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Autore: Adeia Di Elferas    23/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'aria nella stanza puzzava di chiuso, sporco e trascuratezza. La poca luce che filtrava dalla finestra alta permetteva di vedere la confusione che imperversava in ogni angolo.

Caterina, che si era subito richiusa la porta alle spalle, forse per paura che il figlio, nel vedere uno spiraglio di libertà, potesse scapparle da sotto al naso, ci mise qualche istante per trovare Ottaviano in quel caos silenzioso.

Il ragazzo era accucciato accanto al letto, le braccia lunghe e magre strette attorno alle gambe piegate.

La Contessa lo fissò, e si accorse che lui stava facendo altrettanto.

Aveva i capelli che arrivavano ben oltre le spalle, scompigliati e annodati. Sulle sue guance e sul mento si era fatta strada una barba scura, abbastanza folta per i suoi diciassette anni, e i suoi occhi rilucevano nella penombra come due punte di spillo.

“Alzati.” disse piano la Tigre, sentendo la bocca seccarsi e il cuore battere sempre più forte.

Era passato quasi un anno, dall'ultima volta in cui si era trovata davanti Ottaviano. Ed era stato quando l'aveva condannato alla reclusione.

Il giovane sollevo sulle gambe secche con movimenti un po' stentati. Quando fu in piedi, Caterina si accorse che la superava in altezza di quasi tutta la testa.

Il suo corpo si era asciugato molto in quei lunghi mesi, forse anche per colpa delle restrizioni nel mangiare a cui l'aveva sottoposto.

Il suo volto era in gran parte nascosto dai capelli e dalla barba, la qual cosa gli dava un'aria negletta e disperata.

A uno sguardo più attento, però, la Contessa si accorse che comunque suo figlio non aveva le unghie lunghe e che i suoi abiti non sembravano troppo rovinati. Malgrado i suoi ordini, era chiaro che qualcuno avesse avuto un occhio di riguardo per lui, durante quella lunga detenzione.

“Avvicinati.” ordinò la donna, restando ferma al suo posto.

Ottaviano deglutì, il pomo d'Adamo che correva nel collo lungo, ricordando in modo impressionante Girolamo Riario, suo padre. Anche il modo in cui camminava richiamò alla mente di Caterina il primo marito.

Quando il figlio si fermò, a meno di mezzo metro da lei, la Tigre si trovò a rimembrare di quando, ritornata precipitosamente da Milano, aveva trovato Girolamo chiuso in una stanza, lercio e disordinato. Al suo contrario, però, Ottaviano aveva gli occhi accesi e vigili, tutt'altro che folli.

Le pupille di madre e figlio si specchiarono le une nelle altre, cercando un punto di contatto e alla fine, nello stesso istante, entrambi sentirono il bisogno di avvicinarsi di più.

Caterina prese tra le braccia Ottaviano e il ragazzo la tenne stretta a sé quasi con rabbia. La madre ricambiò quello slancio con uno altrettanto violento e, prima che uno dei due riuscisse a capire cosa stesse accadendo, entrambi iniziarono a piangere.

“Perdonami.” sussurrò la Leonessa, dando un bacio sulla tempia a Ottaviano.

Questi singhiozzò come un bambino e si aggrappò ancora di più alla madre che, forse per la prima volta nella sua vita, sentì una reale connessione con quel figlio che per troppo tempo aveva odiato in modo cieco e ostinato.

Quando i gemiti del giovane si affievolirono fino a spegnersi quasi del tutto, Caterina lo prese per le spalle e, gli occhi ancora lucidi, se lo mise davanti e chiarì: “Anche io ti perdono per quello che mi hai fatto, ma non farlo mai più.”

Ottaviano scosse il capo e si buttò ancora una volta tra le braccia di sua madre e lei lo lasciò fare, accarezzandogli pian piano la nuca.

Sapeva che colui che la stava abbracciando era il reale assassino di Giacomo, ma sapeva anche che era suo figlio e che se era diventato così buona parte di colpa era sua. Era l'assassino dell'unico uomo che avesse mai amato, ma era anche il suo primogenito. Il primo figlio, quello che avrebbe dovuto essere la luce dei suoi occhi, secondo le regole del mondo.

