Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: BabaYagaIsBack    15/06/2017    1 recensioni
Re Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano.
Alchimista.
In una fredda notte, in quella che ora chiameremmo Gerusalemme, stringe tra le braccia il corpo di Levi, come se fosse il tesoro più grande che potesse mai avere. Lo stringe e giura che non lascerà alla morte, il privilegio di portarsi via l'unico e vero amico che ha. Chiama a raccolta il coraggio e tutto ciò che ha imparato sulle leggi che governano quel mondo sporcato dal sangue ed una sorta di magia e, per la prima volta, riporta in vita un uomo. Il primo di sette. Il primo tra le chimere.
Muovendosi lungo la linea del tempo, Salomone diventa padrone di quell'arte, abbandona un corpo per infilarsi in un altro e restare vivo, in eterno. E continuare a proteggere le sue fedeli creature; finchè un giorno, una delle sue morti, sembra essere l'ultima. Le chimere restano sole in un mondo di ombre che dà loro la caccia e tutto quello che possono fare, è fingersi umani, ancora. Ma se Salomone non fosse realmente morto?
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Capitolo Ottavo

FUGA
parte prima

 

"Now I feel the fear rising up
Climbing up, taking over my body
And I feel my pulse starting up
Waking me again"

-Set me on fire (Flayleaf)  

 

Il padrone di casa, cercando di trovare la concentrazione necessaria, storse le labbra chiedendo alla sorella di fare un calcolo veloce: quante voci sentiva? Quanti passi? Erano più o meno di loro? Ma Alexandria si limitò a digrignare i denti, indispettita: «Se ti chiedo una via di fuga è perché non siamo in grado di contrastarli al momento, quindi, per l'amor del cielo, vuoi dirmi se c'è o meno un modo per andare via da qui senza che ci vedano?» Il suo fu poco più di un sussurro, ma arrivò chiaro alle orecchie dell'uomo che, stringendo la morsa sulla lingua, provò a mantenere la calma - la pace che si era costruito in quell'angolo di mondo stava per essere fatta a pezzi e non era certo di essere pronto a dirgli addio - ci erano voluti anni per ottenere quella parvenza di normalità! Eppure, volente o meno, il destino stava scegliendo per lui, indirizzandolo ancora una volta verso Salomone.
Abbandonare quella casa, pensò amaramente, avrebbe equivalso a ritrovarsi senza un luogo in cui stare e fuggire da Venezia lo avrebbe costretto a perdere il proprio lavoro e ciò che aveva costruito sino a quel momento, trasformandolo nuovamente nella Chimera che avrebbe desiderato non essere più, ma che alternative aveva, se non desiderava diventare una cavia da laboratorio? 
Dalle labbra sottili gli sfuggì un sospiro greve. La consapevolezza di non aver altra scelta se non quella di scappare con i fratelli si fece tanto concreta che, alla fine, si ritrovò a far loro un cenno. 

Passo dopo passo, senza guardarsi indietro, Zenas si avviò verso la piccola scala a chiocciola che conduceva al piano superiore. L'esperienza gl'impedì di restare incagliato tra un gradino e l'altro, ma Levi, dal canto suo, si ritrovò a inciampare più volte durante la salita. Le sue imprecazioni li accompagnarono fino al pianerottolo successivo, mentre Alexandria, a chiusura della fila, cercava in tutti i modi di non commettere i medesimi errori. Nonostante tenesse una mano in avanti, pronta ad afferrare il ragazzo che aveva davanti in caso di caduta accidentale, o trovare appiglio se mai fosse stata lei quella a ruzzolare, la giovane non distolse gli occhi dalla porta d'ingresso, sempre più lontana, così come fece Akràv. L'ansia stava crescendo in tutti loro con prepotenza, lo sentiva nelle ossa senza dover soffermarsi a guardare le espressioni dei fratelli - eppure gli parve di essere l'unico a provare anche un po' di paura. Per quale ragione però? Perché stava per dire addio a tutto? Perché in gioco c'era la sua vita e quella dei membri della sua famiglia? Oppure perché una cattura avrebbe significato non rivedere Salomone?

Deglutendo, l'uomo mise piede sul pavimento del primo piano e, a grandi falcate, si diresse al lato opposto del corridoio, lì dove un'altra scala li attendeva per condurli verso la mansarda. Nelle orecchie udiva appena i passi delle altre Chimere, lievi come fruscii, e per un attimo si sentì stringere il cuore. Quanto gli era mancato quel suono, la consapevolezza di essere con i propri simili, di non dover fingersi qualcun altro. Se d'improvviso la sua spina dorsale avesse preso a scricchiolare e allungarsi, sapeva che loro non avrebbero avuto alcuna reazione, che non si sarebbero spaventati - al massimo, avrebbero potuto mostrare a loro volta le mutazioni dell'Ars.

