» concluse, mentre lui già retrocedeva riprendendo aria sebbene con passi incerti e sudando freddo.
In altre circostanze avrebbe tentato di quietare gli animi, magari provando a convincere Celya ad allentare la presa psicologica potenzialmente mortale sul povero Samedy, ma era ancora troppo presa dal pensiero che un mercenario l’avesse attaccata per portarle via la testa per farlo. Aveva una taglia e non si trattava più neppure di una cifra indifferente da qualche tempo, tuttavia si era ormai abituata nel veder dirigere certe attenzioni verso Kidd o gli uomini più in vista del suo equipaggio per sentirsi davvero in pericolo costante. Eppure qualcosa nelle poche parole di quell’uomo le aveva suggerito l’idea che non ci fosse una semplice questione di taglie dietro.


L’entrata del bar nel quale avevano atteso Wire con le informazioni sulle zone di controllo degli Imperatori saltò in aria in una miriade di schegge impazzite, crivellata dai colpi dei suoi stessi avventori e del proprietario che armati fino ai denti cercavano di portare a termine qualsiasi cazzata si fossero messi in testa. La gente che ancora nelle ultime vendite ed acquisti all’esterno si limitò ad allontanarsi, riservando appena qualche un’occhiata curiosa ad una simile guerriglia prima di tentare di proseguire i propri affari in pace. L’impresa purtroppo non riuscì né a loro né tantomeno al branco d’idioti che sparava quando la paratia di metallo del geyser si staccò dal suolo travolgendoli alle spalle, mentre Kidd varcava la soglia con un grugnito.
Dal primo istante in cui aveva deciso di arrivare fin lì per ottenere un vantaggio verso Raftel e il titolo di Re dei pirati aveva saputo che non sarebbe stata una gita su un’isola disabitata, Killer e il suo stesso buonsenso si erano premurati di ricordarglielo ad ogni occasione dopo il disastro di Serranilla. Down Under era un paese di libertà nel quale la peggior feccia del mondo aveva stabilito la propria casa o praticava incurante i propri affari più loschi. Aveva dato per certo che un cacciatore di taglie avrebbe tentato di accaparrarsi la sua taglia, credendo magari di poter approfittare delle ferite inflittegli dal suo pessimo arrivo lì nello Shinsekai e gli sarebbe anche stato bene dimostrare quanto si fossero sbagliati tutti dandolo per finito già prima d’iniziare. Il problema purtroppo era che in quel luogo vigevano delle regole ferree, inutili secondo la sua opinione, e ripercussioni – per quanto gliene fregasse – contro chi se ne infischiava.
«Chiamate il Mediatore! Qualcuno cerchi Servais e i controllori! Presto!» s’udì puntuale dalla folla ai margini non appena un paio di uomini rimasero al suolo con le teste insanguinate.
Immolando l’orgoglio per la causa, Kidd era stato disposto a scendere a patti e sottostare a quelle assurde leggi che gli impedivano d’essere davvero libero, ma non sarebbe rimasto a guardare se avevano deciso di prendersi la sua taglia e quelle dei suoi uomini. Poteva tollerare d’essere sconfitto a tradimento da qualcuno della cerchia di uno Yonkou, crepare per mano di un branco di tagliagole ubriaconi forti di burocrazia no di certo.
Gli ultimi cacciatori di taglie ancora in piedi badarono bene d’organizzarsi affinché avesse un fianco scoperto cui mirare con i preziosi proiettili d’agalmatolite che si erano procurati per fronteggiare il suo frutto e persino dal tetto dell’edificio già sul punto di crollare esplosero colpi d’ogni genere d’arma. Tenaci nei loro tentativi riuscirono a trattenerlo per un po’ sulla soglia distrutta scambiandosi indicazioni efficaci per andare a segno, ennesima conferma per lui che l’attacco era stato programmato e affatto improvvisato. Gli riconobbe parecchio coraggio e della malsana tenacia nel volerlo abbattere ad ogni costo anche sotto i colpi di Heat e Killer, ma non erano comunque motivazioni sufficienti per graziarli dato che avevano mandato a fottersi tutti i suoi buoni, per una cazzo di volta, propositi.