“Quando sei nato avevo sedici anni.” disse la donna, mentre Ottaviano cominciava a calmarsi, pur non staccandosi da lei: “Ero troppo giovane. Odiavo tuo padre. Io non ti volevo.”

Caterina avvertì i muscoli del figlio contrarsi in modo spiacevole, mentre lei finalmente riversava ciò che teneva dentro, ma proseguì, pensando che se anche Ottaviano l'avesse strangolata in un lampo di rabbia, per colpa di quella confessione, a lei non sarebbe importato. La cosa che le premeva più di ogni altra era cercare di farsi capire, a qualsiasi costo.

“Poi sono nati i tuoi fratelli ed è passato il tempo e più crescevo più tentavo di accettare i figli che tuo padre mi imponeva.” continuò la Tigre, la mano sempre intenta a lisciare i capelli arruffati sulla testa di Ottaviano: “Ma tu, crescendo, sei diventato sempre più simile a lui e io non sono mai riuscita ad accettarlo.”

“Perché lo avete odiato così tanto?” chiese a quel punto il ragazzo, la voce arrochita dal lunghissimo silenzio di quei mesi e un po' diversa da come la ricordava sua madre.

La Contessa rinverdì l'abbraccio, ben decisa a non permettere a Ottaviano di vederla in viso mentre diceva: “Mi hanno fatto sposare tuo padre quando avevo nove anni.”

“Questo lo so, ma...” cominciò a ribattere il giovane, però Caterina lo zittì, stringendo più forte.

“Tuo padre, suo zio il papa e suo fratello avevano preteso che il matrimonio venisse consumato subito, per impedire a mio padre di ritrattare le nozze in un secondo momento, se fosse riuscito a trovare una scappatoia.” raccontò la Tigre, in fretta, per non sentirsi assalire dalla nausea che sempre la colpiva quando ricordava quel momento della sua vita.

“Ma mio padre non può aver...” mormorò incredulo Ottaviano, scuotendo piano la testa e cercando di divincolarsi dalla stretta di sua madre, che si era fatta ferrea, come se volesse fargli del male.

“Tuo padre l'ha fatto, invece.” lo contraddisse Caterina e finalmente lo lasciò andare.

Il giovane occhieggiò verso la madre solo di sfuggita, apparentemente sconvolto da quella rivelazione.

“Guardati...” sussurrò la Contessa, passandogli una mano sulla barba scura che scendeva tutta arricciata fin quasi a toccargli il petto: “Sei un uomo, ormai.”

Ottaviano respirò con lentezza e alla fine disse: “Quello che vi ho fatto... Io volevo solo la vostra attenzione. Il vostro affetto.”

La Tigre si asciugò le guance con il dorso della mano e annuì: “Lo so.”

Il figlio, a quel punto, avrebbe solo voluto restare con lei, anche senza dire o fare nulla. Gli bastava averla lì davanti a sé.

E invece la donna andò verso la porta e così il ragazzo tornò al letto sfatto e vi si sedette sopra, pronto ad altri lunghi mesi di silenzio e solitudine.

“Sei libero.” disse Caterina, dandogli le spalle: “Manderò qui un paio di servi, che ti aiutino a rimetterti in ordine. Se vuoi, stasera potrai mangiare a tavola con me e coi tuoi fratelli.”

Ottaviano non credeva alle sue orecchie.

Lasciò le lenzuola luride su cui si era messo a sedere e si avvicinò alla madre: “Davvero mi liberate?”

La donna si voltò con lentezza e i suoi occhi tornarono per qualche istante fiammeggianti come lo erano stati il giorno in cui aveva sbattuto il figlio in quella stanza che gli aveva fatto da cella per quasi un anno: “Sì, davvero. Ma sappi che da oggi in poi non sono più ammessi errori. Un solo passo falso, e ti taglio la gola con le mie mani.”

Il ragazzo comprese bene che quelle non erano minacce a vuoto. Chinò il capo arruffato e poi si mise in ginocchio, come avrebbe fatto un qualunque suddito di fronte a un ordine solenne della Tigre di Forlì.