Aggrappandosi al corrimano, lanciò un'ultima occhiata al di sopra della testa della sorella, mutamente salutando la propria casa e controllando ancora una volta che nessuno avesse già fatto irruzione lì dentro, poi prese a salire.

«Venite, ci siamo quasi...»

L'angusta mansarda li accolse tra scatoloni e libri ammucchiati e, per evitare di picchiare la testa, sia lui che Levi dovettero restare piegati in avanti, schiacciandosi il più possibile per permettere anche ad Alex di raggiungerli in quel marasma. Se Zenas avesse mai pensato che un giorno, prima della sua nuova morte, quel luogo potesse essere utile per fuggire dal Cultus, certamente avrebbe evitato di riempirlo d'inutili cianfrusaglie - peccato che con il passare del tempo aveva finito col credere che a Venezia sarebbe spirato anche senza l'aiuto di quei folli.

Alzando il viso verso le travi del tetto, il Greco indicò l'unica via di fuga rimasta loro: il lucernario. Non si trattava d'altro che d'un mero rettangolo di vetro fissato al legno e, nel fissarlo, un dubbio si fece strada in lui: ci sarebbero passati? Perché come per l'ordine assente di quella stanza, anche la dimensione della finestra non era stata scelta per essere usata come uscita secondaria in caso di pericolo.
«Scherzi?» Levi portò una mano all'infisso, studiandolo accuratamente: «E' un doppio vetro, inoltre...» guardò dapprima lui, poi sé stesso e infine la sorella, «Tu ed io abbiamo le spalle grosse».
«Vedi altre opzioni, akh?»

Il Generale storse le labbra, increspando la pelle del viso. Nella luce di quella mansarda le sue squame sembrarono quasi finzione, eppure Akràv non poté che trovarle rassicuranti. Aveva un ché di tranquillizzante vedere il fratello nella sua forma meno umana - perché nel caso non fossero riusciti a passare, almeno avrebbero potuto combattere.
«Riesci a spaccarlo?» 
Anche l'omaccione portò le proprie dita verso il vetro e, dopo averne valutato lo spessore, annuì. La sua carne era una corazza, un guscio abbastanza resistente da permettergli di non ferirsi - oltre a ciò, tra di loro, era il più robusto.

Alex si fece vicina: «Sapete, vero, che nessuno di noi è un animale da salto sui tetti e là fuori è pieno giorno?» 

Zenas si sentì vacillare. In effetti non aveva valutato nemmeno quel dettaglio. Se non potevano usare le loro doti da Chimera a causa dei possibili spettatori, come avrebbero fatto a muoversi sulle tegole traballanti dei tetti?
Ma poi, a smorzare la tensione, arrivò Levi. Con uno dei suoi sorrisi rassicuranti li osservò entrambi: «Mai sentito parlare del parkour? Ci basterà fare qualche acrobazia nelle vicinanze della folla e nessuno si soffermerà sul nostro aspetto».
«Mi hai mai vista fare acrobazie?»
«Beh, non conosco tutte le tue doti, akhot» bastò una leggera piega per trasformare l'espressione di Nakhaš in una maschera di malizia - ma quello non era certo il momento migliore per stuzzicarsi tra loro.

«Avete finito di flirtare come due ragazzini? No, perché abbiamo qualcosa di più importante a cui pensare...» e così dicendo, sfilandosi la felpa dalle spalle, il Greco se l'avvolse intorno al polso e sulla mano, in modo da attutire il colpo - perché più che per la propria carne, che faticava a subire danni, temeva di far rumore e attirare le attenzioni degli alchimisti.
Premurandosi subito dopo di far allontanare i fratelli, si preparò a colpire. Il pugno che tirò al vetro fu veloce, secco, ma non servì a mandare in frantumi la lastra; ciò che ottenne fu solo una ragnatela di crepe.
Dekára, imprecò prima di riprovare e, stavolta, una pioggia di schegge trasparenti cadde loro addosso, sfiorandoli senza ferirli. I cocci colpirono il suo viso con inaspettata dolcezza e poi, d'improvviso, la frescura mattutina arrivò nella mansarda accarezzando tutti - e Zenas, dovette ammetterlo, quasi la sentì sussurrare parole di salvezza.

