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Autore: Lost In Donbass    29/06/2017    0 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
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CAPITOLO SEI: LOVE AND DEATH
All the pain that we’ve been through
I’ve been dying to save you
Feel the blood in my veins flow
I’ve been dying to save you
I’ve been watching you swim
I’ll just seeing you drown
Is it tragedy or comedy?
 
Bill non sapeva come sentirsi in quel momento. C’era solamente un vuoto nauseante nella sua mente, lì appeso alle spalle larghe e abbronzate di Tom, le loro labbra di nuovo unite in un bacio che mendicava da anni a questa parte. Aveva fantasticato tantissimo su quel momento, immaginandosi scene cinematografiche alla stazione del treno, con baci tutti lingua, lacrime e passione, le mani che tastavano i rispettivi corpi, la gente che li guardava con un sorriso spento, una canzone di Nena come sottofondo delicato, e invece si stava svolgendo tutto in un modo così diverso, soli in una cucina dove solamente la loro figlia poteva guardarli, il grammofono con della musica rock che ricordava troppo i tempi andati, un bacio lungo e malinconico, che sapeva di sabbia e di addio per sempre. Non se l’era aspettato, ma ora che finalmente aveva potuto bearsi della pressione delle labbra di Tom sulle sue, gli pareva che il Paradiso gli avesse appena consegnato le chiavi. Aveva sofferto, in quei due anni. Aveva pianto fino a non avere più lacrime, si era imbottito di antidepressivi e barbiturici fino a scoppiare, aveva passato le sue notti a bere vodka a canna dalla bottiglia, aveva ricorso continuamente all’autolesionismo, eppure era ancora lì, a pezzi ma in piedi, di colpo tamponato da tutto l’orrore in cui era sprofondato. C’era Tom, adesso. Tom e il suo profumo di menta, ribellione e rock’n’roll, Tom che lo stava stringendo piano, per non romperlo, e che finalmente lo stava baciando. Era tornato davvero, dunque. Si era materializzato a Loitsche per portarlo via e salvarlo dall’alcolismo, dalla depressione, dall’apatia, a prendersi carico della loro bambina. Improvvisamente, il suo corpo si rilassò del tutto, come se milioni di piccole tensioni nervose si fossero sciolte a contatto con la pelle bollente e ustionata dalla guerra del rasta, si lasciò quasi cadere tra le sue braccia, infilandogli le dita tra i dread che era così abituato a toccare e a spupazzare, gli forzò la bocca con la lingua. Chiedeva disperatamente di più, voleva sentirlo completamente suo come a Berlino. Gli pareva di aver toccato il cielo con un dito, ad assaporare le labbra che lo avevano fatto loro, a stringere l’uomo che lo aveva dannato. Sentì Tom stringerlo più forte, accarezzargli la schiena, intrecciargli le dita ai capelli corvini, riempirgli la bocca con i suoi baci ustionanti. Non sapeva nemmeno se il suo cuore avrebbe resistito a una tale gioia, ma per lui poteva anche morire felice, a quel punto. Aveva più volte meditato il suicidio, in quei due anni, era sempre arrivato a un niente dalla morte, che fosse per la droga, il coma etilico, o anche per la volta che aveva tentato di annegarsi nella vasca, ma ogni volta qualcosa lo aveva salvato.  Una volta Gustav, che lo aveva trovato e portato in ospedale prima che fosse troppo tardi, una volta Georg, che lo aveva fermato facendogli vomitare anche l’anima, un’altra volta Mackenzie che lo chiamava nel silenzio della casa, superando il rumore dell’acqua della vasca dove si era immerso e che l’aveva costretto ad andare da lei prima di morire. Allora era tutto un segno, si ritrovò a pensare, mordicchiando la lingua di Tom. Un segno per dirmi che sarebbe tornato, bastava solo pazientare a lungo e attendere alla stazione il suo palesarsi. 