Caterina lo fissò per un lungo istante, chiedendosi se stesse facendo la cosa giusta.

Quanto erano pesate le parole di Giovanni Medici in quella sua decisione?

Quanto la consapevolezza che l'ambasciatore di Firenze diceva il giusto, quando la metteva in guardia sul pericolo che stava correndo nel lasciare il figlio in gabbia, quando gli occhi del papa erano puntati su di lei?

Quanto, invece, il suo desiderio di far pace con il passato?

Siccome non trovava una risposta che fosse di suo gradimento, la Leonessa ricordò ancora una volta al figlio che presto sarebbe arrivato qualcuno ad aiutarlo a vestirsi e rimettersi in sesto e lasciò la camera.

 

La notizia che il Conte Riario era infine stato liberato aveva fatto in fretta il giro della rocca, passando di bocca in bocca come una saetta.

In molti non volevano crederci, ma si dovettero arrendere all'evidenza quando quella sera a cena, Ottaviano si presentò a tavola e si sedette alla destra di sua madre. Era chiaramente patito, ma un po' gli abiti freschi e un po' il taglio corto e curato dei capelli, sembrava messo anche troppo bene, per essere un recluso appena uscito dalla cella.

Giovanni, che aveva cercato di presentarsi nella sala dei banchetti alla stessa ora della famiglia Riario, in modo da poter vedere la scena, notò come Caterina e il suo primo figlio non si fossero scambiati nemmeno uno sguardo, figurarsi una parola, ma vide anche come oltre al Conte ci fosse pure Cesare, che di norma rifuggiva la tavola tanto affollata, seduto alla sinistra della Tigre.

I loro fratelli cercavano di fare conversazione e, per quanto la cena stesse risultando molto tesa e abbastanza mesta, nessuno avrebbe potuto fare osservazione ai commensali, visto che i Riario si trovavano in ogni caso in lutto.

Dopo aver mangiato, il fiorentino fece per ritirarsi nelle sue stanze. Quei giorni erano stati abbastanza stancanti per lui e aveva bisogno di riposare. In più, aveva sentito la Contessa parlare con la figlia e sembrava che la famiglia volesse ritirarsi per qualche tempo nella sala delle letture, dove la ragazzina avrebbe cantato. 'Come faceva nostra zia', aveva aggiunto Bianca, mentre ne chiedeva il permesso alla madre.

Da solo nella sua stanza, Giovanni prese il libro di Boccaccio che aveva a suo tempo prestato alla Contessa e ne rilesse qualche pagina.

Stava quasi per assopirsi quando bussarono alla porta. Il Medici chiese chi fosse e gli rispose la voce del castellano.

In maniche di camicia da camera, ben lungi dal formalizzarsi, l'ambasciatore andò ad aprire e Cesare Feo gli porse una lettera: “Non volevo disturbarvi a quest'ora, ma la staffetta che l'ha portata ha detto che era cosa abbastanza urgente.”

Giovanni si accigliò e ringraziò, rompendo il sigillo recante le sei palle d'oro dello stemma di famiglia ancor prima che il castellano si allontanasse.

L'autore del messaggio era suo fratello e fin da subito il Popolano più giovane subodorò qualcosa di strano nelle parole di Lorenzo.

Dopo averla riletta almeno quattro volte ed essersi fatto un'idea molto precisa di quello che suo fratello e sua cognata dovevano avere in mente, Giovanni accantonò la lettera, si infilò di nuovo gli abiti appena smessi e uscì dalla sua stanza, irritato e nervoso, in cerca di una distrazione.

Camminò lungo i corridoi quasi del tutto bui della rocca e, senza avvedersene, arrivò fino ai piani occupati dal servidorame.

“Possibile che vi trovi nei posti più strani e agli orari più strani?” giunse la voce della Contessa, da oltre la porta della cucina: “E non provate a dire che la stessa cosa vale per voi con me, perché si dia il caso che questa è casa mia e che l'ospite siate voi.”

Riscuotendosi nello scoprirsi in una zona ignota di Ravaldino, Giovanni si rese conto di aver perso l'orientamento, tanto era immerso nelle sue congetture e trovarsi lì la Tigre aveva qualcosa di profetico.