Con un ringhio seccato issò incurante ormai del resto la paratia di metallo che avrebbe dovuto fungere da ultima sponda per il geyser bollente e l’avvolse in una morsa inclemente attorno al gruppo sul tetto per non doversi coprire le spalle. Davanti a lui, con le falci in pugno e la maschera sporca di sangue, Killer stroncò con un unico taglio fluido il resto dei presenti sfuggiti alla lotta contro i suoi compagni di ciurma, premurandosi di lasciare in piedi solo il proprietario per scoprire qualcosa in più su quell’attacco tanto organizzato.
«Fottuti bastardi!» gli latrò tuttavia contro, optando tenace per lo scontro piuttosto che per una supplica.
Per Kidd non sarebbe cambiato nulla se anche si fosse inginocchiato a leccargli la punta degli stivali o avesse sputato sull’orgoglio che non aveva frignando come una ragazzina. Probabilmente lo sapeva anche quel tipo, ecco perché si stava intestardendo tanto nel brandire la baionetta a proiettili d’agalmatolite anche quando ormai era rimasto solo e circondato. Killer evitò in silenzio un paio d’affondi con l’aiuto delle sue lame già arrossate prima di lanciarsi oltre la spalla dell’uomo ad un nuovo attacco e schiacciarlo al suolo di forza con uno spintone che lo fece crollare davanti a Kidd con un verso di rabbia.
«Se vi foste risparmiati questa stronzata avreste fatto un favore a tutti, magari vi avrei anche potuto pagare più della mia stessa taglia per quelle informazioni… chiunque ha un buon motivo per essere ragionevole se lo si trova. Voi li avete bruciati tutti i miei.» precisò roco fissandolo dall’alto dei suoi due metri, ma nonostante avesse le lame poggiate alla gola e la sua arma fosse ormai fuori portata, l’uomo gli riservò una risata di sfida.
«Minaccia quanto ti pare ragazzone, non uscirai vivo da qui. Basque ti ha fottuto con le tue stesse mani sta volta… hai una condanna sulla testa e come te tutta la tua ciurma, è la regola.» lo avvisò sputandogli sugli stivali con un ghigno derisorio.
A quel nome i muscoli di Kidd si contrassero d’istinto per la rabbia. Non gli era bastato tentare di ucciderlo alleandosi con chi aveva tradito in precedenza per ottenere il potere, aveva anche pianificato una soluzione di riserva per sbarazzarsi di lui.
«Dov’è?» pretese di sapere, schiacciandogli lo stivale sulla testa furioso.
«Crepa.» lo sentì inveire piuttosto e certo ormai che non avrebbe potuto ottenere nulla lo scaraventò tra il vapore rovente del geyser nella confusione rabbiosa che cominciava a crearsi.
Non aveva intenzione di crepare affatto come sembravano sperare tre quarti di quel fottuto mondo, soprattutto in un maledetto buco nel quale pretendevano di farlo fuori alla stregua di un topo. Avrebbe avuto l’onore d’essere il primo a venir fuori da ciò che sarebbe diventato l’inferno di lì a qualche minuto e il piacere di staccare la testa a quel bastardo con le sue mani, mentre se ne andava perché era certo che questa volta avesse scomodato il culo e fosse là, nascosto in un angolo da verme qual’era.



A Down Under, Shinkiro o Horai che lo si volesse chiamare, vigevano poche, ma buone regole cui tutti senza eccezioni dovevano attenersi pena l’espulsione – non sempre pacifica –. Anzitutto bisognava non arrecare danni al mercato-città, non attaccare chi fosse nato lì dentro, pagare debiti e conti, non rubare, attenersi agli orari di apertura e chiusura delle gallerie, preservare la libertà altrui, rispettare le scelte d’accesso dei controllori ai pass e ultima, ma ben più importante delle altre: mai permettere a marines e Governo d’entrare. Trafalgar non era un marines né lo sarebbe diventato neppure su letto di morte, però sapeva che essere uno Shicibukai avrebbe fatto di lui un affiliato del Governo mondiale e poco importava poi se di fatto restava agli occhi di quegli uomini di giustizia un criminale. Lo sapeva per certo perché persino lui stesso era stato investito da quel pensiero quando aveva preso una tanto terribile decisione. Ora, stando potenzialmente così le cose non si stupiva più del tono greve e della presenza di Aohiro-ya, se non fosse che a conti fatti le cose non stavano ancora a quel modo.