Si staccarono solo un secondo per respirare, le fronti attaccate, le lunghe ciglia che si intrecciavano, le lacrime di trucco di Bill che gli sporcavano le guance pallide, gli ansimi leggeri che si mischiavano, le labbra che continuavano a giocare in un sottile velo di impalpabile tenerezza e solitudine, gli occhi di Mackenzie che li fissavano senza capire. Bill rivedeva Berlino negli occhi dorati di Tom. Rivedeva la Sprea illuminata dalle stelle la notte, i locali alternativi di Spandau, il loro appartamento impregnato di fumo, la facciata dell’Università di antropologia, la moto un po’ vecchiotta e un po’ vintage con cui veniva scarrozzato. Ma vi rivedeva anche il Gropiusstadt, il cimitero dove giaceva Simone, i ragazzi polacchi del piano di sotto, l’eroina da spacciare, la violenza e le finestrelle di alluminio rovinate. Per Bill, Berlino era sempre stata una maschera, un Pantalone, e lui era solamente una tenera Colombina con le sottane alzate, era uno specchio liquido di cui lui era l’Alice strafatta di acido lisergico, era un protettore crudele eppure necessario, e lui non era altro che la sua prostituta più riverita, infiltrata nelle classi agiate ma in realtà figlia di un letto a pochi centesimi. Non era la sua città, ma aveva sempre preferito dire “berlinese” invece che raccontare di venire dalla piccola Loitsche, il villaggetto dimenticato di provincia. Bill non voleva ricordare le sue umili origini, fingeva, glissava sul passato per concentrarsi sul suo fulgido presente, aveva sempre mentito a chi gli chiedeva di dove era. Perché ricordare Loitsche quando aveva la capitale ai suoi piedi? Eppure, incredibilmente, sembrava che Loitsche avesse avuto la sua vendetta, strappandolo con violenza dalla sua patria acquisita e riproiettandolo nell’orrore provinciale che lui aveva sempre tentato di dimenticare. Avrebbe tanto voluto rivedere Berlino, perdersi di nuovo nei suoi viali, girare per i rave con Tom sulla vecchia moto vintage, starsene nell’immensa biblioteca dell’università a leggersi i suoi libri in arabo, fare l’amore fino a sfinirsi nel piccolo appartamento da studenti, fino a vedere le luci dell’alba rischiarare la finestra e svegliare dolcemente la loro città, dare i suoi esami sapendo che poi avrebbe passato tutto il resto del tempo a scrivere i suoi libri in biblioteca, libri che non aveva mai pubblicato, dopo che era rimasto da solo e abbandonato. Voleva sentire ancora il rumore della gente, le risate con gli amici, i discorsi politicamente impegnati, gli Scorpions e i Rosenstolz a tutto volume nelle casse, cantando Perfekte Welt, quella degli Juli che conoscevano tutti a memoria. Voleva di nuovo sballarsi di LSD, voleva farsi voluttuosamente accendere le sigarette dagli altri, voleva respirare l’aria primaverile mentre portava una rosa sulla tomba di sua mamma. Voleva la città che l’aveva cresciuto trasformandolo in quello che avrebbe dovuto essere, non quella che lo aveva partorito nel suo sterile e bigotto grembo e che lo aveva reso quello che era in quel momento. Voleva … sentì le mani di Tom, quelle mani lunghe e grandi bruciate dalla guerra, stringerli possessivamente le natiche sode, impossessandosi della sua bocca con una voracità che Bill ricordava ancora come un fuoco inestinguibile che li aveva animati entrambi dal primo momento in cui si erano messi gli occhi addosso, in quella discoteca di Spandau. La loro storia era passione, lo era sempre stata, animata da sentimenti così tempestosi da lasciarli entrambi spossati. “E’ come se noi scopassimo anche con i nostri cuori, B.” gli aveva detto una volta il rasta, e lui aveva pensato che non c’era frase più vera. Si aggrappò alle sue spalle, diventate più muscolose e larghe rispetto a due anni prima, facendosi prendere in braccio come una bambolina, allacciandogli le gambe al bacino com’erano soliti fare nella loro cucina, un tempo. Tom era tornato e lo amava come lo aveva amato un tempo, lo voleva come lo aveva voluto, per Bill quello era abbastanza. Gli mise le mani tra i dread che tanto aveva sognato di poter ritoccare, si fece baciare il collo da cigno, ansimando, quasi stranito da quell’onda di passione che in un secondo si era presa possesso del suo corpo e della sua mente. Erano due anni che rimaneva intoccato, nella costante attesa di Tom, l’unico che aveva il diritto di amarlo, di toccarlo, di possederlo. Bill non aveva lasciato nessuno nemmeno avvicinarsi lontanamente al suo corpo, chiudendosi nel suo guscio di amante abbandonato, che finalmente ora gioire nuovamente, tra le braccia di colui che lo aveva salvato e dannato. Probabilmente, se fosse stato per Tom, per la sua brutalità che Bill ricordava sempre con un brivido di eccitazione segreta, tutto si sarebbe concluso in quella cucina, su quel vecchio tavolo, ma non fu così. Gli bastò girare l’occhio per intravedere la figura di Mackenzie, seduta sul tavolo, che li fissava con la sua solita aria malinconica che nessun bambino di due anni dovrebbe avere, un biscotto in mano e un altro in bocca. Si irrigidì un secondo, allontanando impercettibilmente Tom da sé, mordendogli le labbra, facendogli un gesto col capo in direzione della bambina. Non seppe se Tom sbuffò o altro, seppe solo che aumentò la presa sulle sue cosce e lo staccò dal ripiano, trascinandolo verso la camera da letto come fosse un peluche.