«Vado per primo, se a voi sta bene» a chiunque, quell'affermazione, sarebbe potuta apparire egoista. Con che presunzione, il padrone di casa, lasciava indietro i suoi ospiti? Non avrebbe forse dovuto pensare prima a loro, o quantomeno ad Alex, l'unica donzella lì presente? Eppure, le motivazioni dell'uomo erano in realtà ben più altruiste di quanto si potesse credere: il suo corpo, a contatto con i resti del vetro rimasti attaccati all'infisso, non avrebbe subìto danni e quindi lasciato tracce per quei fanatici, per non parlare del fatto che se le tegole fossero state instabili, lui avrebbe potuto utilizzare la propria coda per attaccarsi al tetto e non precipitare al di là della grondaia.
Così, concedendo un'ultima occhiata ai fratelli, Akràv si aggrappò ai bordi frastagliati e si issò oltre il bordo del lucernario. La testa passò senza alcun problema, ma quando fu il turno delle spalle, si ritrovò incagliato nel rettangolo di alluminio. Dovette stringere i denti, far leva sui bicipiti, muoversi un po' all'interno dello spazio disponibile e, tra la caduta di un coccio e un pezzo di stoffa stracciato, riuscì infine a sgattaiolare fuori da quella angusta mansarda. 

Le suole delle infradito provarono a tradirlo sulla ceramica rovente. Avvertì i piedi scivolare più volte e, all'ennesimo ruzzolone scampato, si levò le ciabatte con un grugnito.

«Si vede che non sei più abituato alle fughe!» La risata di Levi gli fece volgere lo sguardo verso il buco nel tetto, lì dove il Generale, con meno difficoltà di lui, stava sgusciando fuori da casa.
«Tu invece sì?»
L'altro, sedendosi sul bordo, alzò un piede verso di lui, facendo bella mostra degli anfibi: «Io sono pronto a qualsiasi cosa, akh!» e subito, senza dagli modo di controbattere, con un gesto lesto si piegò nuovamente verso l'interno dell'edificio.
Nakhaš stava evidentemente facendo il cavaliere e al contempo il giullare, provando a smorzare la tensione. Con la schiena curva su quel che restava della finestra, tese un braccio alla sorella, invitandola a raggiungerli lì sopra - peccato che dal modo in cui i suoi muscoli reagirono, persino a Zenas fu chiaro che qualcosa stava andando storto. 

 


 

 

Ritrarre le dita fu un gesto tanto inaspettato per Levi, quanto per lei. Alexandria osservò i polpastrelli di lui, lo smalto scuro sbeccato in più punti, gli anelli che nella luce della mattina riflettevano piccole scintille, eppure non riuscì ad afferrarli.

«Akhòt... che stai facendo? Muoviti, dobbiamo andare! Non ti starai mica cacan-» 
«No! Ma voi... voi  andate, okay? Io arrivo». Sentiva il cuore martellarle nel petto, l'agitazione crescere a ogni istante in cui, volontariamente, evitava lo sguardo di lui per mantenersi salda alla follia che aveva preso a vorticarle nella mente - però seppe comunque che, sul viso del fratello, il sorriso di solo qualche istante prima stava pian piano svanendo. 
«Amád at hiţĕbȧdé̇ẖa? Lo et réga-h tzodék!» ma Z'év mosse un passo indietro, allontanandosi.
«ʼny ywdʻ, avál shem ráẕáh rak mʻt réga» disse ancora, sentendo il tallone sfiorare il vuoto - la rampa di scale era proprio alle sue spalle, mentre il nervosismo di Levi evidentemente davanti ai suoi occhi.

Lo vide sporgersi sempre più, mugugnare qualche minaccia e, a quel punto, voltandosi, iniziò a scendere le scale prima che lui potesse decidere di farla uscire di lì con la forza - una prospettiva tanto assurda quanto reale, ne era conscia.

Sì, suo fratello aveva perfettamente ragione, dovevano fuggire e mettersi in salvo, ma non avrebbero mai potuto farlo se prima non avesse recuperato qualcosa di estremamente prezioso, abbandonato al piano di sotto: la targhetta con il nome e l'indirizzo del nuovo Hagufah.

I suoi piedi si mossero svelti lungo i gradini, saltando gli ultimi per recuperare quanto più tempo possibile. Sbatté contro qualche anta nella foga della corsa, mugolando per il dolore che avvertiva, ma alla fine raggiunse il salottino. 
Aveva i sensi in allerta, sentiva la minaccia farsi maggiore dopo ogni battito di ciglia. Erano in tanti, lo sapeva, e si trovavano proprio nella calla oltre l'ingresso, a pochi metri da lei - e se d'improvviso fossero entrati? Oh, in quel caso l'avrebbero sicuramente trovata impreparata. Con un corpo in condizioni simili era consapevole di non poter contrastare più di un paio di loro, eppure era corsa lì, da sola. Avrebbe potuto chiedere a Levi, oppure a Zenas, invece non lo aveva fatto: perché? Forse un'altra di quelle sue stupide manie? La sete di perdono che aveva anelato senza sosta per quasi trent'anni? Non lo sapeva, ma il tremore delle mani parlava di una paura assai più chiara delle motivazioni per cui era tornata in quella stanza. Il suo Re.
Salomone.
Sempre lui.