«Non lo sono ancora.» precisò infatti, osservando i meandri del proprio bicchiere vuoto.
«Aye, ma non rifiuteranno te. Si tratta solo di tempo, qualche giorno forse.» rimuginò Sanai accanto a lui, studiando per contro qualcuno tra la folla di invitati della festa.
A Law non sfuggì nemmeno tra il chiacchiericcio cacofonico l’inclinazione con cui s’era pronunciato, ma non si spese nell’indagare su come fosse venuto a sapere delle decisioni prese dal Governo. Sanai aveva orecchie allenate e conoscenti dalle lingue lunghe che cantavano storie dai quattro angoli del mondo, non c’era da stupirsi che qualcuno bazzicasse anche in divisa.
«Chi può dirlo… la Marina ha fama d’essere selettiva.» considerò sarcastico scrutando nella medesima direzione per capire chi stesse meritando tanto la sua attenzione, ma c’era troppa gente pessima per stilare una classifica.
«Rappresenti uno dei pericoli di questa nuova generazione terribile, potenzialmente potresti creare problemi peggiori di quelli che affrontano già. Aspetta d’avere la mia età per buttarti giù, certo semmai ci arriverai.» lo riprese, suscitandogli di slancio un ghigno divertito per la tragica previsione.
Sapeva da tempo che non sarebbe morto vecchio, con animo annoiato e circondato da nipoti, ma era quasi esilarante che a ricordarglielo fosse chi si trovava già in una condizione simile e non aveva con lui alcun legame.
«Ti sei davvero scomodato per darmi consigli allora.» lo punzecchiò, aspettandosi di ricevere in cambio una delle sue assurde negazioni sulla simpatia che provava nei suoi confronti.
Stranamente però Sanai optò per qualcosa di diverso dal solito e si girò a puntarlo con sguardo serio, abbandonando lo studiò intensivo della sala gremita di gente dove si susseguivano esibizioni e svendite che avrebbero riempito le tasche della proprietaria più del motivo per cui era stata organizzata la festa.
«Sono venuto fin qui per decidere cosa fare con te. È mia responsabilità dato che ho permesso trovassi le indicazioni e non spenderti in chiacchiere inutili su ciò che è ufficiale oppure no, non importa più a nessuno. Hai fatto la tua scelta ormai.» spiegò lapidario, cancellandogli d’un colpo il ghigno che aveva sulle labbra.
Gli Shicibukai godevano della concessa libertà nei territori del Governo, ma venivano in ogni caso etichettati come criminali da controllare. I pirati, di cui di fatto facevano pur sempre parte, li trattavano per contro come uomini della Marina con l’aggravante d’aver venduto la propria dignità a chi disprezzavano. A nessuno importava dei motivi per cui si compiva la scelta, di quanto pesasse o cosa implicasse, entrambe le parti li odiavano e si restava in un limbo in cui l’unica zona franca in realtà era la propria. Trafalgar aveva valutato bene la propria decisione anche in virtù del malumore che i suoi uomini avevano camuffato quando li aveva messi al corrente dei propri programmi, se ne era assunto la responsabilità e l’avrebbe sopportata fino alla fine in silenzio anche senza quella saggezza spiccia a farglielo presente.
«Non passerò informazioni su questo posto, se è ciò che ti preoccupa Aohiro-ya. Puoi tornare ad aspettare il congedo da questa vita sulla tua isola una giornata monotona dopo l’altra, andrò via presto da qui. Non c’è più nulla che mi trattenga.» rivelò gelido e affatto intenzionato a mostrargli quanto la cosa gli pesasse già.