Bill si sentiva così strano in quel momento; non riusciva ancora a percepire chiaramente il ritorno di Tom, il fatto che stesse per ripetersi quello che lo aveva tenuto in vita fino ad allora. Se non fosse stato sicuro che quella mattina non si fosse imbottito di barbiturici come tutti i santi giorni, avrebbe pensato che era tutta un’allucinazione. Non era nemmeno la prima volta che, in preda alle visioni dei narcotici, sognava Tom che rientrava dalla porta di casa. Eppure, ogni volta, lo vedeva entrare vestito da soldato, con un fucile in spalla, la faccia sporca di sangue  e polvere, le mani mangiate da una granata, e lo vedeva piangere. Si risvegliava piangendo, aggrappato al divano, la televisione ancora accesa, la testa pesante, il trucco sfatto. Un'altra pastiglia, e di nuovo sprofondava nei suoi incubi. Ma ora non riusciva a risvegliarsi da nulla; quello non era uno dei folli sogni che oramai popolavano la sua mente rovinata e bruciata dalle medicine, quella era la pura realtà, per una volta, più vivida e ustionante di qualsiasi sogno. Il ragazzo semi nudo che lo stava schiacciando sul letto fresco e profumato, così diverso dal suo perennemente impregnato di fumo, non aveva le mani sfatte dalle bombe, non era sporco di sangue e terriccio, non si distruggeva in mille schegge davanti a lui. No, era vivo, pulsante, un fascio di carne e muscoli che nulla aveva a che fare  con la figura di impalpabile nebbia che varcava le porte dei suoi sogni notturni. La sua bocca vorace, le sue mani nervose che lo spogliavano, erano tutte sensazioni che Bill riesumava alla mente solamente ogni tanto, quando sentiva il bisogno quasi fisico di prospettarsi il suo Tom sotto le dita. Gli si arpionò alla schiena, trovando finalmente l’appoggio a cui aveva disperatamente anelato ogni giorno alla stazione, quando si sentiva svenire, la sera, vedendo l’ultimo treno partire e il capostazione chiudere il gabbiotto. Non sapeva nemmeno dire se avesse avuto davvero voglia di farlo non appena si fossero rivisti. Nei suoi sogni, tutto era molto calmo: c’era la cena, c’era il mettere a letto la bambina, c’era il sedersi sul divano e accocolarglisi in braccio, c’era il parlare fino a tarda notte, c’erano dei baci sparsi, e poi, solo poi, ci sarebbe stato il letto dove consumare il rapporto che divorava entrambi. Ma quelli non erano i sogni, appunto, quella era la realtà, che voleva una cosa del genere, e lui era pronto a dargli tutto quello che voleva, pur di riaverlo nuovamente al suo fianco.
Si lasciò afferrare per i capelli, facendosi togliere la camicia, mentre le sue belle mani nervose vagavano sul suo corpo, studiando le cicatrici di guerra, infilandosi tra i dread biondicci tornati diligentemente al loro posto, slacciandosi concitatamente i jeans neri aderentissimi. Gli piaceva il profumo che aveva la pelle nuda di Tom, quel profumo di sapone alla menta, l’odore della sabbia del deserto, del rock’n’roll che era il suo biglietto da visita, la colonia delicata e la rivolta che covava sotto i muscoli guizzanti sottopelle. Non respirava nemmeno, in mezzo ai suoi baci e alla loro passione repressa che sembrava dovesse deflagrare in tutta la sua potenza su quel letto della vecchia casetta di Loitsche.