Entrando nelle cucine, l'uomo la salutò e la prima cosa che gli saltò all'occhio fu la brocca di vino sul tavolo e il bicchiere nelle mani della Contessa.

In un altro momento si sarebbe molto rammaricato di vederla bere da sola, a quell'ora e in un punto tanto desolato della rocca, ma quella notte era lui per primo a sentirsi bisognoso di un diversivo per non pensare al proprio disappunto e alla spiacevole sensazione di essere sottovalutato e tradito dai propri familiari.

Senza badare troppo ai propri modi, il fiorentino andò con passo deciso verso Caterina e le strappò di mano il bicchiere, bevendo d'un fiato quello che vi era dentro.

La Contessa lo fissò attonita e poi esclamò: “Certo che voi toscani siete proprio prepotenti per natura!”

Giovanni le rese il calice e, sedendosi accanto a lei, ribatté: “Detto da una milanese..!”

I due si guardarono un momento e poi, non riuscendo a trattenersi, scoppiarono a ridere come ragazzini.

“E così – fece il Popolano, quando la risata cominciò a spegnersi – alla fine lo avete liberato.”

“Non potevo più permettermi di tenerlo imprigionato.” disse Caterina, riempiendo di nuovo il calice che il fiorentino le aveva svuotato senza chiedere il permesso.

Bevve un sorso e poi guardò l'ambasciatore di sottinsù.

La cucina era silenziosa e il focolare era spento. Restavano accese solo alcune candele e nell'aria si sentiva l'odore della carne salata e della brodaglia di verdure che era stata servita a cena.

Da troppo tempo Caterina non usciva a caccia. Adesso che le porte erano state riaperte, sarebbe stato il caso di farlo e di mandare anche gli altri cacciatori nei boschi. Dopo l'epidemia era bene mangiare qualcosa di sostanzioso. Nulla metteva fame come piangere i morti.

“E voi che avete, stanotte?” chiese la Contessa, richiamando alla mente il gesto rapace con cui Giovanni le aveva strappato il vino per berselo.

Il fiorentino sospirò, appoggiando le mani al tavolo. La Tigre guardò i suoi polsi sottili e poi le sue dita affusolate. Come la prima volta in cui le aveva notate, trovava le mani del Medici molto belle.

“Mio fratello mi ha scritto per dirmi che a breve arriverà a darmi aiuto mio cugino Simone Ridolfi.” si decise a dire Giovanni: “Anzi, ne approfitto per farvene nota. Lo farò restare in città, comunque, non è il caso che stia anche lui alla rocca.”

Dopo una breve pausa, l'ambasciatore sollevò gli occhi chiari verso la donna e soggiunse: “Se è il caso, anche io lascerò la rocca. In fondo, la mia doveva essere solo una sistemazione temporanea.”

Istintivamente, Caterina gli appoggiò una mano sulle sue, come a trattenerlo coi fatti oltre che con le parole: “No, vi prego. Restate.”

Il fiorentino fu felice di quella solerzia, ma fece un sorriso triste, quando vide la rapidità con cui la Leonessa ritrasse la mano e ritornò a bere il suo vino.

“Comunque – fece la donna – come mai questo vostro cugino deve venire qui?”

“Mio fratello dice che la Signoria me lo vuole affiancare, visti i miei limiti di salute.” fece il toscano, stringendo le palpebre, oltraggiato: “Ma so bene che lo spediscono a Forlì per un altro motivo.”

“Quale?” chiese Caterina, curiosa sia a titolo personale, sia come capo del suo Stato.

Un fiorentino a corte era un conto, ma averne due o forse più – siccome trovava improbabile che anche quel Ridolfi arrivasse senza seguito – sarebbe stata una situazione di certo più difficile da gestire.

Giovanni schiuse le labbra piene e prese fiato. Poi si lasciò distrarre un momento dai capelli biondi, tenuti sciolti sulle spalle e sulla schiena, della Contessa. Ne studiò i riflessi dorati e ritrovò quelli più chiari degli altri, quelli proprio bianchi, e poi passò a osservare le sue iridi ramate e scese, lungo il naso, il mento, il collo e poi distolse lo sguardo.