Madame Faraouki ormai lo aveva messo al corrente degli ultimi due ingranaggi mancanti per sbriciolare il trono su cui Doflamingo si era accomodato da anni, Down Under aveva perso per lui qualsiasi significato. Il Polar Tang sarebbe salpato non appena il suo equipaggio avrebbe finito i preparati, forse persino il giorno seguente stesso alla ricerca del luogo nel quale Caesar Clown si nascondeva per produrre gli Smiles.
Mentre lui si barricava dietro il muro di responsabilità che aveva eretto in quasi tredici anni d’attesa, Sanai si abbandonò ad un sospiro teatrale che lo accigliò per l’ennesima virata d’atteggiamento che gli veniva riservata e che mal sopportava data la delicatezza degli argomenti.
«Mi togli un gran peso, non ho più il fisico per fare sforzi e sospettavo inseguirti lo sarebbe stato.» borbottò, tastandosi con falso acciacco la schiena che reggeva benissimo il carico delle giare di liquore ch’era solito trasportare dal mare sin sulla scogliera di Dunanshima.
Quello sfoggio di vecchiaia improvvisa se possibile peggiorò il cipiglio con il quale Law lo aveva trafitto, ma Sanai non se ne preoccupò affatto esibendo la sua espressione più innocente.
«Cosa c’è, ti aspettavi non ti credessi?! Yare, yare sono infiacchito, ma so distinguere un cane del Governo da un moccioso barbuto in completo elegante quando lo vedo! E poi ho uno splendido motivo per fartela passare… salve!» salutò galante con un cenno del capo, dopo avergli rifilato una pacca sulla spalla di slancio.
Quel tocco paterno che in altre circostanze Trafalgar avrebbe ricambiato mettendo minacciosamente mano alla propria nodachi, giusto per chiarire quanto per lui fosse fondamentale lo spazio vitale da non infrangere, passò invece in silenzio nel dimenticatoio quando la figura di Aya fece capolino dietro di loro senza che se ne fosse accorto per tempo.
«Ho interrotto?» chiese dispiaciuta fermandosi a qualche passo di distanza con occhi un po’ lucidi, mentre Jean Bart tentava valorosamente il recupero ben più difficoltoso di Shachi e Penguin ormai fuori controllo sulla pista da ballo e incapaci di sentire i rimproveri urlati di Bepo.
«Fortunatamente sì.» ribatté secco, mentre l’altro accanto scuoteva vigoroso il capo invitandola a sedersi.
Titubante forse per la divergenza delle risposte tardò un po’ ad avvicinarsi, ma gli si sedette comunque di fianco sistemando con un sorriso di cortesia il vestito sulle gambe. Trafalgar fu certo solo da quel piccolo gesto che volesse mimetizzarsi con la seduta per scusarsi della scortesia e passare inosservata, tuttavia per quanto di consueto eccellesse nell’arte di sparire persino mentre la si controllava in quell’occasione non le riuscì.
«I pirati sono gelosi dei loro tesori, mai che spartiscano! Anche se in realtà potresti essere mia figlia. È un onore, Sanai.» si presentò da sé con un sorriso rassicurante e Law gli scoccò un’occhiata sconvolta per l’allusione che lui neppure si degnò di notare, troppo preso dal rimangiarsi i propri consigli sulle donne con carinerie spicciole.
«Aya. Ho l’impressione di conoscerla già… mi ha portato qui dentro?» chiese incerta, mentre l’attenzione di Law virava irrimediabilmente su di lei con altrettanta incredulità.
Evidentemente quando aveva detto di non sapere cosa ci facesse lì a Shinkiro intendeva in senso letterale e non che Eustass-ya mancasse completamente di tatto nel metterla al corrente dei motivi degli spostamenti che compivano. Il ché per lui era persino più incomprensibile e inconcepibile.
«I modi non sono stati dei migliori per una signorina, me ne dispiaccio, ma dovevo. Non c’è luogo migliore di questo per parlare tranquillamente con dei futuri amici, là fuori non è sicuro, persino i muri in strada hanno orecchie.» prese a ciarlare, senza che né lui né Aya capissero minimamente dove volesse andare a parare con una simile discussione.