Venne ritrascinato brutalmente fuori dal suo mondo di sogni dalla voce di Tom, soffiata sulle sue labbra arrossate dai baci, il suo immobilizzarsi sopra al suo corpo eccitato oltre ogni dire, gli occhi di entrambi lucidi e splendenti.
-Bill, io … te la senti?
Il vecchio Tom non l’avrebbe mai detto, pensò il moro, ma si ritrovò a far fare capolino sulla bocca un delicato sorriso. Il vecchio Tom aveva il comando assoluto sulla camera da letto, non si era mai davvero preoccupato di cosa potesse pensare o avere in mente Bill, che d’altronde non se ne era mai nemmeno lontanamente lamentato.
Per tutta risposta, Bill lo rovesciò sul piumone e gli si sedette a cavalcioni sopra, ingabbiandolo tra le sue braccia, gli occhi pieni di lacrime di felicità, che gli avevano trasformato gli occhi di ossidiana in due pietre più preziose di qualunque diamante. Perché quell’enorme paio di perle d’inchiostro illuminate da lacrime pure come una cascata di diamanti, luccicanti come lucciole nelle notti d’estate e misteriose come un branco di lupi siberiani, erano accesi da tutta la passione, la gioia segreta, l’emozione ingestibile di un ragazzo che era tornato a vivere dopo un coma durato due anni. Splendeva, Bill, splendeva come i gioielli della Regina di Saba, come la sabbia sotto le costellazioni invernali, come le carovane che si perdevano nelle montagne kirghize.
-Sono anni che aspetto per questo, tesoro mio. Sono tuo, Tom, lo sono sempre stato e lo sarò per sempre.
Bill non si accorse di quanto, con quella frase, mormorata sulle sue labbra giusto un  momento prima di inginocchiarglisi in mezzo alle gambe e prendergli in bocca il membro gonfio e duro, lo avesse pugnalato al cuore. Gli aveva fatto male sentirglielo finalmente dire, la frase che aveva sempre temuto più di tutte. Gliel’aveva sempre detta, come fosse la frase di salvezza delle anime, quella che riaggiustava tutto il suo passato scombinato, vissuto in completa solitudine, e lui l’aveva sempre liquidata in qualche modo, senza rendersi mai conto di quanto Bill ci credesse veramente. Ma lui era il classico ragazzo stupido, a cui non era mai davvero interessato del moro, e aveva sempre accettato quelle frasi senza capirle nel profondo, senza vedere quanto fossero importanti per la vita di un’altra persona, solo la guerra era riuscito a raddrizzarlo in modo da fargli capire cosa davvero Bill avesse sempre nascosto dietro ai piercing e al trucco pesante. Non gli piaceva ammetterlo a sé stesso, ma poteva dire “casa” solamente all’Afghanistan, che gli aveva insegnato a essere quello che davvero era e gli aveva risvegliato gli istinti più puri e naturali. Ma adesso, non era più laggiù, ora era tornato in Germania, e doveva fare i conti con Bill e con la piccola Mackenzie, rimettersi in carreggiata quel tanto per staccare Bill dalla sua condizione di malato d’amore. Ansimò, afferrandolo per i capelli e lo sdraiò sul letto, accarezzandogli le cosce, baciandogli il petto scarno e ossuto, più di quanto si ricordasse, sentendolo gemere come il gattino che era quando gli infilò la mano in mezzo alle gambe, guardando quel viso bellissimo e delicato tramutarsi in una smorfia di puro piacere, gli occhioni spalancati e lussuriosi, la bocca arrossata, le guance dolcemente paonazze, le unghie che lo arpionavano con violenza e gli graffiavano la schiena. Quando nessuno dei due ce la fece più, e Tom cominciò a sbatterlo su quel letto, si rese conto che era quello che stava aspettando più di tutto il resto. L’aveva sognato, in Afghanistan, l’aveva desiderato quando stava ore sdraiato nella polvere a fissare ombre invisibili che gli danzavano dinnanzi agli occhi stanchi, e ora ce l’aveva di nuovo sotto. Le strilla di Bill gli si infrangevano sul viso, ed era sicuro che era il suono più bello che avesse sentito da anni a questa parte. Gli fece tornare in mente Berlino, e le notti di passione nell’appartamento, anche se in quella c’era un sapore diverso. Qualcosa che sapeva di rimpianto, di lacrime, di voglia infinita di possedersi finalmente di nuovo, aveva il retrogusto amaro della nostalgia e dell’inganno, l’afflizione della giovinezza rovinata dalle loro stesse mani, la malinconia della pianura, l’insicurezza di un cuore che amava con troppo trasporto e di uno che odiava con altrettanto trasporto. Bill era troppo solo per non avere un disperato bisogno di qualcuno, Tom era troppo indipendente per volere qualcuno. Bill aveva troppi segreti per poterli tenere dentro di sé, Tom ne aveva troppo pochi per poterli raccontare. Bill era la decadenza della musica punk, Tom era il ritorno in auge del rock’n’roll. Ma il punk è morto quando è morto Sid Viciuos, e il rock’n’roll ha smesso di esserlo quando sono tramontati gli anni ’60. Uno era la Germania dell’Est, e l’altro quella dell’Ovest. Erano troppo diversi per poter davvero sopravvivere insieme come nelle allucinazioni di Bill, ma erano anche troppo, tragicamente simili per potersi separare come nei sogni di Tom.
