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Autore: PawsOfFire    07/06/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Persi conoscenza dopo poco tempo.
Ho ricordi confusi – terra bollente che esalava  fetore di ruggine e che io stentavo a capire se fosse odore di metallo o di sangue- e la mia cosicenza divenne talmente flebile da non riuscire nemmeno a percepire più il dolore.
So di essermi svegliato molto più tardi – sdraiato per terra in posizione anti-shock e con una gamba steccata - in una specie di corridoio in un edificio. C’era una bella sinfonia nell’aria - forse un concerto di strumenti a fiato – che copriva gran parte delle nostre voci.
Un’infermiera si avvicinò a me. Non ricordo nulla, solo il viso sudato e rosso ed il camice sporco. Mi disse qualcosa e forse io sorrisi. Non c’era abbastanza morfina per tutti e così mi lasciarono stordito dal gran dolore, abbandonato a terra perché non c’erano abbastanza posti letto. Vicino a me c’era un altro carrista di cui riconobbi solo la divisa – con una grande ustione che gli aveva incollato la stoffa al petto. Urlava ma la mia testa era colma di ovatta, sentivo solo il concerto di oboe e clarinetti che mi soffocava assieme al forte odore di cloro e visceri.
Questa volta rimasi sveglio più a lungo. Avevo la bocca asciutta e la lingua era secca a tal punto che pareva sgretolarsi ad ogni parola.
“Acqua” implorai. L’infermiera mi guardò con occhi stanchi e tristi e mi strinse la mano per un po’. Chiesi nuovamente acqua ma non mi rispose. Credo temessero che potessi avere qualche altra ferita interna. Avevo un paio di costole rotte e credevano che potessero aver lesionato qualcosa.
Passai la notte ad implorare acqua mentre l’ospedale continuava a svuotarsi e riempirsi. Mi addormentati sfiancato dal gran dolore.
Il giorno dopo ebbi l’acqua.
In realtà era una specie di brodo disgustoso stranamente caldo. Non potevo alzarmi, così mi imboccò una vecchia e corpulenta infermiera dall’atteggiamento rude.
“Tieni”  disse, ficcandomi il cucchiaio in bocca. Sputai gran parte del boccone a colpi di tosse, sbrodolandomi la divisa come un bimbo di quattro anni.
“Certo che vuoi uomini siete dei mollaccioni” imprecò, sistemando il suo gigantesco culone in una posizione più comoda, prima di cacciarmi un altro cucchiaio in bocca.
“Una volta è arrivata una pilota russa qua, credo fosse una prigioniera di guerra o qualcosa, non so ste robe di politica. Una valchiria, doveva vederla! Aveva preso una botta in testa ed aveva molteplici fratture in tutto il corpo. Non fiatava mentre mangiava il brodo, la ricetta segreta di suor Annette! Fa bollire il cavolo per dieci ore assieme alle patate ed alle rape bianche e poi annaffia tutto con la vodka forte.”

Imparai a sopportare e, perché no, ad affezionarmi alle storie della vecchia Hildegard che ogni giorno veniva a somministrarmi quella zuppa schifosa. Raccontava sempre le storie simili, da Suor Annette che giaceva fuori uso causa vodka in qualche angolo dell’ospedale alle sue giovani colleghe che cinguettavano allegre e che le davano un gran fastidio.

~

Un giorno, mentre ingoiavo a forza la sbobba di rape, si presentò la famigerata suor Annette. Era una minuscola infermiera dagli occhi piccoli ed il naso arcigno, l’alito di vodka e, soprattutto, nessuna veste clericale.
Hildegard mi spiegò che, una volta alla settimana, veniva a trovare personalmente i fruitori della sua zuppa.
“Che bel giovane che abbiamo qua” commentò, sfregandosi le mani.
“Se avessi qualche anno di meno...ma tu hai la faccia di un intenditore, vero? Una donna matura è come un buon vino...vedi di guarire che poi ripasso. Non vi cucino mica la zuppa per niente, io. Almeno sappiate ringraziare a dovere.”
Così, oltre a dover sopportare il prurito insostenibile delle ossa che si saldavano e alla feroce umiliazione di essere servito e pulito come un neonato, avevo anche una vecchia pazza che mi desiderava follemente.
Ed ogni giorno passavano fior di infermiere, eh. Cinguettavano allegre con i soldati più vispi, con i quali condividevano gli stessi desideri primitivi, ignorando misteriosamente il sottoscritto che, nonostante le ferite, rimaneva il soldato più prestante dell’ospedale.