Di colpo però, mentre tentava di aprire la bottiglia di rhum sul tavolo per versargliene un bicchiere e proseguiva nel suo straparlare qualcosa tra la folla tornò ad attirare la sua attenzione sino a bloccarlo e si ammutolì sudando freddo, per balzare poi in piedi di scatto quasi la sedia si fosse infiammata con lui sopra per autocombustione.
«Ad ogni modo non è il caso che mi dilunghi, vi lascio alle vostre cose. Comportati bene.» si congedò mollandogli una nuova pacca sulla spalla e un occhiolino ad Aya.
Sbigottiti lo guardarono allontanarsi di corsa e non badarono più di tanto al verso di rabbia che cacciò fuori Madame Faraouki e che abile Celya camuffò annunciando un nuovo spettacolo agli ospiti che esplosero entusiasti in un applauso incuranti della rissa affatto cortese che la proprietaria e Sanai stavano innaugurando sulla soglia del Karyukai.
«È un tipo strano! Mi piace.» mormorò divertita Aya che per qualche strana ragione doveva avere una predilezione per certe tipologie di gente fuori di senno e senza ritegno.
«Il disfacimento del corpo ad alcuni tira brutti scherzi.» constatò Law, decidendo d’aver assistito davvero a troppo quella sera quando vide la donna scagliargli contro con fare bellicoso il proprio pappagallo inferocito.
La scena a dir poco grottesca strappò ad Aya una risata più fiacca del previsto che lo lasciò sospettoso quanto gli occhi lucidi e che gli provoco un improvviso moto di colpa considerando ciò di cui aveva discusso pochi istanti addietro con Aohiro-ya – e di cui non avrebbero più parlato visto come stava soccombendo a quell’uccello –.
Non avrebbe avuto nulla per cui sentirsi dispiaciuto nei suoi confronti in realtà considerando che quella non era una faccenda che la riguardava minimamente e che non l’avrebbe toccata in alcun modo. Non aveva obblighi nei suoi confronti dato che non avevano alcun legame e d’altronde, se anche altrimenti fosse stato, quella era una decisione che persino i suoi uomini avevano dovuto farsi andar bene. Era pur vero però che l’aveva salvata dal Governo e lui stesso adesso stava per entrarne a far parte in una qualche maniera, il ché non implicava in nessun modo che lei dovesse concedergli il suo benestare, ma quantomeno che lui dovesse dirglielo. Si trattava più che altro di una questione di sincerità e rispetto ecco, nessun senso di colpa.
«Mi unirò agli Shicibukai.» sbottò piatto senza troppi giri di parole e rannicchiata nel vestito color tè, con il viso un po’ arrossato da chissà cosa, Aya lo guardò in silenzio battendo per un attimo le ciglia all’apparenza più stupita dal modo in cui glielo aveva comunicato che dal messaggio in sé.
«Sono felice per te.» sbottò altrettanto serafica dopo un po’ e Law quasi si strozzò con l’aria che respirava. Le mani gli fremettero di colpo sullo schienale e sul momento fu investito dal desiderio di urlarle addosso di non dare certe risposte solo perché le venivano in mente, ma presto quel primo istinto venne scalzato dall’assurda mancanza di tatto che pareva essergli stata riservata quando lui per contro si era persino premurato di dirglielo.
«Come puoi esserlo proprio tu.» soffiò sentendo le proprie parole venir fuori in un misto di rabbia e rammarico.
Tra le tante e all’apparenza banali doti che Aya possedeva fortunatamente per entrambi esisteva quella di sapere quando era il caso di mettere un freno a situazioni che sarebbero degenerate in catastrofi. Come e a che prezzo lo facesse poi era un’altra storia dentro cui non era il caso di avventurarsi più di tanto.
«… è stata una tua decisione, l’hai presa senza che nessuno interferisse immagino e avrai avuto delle ottime ragioni per farlo, ciò vuol dire che l’avresti presa comunque in ogni circostanza. Lo so, è un po’ egoista da pensare, non prenderla male, ma così ci saremmo ritrovati qui anche in una sorta di parallelo che porta allo stesso punto, capisci?» domandò tutto d’un fiato con naturalezza disarmante.