A tentoni, Z'èv prese a cercare la targhetta. Tastò il tavolo, spostando senza risultato i pochi oggetti rimastigli sopra, poi provò a cercare nei pressi della finestra dove era stata rannicchiata tutta la sera, ma nemmeno a quel punto la trovò - piuttosto però, scorse ombre tutt'altro che rassicuranti al di là dei vetri sabbiati.
I battiti del cuore si fecero sempre più veloci, urtando contro la gabbia toracica finché, d'un tratto, se lo trovò in gola.

Doveva sbrigarsi.

Senza reale logica si fiondò verso la cucina. Doveva essere lì, non c'erano altri posti in cui aveva visto Akràv o  Nakhaš maneggiarla. Con foga prese ad aprire ante, a guardare dentro ai barattoli più disparati e, alla fine, in un angolo accanto al lavandino, sotto al panno con cui suo fratello aveva asciugato le stoviglie della sera prima, vide l'oggetto del suo interesse, insieme a qualcosa di altrettanto interessante. E così, mentre le sue dita si stringevano intorno al metallo, gli occhi venivano completamente rapiti dai bagliori rossastri delle ultime ɛvɛn. Non erano molte, giusto una manciata, ma abbastanza da stuzzicarle l'appetito; con quelle la sua carne avrebbe smesso di dolere e riempirsi di piccoli lividi, la sua parte Chimera avrebbe trovato pace - e diamine, se le voleva.
Premendo gli incisivi nel labbro, Alexandria cercò di resistere al desiderio di afferrarle e ingozzarsi senza ritegno, anche se le venne difficile, ad ogni secondo sempre più - quindi alla fine infilò la mano libera dentro il barattolo, tirandole fuori e inebriandosi all'idea del sollievo che avrebbero potuto darle. Erano state una droga in quegli anni di solitudine, ne aveva abusato spingendosi quasi a consumarle tutte e, quando il Generale si era presentato alla sua porta, si era chiesta cosa avrebbe pensato di lei nello scoprirlo - dopotutto, come Zenas, Hamza e Colette, lui non ne aveva tutto quel bisogno; i loro corpi erano stati sottoposti a così tanti rituali d'aver ampliato i limiti della sopportazione. Che male avrebbe fatto, quindi, appropriarsi di quei resti? Se fossero restate in quella casa le ɛvɛn sarebbero andate sprecate - perché permetterlo?

Attenta, la Contessa posò tutte le sfere nel panno che aveva accanto e poi, con altrettanta cautela, ne fece un fagottino che infilò nella tasca della giacca alle sue spalle, quella che, come Levi al loro arrivo, aveva adagiato sullo schienale della sedia. Nel rimettersela addosso però, non poté negare a se stessa di sentirla molto più pesante di come la ricordava, quasi quelle piccole palline cremisi potessero sfondare il tessuto da un momento all'altro, svelando il suo riprovevole gesto.

Fu in quel momento, però, che qualcuno bussò alla porta, riportandola con violenza alla realtà - una violenza che le fece tremare le gambe e afferrare con forza il bordo del pianale della cucina.

Erano loro? Il Cultus aveva infine deciso di agire?

Paralizzata, Z'èv non riuscì a impedire agli occhi d'incastrarsi tra le venature del legno dell'orribile porta che, ancora una volta, le parve troppo malandata e sottile per poter restare in piedi e farle da scudo.  

Uno.
Due.
Tre.
Quattro.
Perché le mie gambe non si muovono?, si chiese, incapace persino di deglutire.

Cinque.
Sei.
Sette.
E se stavolta muoio davvero? Se lo faccio prima di ritrovarlo?, non seppe spiegarselo, ma gli occhi iniziarono a bruciare con eccessiva intensità. Da quanto tempo il terrore non l'attanagliava a quel modo? Sicuramente abbastanza da farle provare ogni sensazione in modo amplificato.

Otto.
Nove.
Dieci.
Ma io non posso perderlo ancora, non prima di...

Un nuovo tentativo la ridestò. 
Doveva andare, correre verso i fratelli il più velocemente possibile. Il Cultus era lì e lei non poteva permettersi né di essere catturata nè di fargli trovare la targhetta che teneva nella mano - avrebbero saputo dove cercare gli altri e, soprattutto, avrebbero potuto trovare lui.
Così, armandosi di fermezza, si mise a fuggire. Falcata dopo falcata, Alex si spinse su per i minuscoli e minacciosi gradini della scala a chioccola, ma appena mise piede sul pianerottolo del piano superiore, il suono della porta che veniva scardinata la fece sussultare e inciampare sui propri passi. 
Erano entrati. 


 

Amád at hiţĕbȧdé̇ẖa?: stai scherzando?
Lo et réga-h tzodéknon è il momento giusto
ny ywdʻ, avál shem ráẕáh rak mʻt régalo so, ma ci vorranno solo pochi istanti

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: BabaYagaIsBack