~

FInalmente mi sistemarono in un lettino. Pur avendo una gamba ancora penzolante le mie condizioni di vita migliorarono notevolmente. Per un po’ mi chiesi qualie intercessione divina mi avesse aiutato a trovare un giaciglio migliore.
Immediatamente fu tutto chiaro. Suor Annette mi salutava da lontano con la mano, ammiccando.Iniziai a rimpiangere il pavimento.
Lentamente, almeno, stavo iniziando a recuperare la lucidità. Mi trovavo all’interno di...quella che sembrava una vecchia chiesa ortodossa dismessa. I muri dell’edificio un tempo dovevano essere stati riccamente ornati da splendide figure in oro – forse icone di santi – ora rimosse barbaramente, lasciando in bella vista il cemento grigio appena chiazzato, di tanto in tanto, da macchie di affresco da cui si potevano intravedere arabeschi verdi. Del pulpito, probabilmente in legno pregiato ed intarsiature in metalli preziosi, non rimaneva altro che una grossa scrostatura biancastra ed alcune schegge che non volevano saperne di staccarsi.
Anche il grosso lampadario centrale era stato trafugato. Di lui non rimaneva altro che un rosone dal quale pendeva tragicamente una lampadina collegata ad un filo.
Avevo molto tempo a disposizione, così iniziai a riordinare i ricordi. Se prima ero totalmente proiettato verso la sopravvivenza ora, decisamente più tranquillo, riuscivo ad esprimere qualche concetto più altruista.
Ad esempio. Dov’erano i miei uomini? come stavano? Ricordo di averli visti per l’ultima volta accanto alla carcassa della Furia ma devo aver dimenticato tutto il resto.
Ho perso conoscenza per molto, molto tempo. Quando Hildegard si sedette accanto a me per darmi la zuppa ne approfittai per chiedere di loro.
Lei sbuffò in modo quasi irritato prima di zittirmi infilandomi il cucchiaio in gola.
“Non so chi siano. Mica mi ricordo i nomi di tutti, non sono una macchina! Però senta qua. Assieme a lei è arrivato un uomo spaventoso che indossava una specie di schifezza in testa piena di mosche. Lo so benissimo che vuoi uomini siete dei fetenti, ma quello puzzava come le capre di quella buon’anima di zio Ferdinand. Oltretutto sto bestione era pieno di buchi e spillava sangue come un rubinetto. Sei dottori e cinque infermiere per tentare di sedarlo, roba da pazzi”
Aprì la bocca per rispondere ma l’infermiera corpulenta mi cacciò un altro cucchiaio di zuppa e così dovetti tenere i pensieri per me. Sicuramente doveva trattarsi di Maik,  ci avrei scommesso la testa.
“Alla fine Suor Annette, con la collaborazione del dottor Biermann, è riuscita a sedarlo con un vaso in testa ed una massiccia dose si etere. E’ crollato a terra come un agnellino. Ma doveva vedere il suo risveglio! A quanto pare è uno di quegli esaltati che si curano solo con le erbe, tipo quelle sette schifose. Fossero tutti bravi come lei, ragazzone! Inoltre ha umiliato la povera Irina, l’infermiera ucraina. Ha tentato di ucciderla! Roba da pazzi.”
Mi diede un buffetto sulla guancia ed andò via senza concedermi tempo di replica.

 

~

Passato qualche giorno, dopo essermi accertato che non avrebbero abbandonato il discorso a metà perché dovevano morire, decisi di fare amicizia col vicinato.
Alla mia sinistra avevo una specie di mummia fasciata fino al collo. Gli arti erano sollevati in aria, tenuti sospesi da alcuni ganci invisibili. Fu lui il primo ad attaccare bottone.
“Ehi” disse, voltandosi verso di me.
“Salute” risposi. Il mio tempismo fu alquanto meraviglioso.
La mummia rise talmente forte che iniziò a tossire prima di piangere ed urlare per il dolore provocato dalle risa. Un’infermiera gli diede qualcosa da dormire e la nostra conversazione finì tragicamente.
Provai a conversare con l’uomo alla mia destra ed andò decisamente meglio. Era un giovane tenente la cui gamba era stata tranciata di netto da un carro armato. Tutto sommato non sembrava così amareggiato dal suo destino. Il moncherino bruciava e non riusciva a capacitarsi di aver perso un arto. Lo sentiva ancora suo, nella più totale interezza.
“Adesso mi manderanno a casa” ripeteva, con un sorriso quieto stampato in volto.
“Mi manderanno a casa...e tornerò a mungere le mucche e mangiare il panino con l’anguilla che mi piaceva tanto”
Ne parlava spesso, di quel panino. Ogni volta un rivolo di bava colava ai lati della sua bocca, che lui puliva distrattamente con la mano.
Dopo aver scoperto che provenivamo entrambi dalla Baviera, la conversazione divenne molto più interessante. Parlavamo di luoghi comuni, di monti e di birra. Di valli scoscese, di pascoli e di città che prendevano vita con i nostri ricordi.