Non gli importavano le unghie del moro conficcate a sangue nella sua schiena, non gli importava il letto che quasi sbatteva contro il muro, non gli importavano i loro ansiti, non gli importava Bill che rovesciava la posizioni e cominciava a cavalcarlo con una forza e una passione che Tom ricordava dettata dall’alcol e dall’ecstasy ma che ora sembrava dettata solo dalla felicità di riavercelo sotto le lunghe unghie smaltate di nero e bianco, non gli importava l’orgasmo così oscenamente impetuoso che li travolse e li lasciò letteralmente a pezzi. Gli importava dell’Iblis, però, che era riuscito, ancora una volta, ad assoggettare al suo volere.
 
Bill era letteralmente stravolto, ma era felice. Felice di una felicità così dolorosa da fargli male al cuore, da lasciarlo senza fiato, completamente abbandonato tra le braccia di Tom, raccolto come un pulcino in mezzo al piumone sporco e stropicciato. Dormicchiava, beandosi del profumo esotico del rasta, sentendo il cuore battere vicino al suo orecchio, la sua mano grande accarezzargli i capelli come facevano a Berlino. Teneva gli occhioni chiusi, un sorriso ebete e appagato sulle labbra. Non c’era nulla che lo facesse sentire più al sicuro che le braccia di Tom che lo abbracciavano come se fosse l’ultimo giorno delle loro vite. Intrecciò le lunghe dita alla collanina con le piastrine militari appesa al collo del rasta, mugolando un pochino di disappunto quando Tom si mosse per afferrare il pacchetto di sigarette sul comodino. Aprì gli occhi, e Tom gli sorrise, baciandogli la fronte, facendolo squittire di piacere; sentì la pioggerellina gentile della pianura cominciare a battere sulla finestrella e si accoccolò più stretto al rasta, facendosi infilare voluttuosamente in bocca una sigaretta. Finalmente, dopo due anni di serrata castità, aveva potuto dare sfogo a tutta la libidine che aveva accumulato. Ne voleva ancora, decise, dimentico di qualsiasi altra cosa che non fosse Tom, il suo sorriso, i suoi muscoli decisamente sviluppatisi rispetto a Berlino. Gli fece scivolare la mano sul basso ventre, con un sorrisetto malandrino di nuovo uguale a quello che sfoderava quando era ancora la reginetta della capitale. Improvvisamente, gli venne anche voglia di prendere uno dei suoi libri arabi e leggergli una storia, lì a letto, come erano soliti fare dopo una nottata particolarmente sfiancante. Tom fumava, e sorrideva, lui leggeva prima in arabo e poi traduceva in tedesco, ridacchiando, solitamente gli Scorpions che facevano da colonna sonora al loro amore.
-Mio Dio, Bill, non ti è bastato?- Tom sorrise, roteando gli occhi, ma Bill sapeva benissimo che probabilmente aveva anche più voglia di lui. Gli si sedette a cavalcioni, accarezzandogli i dread e la guancia, con un sorriso dolce.
-Non mi basta, mai, Tomi, dovresti ricordatelo, no? Sono il tuo Iblis, tesoro.
Tom gli posò una mano sulla coscia pallida e snella, dandogli uno schiaffetto affettuoso, e Bill gli strofinò il naso nel collo
-Un giorno o l’altro dovresti spiegarmi che cosa vuol dire …
-Dopo. Adesso ti voglio, ti voglio, ti voglio!