Anche se avrebbe voluto dire la verità, preferì optare per una mezza omissione: “Hanno paura che io non sia più un ambasciatore oggettivo.”

A Caterina non era sfuggito il modo in cui Giovanni l'aveva squadrata. Conosceva troppo bene il modo in cui gli uomini la guardavano, quando l'avevano vicina, e aveva riconosciuto nel viso del fiorentino gli stessi pensieri che attraversavano la mente di tutti gli altri.

Tuttavia, aveva apprezzato il modo in cui a un certo punto il Popolano aveva desistito ed era arrossito. C'era qualcosa, in lui, che l'attraeva sempre di più, ma il fatto che per primo, con quel piccolo gesto, si fosse tirato indietro, le rese molto più semplice evitare di commettere l'ennesima imprudenza.

“Quando arriverà vostro cugino?” chiese la donna, come nulla fosse.

“A giorni, da quello che ho capito.” rispose Giovanni tormentandosi una mano nell'altra.

“Quando arriverà, voglio essere informata subito.” tagliò corto la Contessa.

Vuotò il calice mezzo pieno e poi si mise in piedi. Il vino l'avrebbe presto resa debole e cedevole a un certo tipo di tentazione, dunque voleva allontanarsi, prima di combinare un pasticcio.

“Passate una santa notte, Medici.” sussurrò e lasciò le cucine.

Giovanni la guardò dileguarsi e dovette trattenersi con tutto se stesso per non seguirla. Avrebbe voluto passare il resto della notte con lei. Anche solo a parlare. Anche solo a stare in silenzio.

Afferrò il calice e si versò da bere. Solo un bicchiere. Non voleva incorrere nelle ire della sua malattia.

Con ancora il retrogusto amaro del vino sulla lingua, dopo aver dato un ragionevole vantaggio alla Tigre, il Popolano si alzò dalla sua sedia e ritornò nei suoi alloggi.

 

Dopo aver discusso a lungo con gli altri generali, in particolare con Gonzalo Fernandez de Cordoba, Francesco Gonzaga aveva dovuto lasciar perdere il suo piano, con cui avrebbe salvato la reputazione e anche la vita del cognato.

I generali avevano voluto il parere del papa, dato che, essendo coinvolto anche un Orsini, forse avrebbero potuto guadagnarci qualcosa.

Il messaggero più veloce a loro disposizione era andato e tornato da Roma come una freccia e aveva portato la risposta chiara e tonante di Rodrigo Borja.

Così era toccato a Francesco fare buon viso a cattivo gioco ed era stato mandato di persona a concordare i termini della resa dei filofrancesi.

“L'accordo era trenta giorni di tregua – fece notare il Montpensier al cognato – tregua, Francesco, non attesa prima di deporre le armi.”

Gonzaga, che non si sentiva affatto tranquillo a stare disarmato nella stessa stanza in cui stava anche quella vecchia volpe di Virginio Orsini, voleva chiudere in fretta quella farsa e andarsene, ma Gilberto aveva le orecchie dure.

“Re Carlo – continuò proprio il cognato del Marchese – mi ha investito del titolo di Viceré di Napoli! Le pretese di Ferrandino d'Aragona sono patetiche! Non è più il padrone di Napoli! Non sarà mai più re!”

“Quali sono i termini della resa?” si intromise Virginio, arricciandosi i baffi con le dita.

Era stato lui per primo a provare una strada simile, quando aveva mandato il suo verrettone al Gonzaga, ma adesso la cosa gli puzzava.

Perché tante cerimonie, invece di ribattere semplicemente al suo messaggio con una risposta affermativa? A beneficio di chi era, quella recita?

“La vostra incolumità, se lascerete la città e tutto il bottino entro la fine della tregua pattuita.” disse Francesco, sperando che bastasse come spiegazione.

“Accettiamo.” fece subito Virginio, pensando che opporsi sarebbe stato sciocco: “Ma a una condizione.”

“Ditemi.” concesse l'eroe di Fornovo, convinto che tanto valeva mostrarsi magnanimo.

“Che scortiate i nostri soldati fino al porto più vicino affinché possano imbarcarsi e tornare in Francia.” disse l'Orsini.