 

~

Lo trasferirono.
“Mi mandano a casa!” la sua gioia traboccava di lacrime. Lo avrebbero spedito in un ospedale a Monaco e poi, forse, sarebbe tornato a casa.
Non gli lasciarono il tempo per congedarsi. Gli misero due stampelle sotto le braccia e lo portarono fuori, stipandolo in un furgone pieno di reduci in trasferta verso casa.
In poco tempo il suo letto venne occupato da un altro soldato ed io ebbi uno strano senso di dejà-vù.
L’uomo, nonostante la brutta ustione che mordeva il fianco sinistro per quasi tutta la sua superficie, non riusciva a trattenere l’istinto chiacchiericcio.
Aveva due spessi fondi di bottiglia davanti agli occhi che lo rendevano una specie di angosciante moscone. Come, come...
“Capitano Faust!” mi salutò allegramente, scricchiolando le dita cotte piene di vesciche acquose “Da quanto tempo! Temevo già che fosse morto. Sa, io ero in ricognizione con la mia moto, la “dama dei venti” la ricorda vero? Vero? sono incappato in una trappola. Non era una vera trappola ma la mia moto non capisco, ha preso tipo fuoco ed io sono ruzzolato giù da un pendio ed ho battuto la testa.”
Hilbert Lagenberg. Come dimenticarlo?
Una parte di me sperava intensamente che il cecchino fosse stato schiacciato da una parata di carri armati ma, ancora una volta, il destino mi fu infame e me lo ritrovai nuovamente come vicino di letto.
“Sa quanto mi hanno dato? Almeno un mese di cure. Inizialmente ero davvero preoccupato perché mi avevano messo accanto ad un tizio che continuava a vomitare ed è tipo schiattato mentre gli parlavo. Dannato infame, gli stavo appunto parlando della mia moto e credo di averne  parlato  anche con lei vero, Tenente Faust?”
“Capitano...”

“Stessa cosa. Ma sa, Sergente. Ho ricevuto una sola promozione in vita mia, una! Soldato scelto* dopo un lungo anno! E manco un grazie. Hanno aggiunto un cazzo di pallino alla spallina e tante grazie. Mia moglie mi disse, tanto tempo fa: “guarda che se torni a casa senza spalline dorate io chiedo il divorzio!” poi mi sono ricordato di non avere una moglie...”
Ricorsi ad uno stratagemma disperato. Quando ero una recluta, alla caserma d’addestramento, un ragazzo mi aveva insegnato come simulare la febbre.
Trattenni il fiato. E lo feci a lungo tempo, prendendo brevi boccate d’aria per cercare di diventare rosso il prima possibile. Le costole rotte non gradivano questa tecnica ma non avevo scelta. Non potevo sopravvivere vicino al cecchino miope per tutto quel tempo, forse anche di più…
Quando un’infermiera si accorse delle mie condizioni alquanto gravi immediatamente si avvicinò a me, accarezzandomi la fronte.
Per risultare più credibile iniziai a tremare.
Preoccupatissima la giovane mi piazzò un bel termometro sottobraccio, assicurandomi che sarebbe tornata dopo cinque minuti.
Il tempo necessario a far alzare ulteriormente l’asticella con un piccolo giochetto di fisica. Mi ritenni sufficientemente soddisfatto quando raggiunsi i trentanove gradi.
Anche l’infermiera concordò con me. Immediatamente mi diedero qualcosa per abbassare la temperatura e mi costrinsero ad un sonno profondo.
Al mio risveglio, purtroppo, mi accorsi che il mio piano non era andato esattamente a buon fine. Speravo mi potessero spostare di letto per evitare un contagio.
In compenso mi trovai davanti il dottor Biermann, decisamente stupito.
“Buongiorno Faust” mi salutò, portandosi una penna alla bocca. Ne succhiava la punta come fosse una sigaretta, lasciando che un piccolo alone nero gli colorasse le labbra.
“Ho una fottuta voglia di fumare ma più va avanti la guerra e più i turni diventano duri.” Disse, portando la china al blocco da appunti che teneva in mano per annotarsi qualcosa.
“Non ho voglia di dilungarmi. Ieri abbiamo deciso senza il suo consenso di sperimentare su di lei una nuova medicina per levare la febbre.
Il risultato è stato decisamente miracoloso...in poche ore abbiamo abbassato la temperatura di ben tre gradi...stupefacente, non trova?”