La candida perversione di quel pensiero gli fece sbollire d’un colpo il miscuglio di sensazioni che gli aveva rivoltato lo stomaco e fu il turno di Law di guardarla in silenzio. Dimentico di ciò che la sua mente aveva frainteso si concentrò nel venire a capo di quel rebus, ma suo malgrado si scontrò con una di quelle rarissime, eccezionali, uniche e irripetibili occasioni in cui il suo cervello non riusciva a sbrogliare la matassa.
«Temo di no.» ammise controvoglia, assottigliando un po’ lo sguardo, mentre Aya lo squadrava quasi intenerita.
«Tu saresti diventato comunque uno Shicibukai e saresti andato a Marijoa prima o poi, ci saremmo incontrati lì anche senza dover andare ad Awashima.» chiarì paziente, persistendo sulla stessa strada con un sorriso.
Forse stordito a tal punto dallo slancio d’affetto che gli era stato rivolto malgrado i suoi tentativi di mantenere una semplice conoscenza da non riuscire a replicare con la consueta vena sarcastica, inaspettatamente persino per se stesso, Law si scoprì a darle corda in quella follia troppo tardi anche per fermarsi a metà.
«Non puoi esserne sicura. Avrei potuto abbandonare prima di vedere Marijoa e semmai fossi arrivato sin là le possibilità di incontrare te sarebbero state insignificanti, non credo che la Marina permetta agli Shicibukai di avere contatti con i Nobili mondiali.» suppose pensieroso, vedendola piccarsi subito per il disappunto di una ipotesi felice che le veniva sbriciolata crudelmente di fronte.
Sebbene centrata in pieno dalla dura realtà e per un attimo persa in chissà quale ricordo pericoloso per cui Trafalgar ebbe un brivido di timore solo ad averne percezione dall’esterno, la vide comunque trattenersi nella sua usuale compostezza forse anche per non dargli affatto la soddisfazione di spuntarla là dove nemmeno aveva sperato d’impelagarsi prima.
«Posso fare a meno del cinismo, preferisco la mia versione. La trovo rassicurante!» mormorò convinta, ma le parole le vennero fuori un po’ masticate.
La studiò sospettoso sospirare ad occhi chiusi per un attimo quasi stesse facendo appello alle proprie energie e con dispiacere mettere da parte le buone maniere che tanto si prodigava di mantenere per sdraiarsi, poggiando la testa sulla sua gamba con sollievo. Un brivido gli corse lungo la schiena dal punto esatto in cui sistemò la tempia sino alla nuca e per un lungo momento che Aya non commentò, Trafalgar rimase rigido a fissare il vuoto con la sensazione che anche l’aria fosse difficile da mandar giù.
Non amava certe confidenze, le ammetteva da Bepo che era impossibile da far desistere e dai suoi uomini che erano a dir poco diabolici e tirannici nelle manifestazioni d’affetto, ma lei quella familiarità non avrebbe dovuto averla. Doveva però rassegnarsi ormai alla consapevolezza che per quanto fosse sempre attenta a come comportarsi in ogni circostanza quando si trattava di lui faceva ciò che le passava per la testa senza alcun ritegno e gli svariati precedenti a bordo del Polar Tang, che i suoi uomini avevano spudoratamente incoraggiato, la assecondavano in una tale assurda consapevolezza.
Quando finalmente riprese a respirare con la sicurezza consueta e avvertì persino la gamba già calda per il contatto, abbassò le iridi grigie su di lei trovandola ancora ad occhi chiusi. Una tale improvvisa stanchezza da parte sua gli ravvivò il sospetto che qualcosa non andasse e la sua mente allenata da medico impiegò poco per mettere insieme i sintomi.
«Hai bevuto troppo?» ipotizzò in uno sforzo di pazienza, vedendola imbronciarsi un po’.
«Continuavano ad offrirmi bicchierini per lo spettacolo, non ne potevo più. Altri due e Jean Bart avrebbe dovuto prendermi in braccio per non farmi strisciare sul pavimento. Credo di non reggere l’alcool affatto, Kidd ha ragione…» ammise esasperata e benché non sapesse di quale spettacolo parlasse, l’unica cosa che gli balzò in mente fu l’immagine di Eustass-ya che la faceva sbronzare.