“Lo farò personalmente.” asserì Francesco, trovandola una condizione ragionevole.

Virginio, convinto a quel modo di aver salvato almeno le truppe, strinse la mano a Gonzaga e poi gli fece capire che non era il caso di andare oltre.

“Bene.” concluse il Marchese, sfregandosi le mani: “A questo punto posso andarmene.”

Mentre il mantovano se ne tornava da dove era venuto, il Montpensier continuava a borbottare tra sé, ripetendo come lui fosse il Viceré e Gonzaga suo cognato e che tutta quella storia fosse solo una grandissima presa per i fondelli.

“State zitto!” gli intimò Virginio e Gilberto si ammutolì sul colpo, forse memore dei pugni presi l'ultima volta in cui aveva provato a mettersi contro all'Orsini.

Il signore di Bracciano aveva bisogno di pensare.

Cosa poteva esser accaduto, nei quadri militari dei sostenitori degli Aragona, per indurli a chiedere quel patto?

 

Tommaso Feo aprì l'ultima busta con un colpo secco del tagliacarte. Non riconobbe la grafia, ma dopo qualche parola i suoi occhi corsero alla firma a piè pagina.

Sua sorella Lucrezia, che non vedeva ormai da anni, aveva deciso di scrivergli per annunciargli la morte del marito.

Il Governatore di Imola prese il bicchierino di spirito che teneva sulla scrivania e lo vuotò. Non ricordava quasi che faccia avesse, sua sorella.

Da sempre, lui era rimasto con suo fratello Giacomo. Le sue sorelle si erano sposate tutte da ragazzine e di loro non aveva avuto quasi più notizie. Anche se aveva fatto sapere loro della morte di Giacomo, non si erano nemmeno prese il disturbo di farsi vive al funerale.

Lesse con forte distacco le lamentele di Lucrezia e comprese solo alla fine cosa l'avesse portata a rimettersi in contatto con lui.

'Voi che siete un uomo importante – aveva scritto la donna – saprete di certo togliermi da questa situazione spiacevole. Con la morte del mio consorte, resto sola e indifesa e rischio di perdere tutte le sue terre e il suo oro. Voi che conoscete molti uomini di famiglia rispettabile e di buone sostanze, trovate un nuovo marito per me, che resto sempre vostra sorella.'

Tommaso strinse il morso e fu sul punto di fare a pezzi il messaggio, ma all'ultimo ci ripensò.

Ormai era rimasto solo. Suo fratello era stato ucciso, delle altre sue sorelle aveva perso le tracce, sua moglie era morta assieme alla loro unica figlia e la donna che amava non lo voleva vicino a sé.

Mise la lettera sotto il grosso fermacarte che la cognata gli aveva inviato come peculiarità qualche giorno prima. Era un pezzo della Torre del Pubblico, staccatosi durante il temporale che aveva posto fine all'epidemia.

Pur non avendo intenzione di diventar matto a cercare un marito per Lucrezia, benché questa avesse sottolineato come la questione fosse 'di urgenza massima, come voi, illustre fratello, ben capirete', Tommaso pensò che se mai gli fosse capitato sottomano qualche bamboccio desideroso di accasarsi con una vedova dal discreto patrimonio, avrebbe sempre potuto far presente la candidatura di sua sorella.

Assorto, riprese il bicchierino tra indice e pollice e si ricordò di averlo già svuotato solo quando se lo portò alle labbra.

Riappoggiandolo con troppa forza al tavolo, ne scheggiò la base. Sbuffò tra sé e soffiò sulle candele che illuminava le sue carte.

Ogni giorno il suo lavoro di Governatore gli pesava sempre di più. Non riusciva a capire cosa fosse a renderlo così insofferente, se la stanchezza del fisico o quella dell'anima.

Quale che fosse la causa, anche quella sera, a luna già alta, Tommaso arrivò nel suo letto distrutto e crollò come un sasso sul materasso, addormentandosi dopo pochi istanti con la candela di sego ancora accesa e la finestra spalancata a far entrare il frinire delle cicale e il bubolare dei gufi.

 
   
 
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