Non sapevo esattamente cosa dire riguardo il mio finto malanno. Così finsi stupore.
“La medicina moderna è veramente eccezionale”
“Certo che si” aggiunse, concedendosi uno sbuffo. Si girò verso il cecchino miope.
Dormiva profondamente.
“Glielo devo confessare. Se quel tipo non migliora saremo costretti a tagliargli il braccio compromesso dalle profonde bruciature. Dunque mi chiedo, Capitano Faust.
Secondo lei mi lasceranno schiacciare tutte le vesciche, dopo? Adoro vederle scoppiettare”

“La ringrazio per la deliziosa immagine fornita, Herr Biermann.”
“Si figuri” Il dottore si portò nuovamente la penna alla bocca, prima di scarabocchiare nuovamente qualcosa sul blocchetto.
Il vecchio Helmut aveva una passione per il macabro e per i soldi. Spesso chiedeva un compenso in denaro per salvare un arto dall’amputazione. Così, in caso di mancato pagamento, si sentiva autorizzato alla rimozione chirurgica che tanto amava eseguire.
A sua discolpa bisognava ammettere che era davvero bravo ad operare: su dieci braccia levate otto pazienti erano guariti perfettamente. Se eri ricco e cosciente, Biermann era l’uomo giusto per te.
“Senta...ha notizie dei miei uomini?” gli chiesi. Nessuno fino ad ora aveva saputo darmi una risposta soddisfacente. Il medico si levò gli occhiali, sfregandosi un occhio, prima di tornare a succhiare la punta della penna.
“Lasciami pensare...Gerste, quello grosso, il...”
“Tecnicamente dovrebbe essere il marconista**”

“Quello, esatto. Abbiamo passato una mattinata a rimuovere pallottole dal suo corpo. Ne abbiamo tirato fuori dieci.
Dieci affari così”
Si tolse la penna dalla bocca per mostrarmi la grandezza dei bossoli. Poi la rimise a posto.
“Ce ne siamo accorti solo quando ha iniziato ad estrarseli con i denti, come fanno i cani. Incredibile, glielo assicuro. E’ arrivato qua in perfetta forma e le dirò, ha dato una mano a caricare i feriti nelle barelle. Niente Pervitin, oltretutto. L’ho detto subito ad un collega mio amico che ha degli intrallazzi nel mondo della genetica. E’ un gene buono, da preservare.”
“Gli altri?”

“Weisz è stato abbastanza fortunato. Con un simile incidente un braccio rotto e qualche punto in testa è considerabile un miracolo.
Achen e Jager sono rimasti illesi. Come sempre. Stando alle parole di Gerste i due si sono polverizzati un attimo prima dell’impatto. Ho detto loro di occuparsi di Fiete.
E’ un bravo cane, nonostante abbia pisciato mesi fa dentro la mia tenda.”

Socchiusi gli occhi per un secondo, sospirando sollevato. Quando sono stato promosso ho giurato tacitamente che mi sarei preso cura di loro. Che i bimbi di Klaus, le sorelle di Tom e i genitori di Martin non avrebbero mai letto quella finta lettera piena di boria che avrei dovuto scrivere io stesso, decantando la gloria della morte in battaglia. Con Maik sarebbe più facile. E’ un vecchio orso cresciuto in un collegio, orfano da quando ha memoria, soldato da una vita.
Non ha nessuno, tranne noi. Forse non concepisce nemmeno questi sentimenti zuccherosi ma sono sicuro che, in fondo alla sua pelliccia, concepisca nel cameratismo la forma più lucida e sincera dell’amore. Al fronte siamo tutti fratelli di sangue versato, no?
“Grazie, Biermann.”
Il medico abbozzò un leggero sorriso. Guardò l’orologio e si precipitò fuori dall’edificio, infilandosi frettolosamente un paio di sigarette in bocca.
Dalle finestre – un tempo colorate ed ora rattoppate con insipido vetro trasparente – rifletteva un pallido tramonto. Se tendevi l’orecchio, forse, potevi immaginarti uno stormo di Stuka volare sulle nostre teste. Ogni rumore era coperto con dolci note di viole e clarinetti che coprivano le urla e, forse, ti lasciavano l’illusione dolceamara della quiete.Quanto tempo sarei rimasto qui? Settimane, mesi? Avevo perso da molto la cognizione del tempo. Di certo non valeva la pena sforzarsi di pensare. Chiusi gli occhi e scivolai nell’ennesimo lungo sonno senza sogni.

Note: 

*
Genericamente questo grado si otteneva dopo aver servito un anno l'esercito ma, essendo che spesso i soldati venivano promossi a Caporale nel medesimo tempo, il ruolo venne rilegato perlopiù a coloro decisamente poco promettenti.
**Colui che si occupa della comunicazione via radio. Maik è uno spirito libero con una leggera claustrofobia. In sostanza la Furia è priva di marconista.

   
 
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