«Allora non dovresti bere affatto.» sentenziò secco e Aya sorrise già mezza assopita.
«Sarei stata scortese.» biascicò, strappandogli un ghigno divertito.
Comprendeva che l’educazione fosse importante e che potesse esserlo persino per lei che non voleva dispiacere o offendere nessuno, ma così esagerava. Le si sarebbe potuta far fare qualsiasi cosa spacciandola per una faccenda di buone maniere, era come sfondare una porta già spalancata.
Un po’ stuzzicato dal pensiero si distrasse a guardare la sala dove la festa non accennava a terminare e per un po’ osservò Shachi e Penguin, mentre si lamentavano infantili d’esser stati interrotti nei loro balli per affascinare un paio di ospiti e Bepo dondolava sulle zampe, caduto anche lui vittima dell’alcool che mal digeriva. Quando tornò ad abbassare lo sguardo Aya già dormiva beata con una gamba che penzolava e un paio di ciocche sul naso che a stento si muovevano per il suo respiro, incurante del baccano e che quello non fosse un letto né tantomeno Law un cuscino.
«Come se non fosse una serata interminabile da sé.» considerò in un sospiro, armandosi di buona volontà nel dover rimanere immobile su quel divanetto a controllarla finché al Karyukai non avessero finito di far chiasso.




















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Note dell’autrice:
Se spendessi un terzo del tempo che dedico alle note di questa storia per la storia in sé avrei fatto concorrenza alla Rowling. Dico davvero. Sarebbe stato il capolavoro del secolo… ma non lo sarà! Continuerò a crogiolarmi nella banalità, sarebbe troppo faticoso il carico dopo.

- Samedy: la vittima prediletta di Celya – per il momento – nonché usciere e presunto addetto alla sicurezza del Karyukai Emporium. Non ha una grande importanza, potete dimenticarvene se preferite, volevo solo sapeste che il suo nome come il suo eccentrico look mi è stato ispirato dal Baron Samédy, divinità del vodoo.
- Amaro: più precisamente Amaro Simao, trae origine da Amaro Pargo pirata spagnolo famoso negli annali quanto Francis Drake o Barbanera per chi non lo sapesse. È uno di quegli OC che dovete imprimervi nella memoria per la fine di questa storia purtroppo, perché sarà molto importante. Ha studiato farmacia e pratica la sua professione con scarso rendimento a Down Under, dove si è rifugiato dopo essere sfuggito alla schiavitù dei Nobili mondiali durante l’incendio di Marijoa. È un ottimo pescatore ed ha all’incirca quarantanni.
- Kusudama: letteralmente “sfere medicinali”, si tratta in realtà di elaborati origami a forma di fiori. Oggi vengono utilizzati solamente come decorazioni in Giappone, ma prima di assumere questo ruolo venivano donati in segno di benevolenza e creati con fiori veri in particolari composizioni geometriche. Nella mia storia si tratta di droghe create da Amaro e rivendute al Karyukai.
- Vestito: Celya ha agghindato Aya per la festa, dato che nonostante il suo odio per le frivolezze ama vestirsi bene e sfoggiare gioielli. Ora vi starete chiedendo perché io abbia scritto una nota sul vestito di Aya, ce ne sono già abbastanza convengo… solo ci tenevo a raccontare che ho scelto proprio il color tè perché secondo i precetti del kimono – che non è un semplice abito in Giappone – questo colore potevano e possono indossarlo esclusivamente le mogli dell’imperatore, l’imperatore e i consiglieri. Tutto qui.
- Huerto de los muertos: Frutteto dei morti, uno degli attacchi di Celya. Attacchi che ho deciso avranno sempre una nota macabra a dispetto del miele con cui sono realizzati.
- Tobe: mercenario che attacca Aya, assoldato per intascare la sua taglia e toglierla di mezzo. Deve o meglio, doveva il suo nome a Tobe Ode, altro loa del vodoo meglio noto come Ogun.


  
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