Risero e gemettero insieme, e Tom lo accontentò, ributtandolo sul letto e facendogli aprire le gambe, stampandogli un bacio sulle labbra piene, quando una vocetta di cui si erano entrambi, brillantemente, scordati, li fece bloccare di colpo
-Mamma? Mamma, dove sei?
Mackenzie fece capolino dalla porta, barcollando sulle gambette grasse, quel sorriso triste e misterioso stampato sul visino rotondo, una tavoletta di cioccolata ripescata non si sa dove in mano. I due ragazzi si immobilizzarono, prima che Bill cacciasse uno strillo e si avvolgesse di scatto nel piumone, rosso di vergogna come un pomodoro. Tom rimase per un secondo boccheggiante, osservando la loro figlia che li scrutava vagamente perplessa, prima di infilarsi un paio di boxer il più rapidamente possibile e alzarsi da letto
-Cosa c’è, tesoro? Bill ora è a letto, hai bisogno di qualcosa?
Le si inginocchiò accanto, e la bambina gli sorrise, tirandosi le treccine nere
-Non riesco a prendere un libro di storie, voglio che la mamma me ne legga qualcuna. Tom, me le leggi tu?
Bill nel frattempo si era alzato, sempre drappeggiato nel piumone, tutto arruffato e imbarazzato come mai lo era stato in vita sua, e si accucciò per terra, con il sorriso più incerto che avesse mai fatto
-Oh, ehm, patatina, vedi, noi stavamo parlando … cinque minuti e vengo a leggerti la storia, va bene?
Mackenzie lo guardò con un lampo di sospetto negli occhi, come se avesse capito che i cinque minuti di Bill corrispondevano ad almeno tre quarti d’ora di tutto il resto della gente, e Tom quasi scoppiò a ridere a vedere il moro che mercanteggiava con una bambinetta di due anni senza riuscire a cavare un ragno dal buco.
-Ma io la storia la voglio ora, mamma. I tuoi cinque minuti sono lunghissimi, mentre una storia è corta.
-Va beh, Mackenzie, facciamo così.- intervenne Tom, prendendola in braccio,  e guardando con un lampo di colpevolezza le manine grasse arpionargli i dread  - Ora io vengo di là e ti leggo tutto quello che vuoi, poi lasci me e Bill da soli a parlare, va bene?
Mackenzie sembrò ponderare l’opzione, assottigliando gli occhi vagamente a mandorla, e poi, evidentemente convinta, annuì con un mezzo sorriso.
Tom rise divertito, trasportando la bambina in salotto, mentre Bill, si rimetteva qualcosa addosso e si riassettava rapidamente i capelli sparati. Aspettò che Tom fosse uscito dalla stanza, guardandosi nel grande specchio della camera, e sospirò. Gli era bastato un niente, anche solo uno sguardo per rinfrancarsi, ma ora che aveva di nuovo fatto quello per cui aveva resisito tutti quegli anni, si sentiva e si vedeva come una persona nuova. Improvvisamente, gli occhi avevano cominciato a splendere, dimentichi di quella opachezza malata e da quelle ombre che glieli appesantivano e abbruttivano. La bocca era piegata in un sorriso tenero e innamorato, dopo tanto tempo in cui nemmeno l’ombra di un riso si era fatta largo. La pelle e i capelli stessi sembravano ringiovaniti, brillanti di una luminosità propria, nuovamente elastici, morbidi, vivi, i suoi tatuaggi parevano nuovamente aver acquistato il nero inchiostro che gli pareva essersi scolorito. Guardò il suo “Freiheit 89” sull’avambraccio, e vi passò una mano sopra, ripensando a pochi momenti prima, quando Tom aveva baciato tutto il contorno della parola. Il suo corpo sottile stava ricominciando a vivere come ai tempi senza l’ausilio di pastiglie e alcol, completamente rigenerato. Sorrise, di fronte allo specchio, e vi rivide finalmente la principessina araba che Berlino conosceva. Era riapparsa da dietro il fantasmino della Pannonia, ed ero eccolo lì, il Bill che parlava arabo, stava per laurearsi col massimo dei voti e avrebbe già avuto un posto di lavoro incredibilmente redditizio come ricercatore. Era tornato, col suo sorriso vincente e affascinante, la sua moda stravagante e sensuale, il suo corpicino da favola, la sua espressione che faceva capitolare chiunque gli si parasse davanti. Roteò di fronte allo specchio, contento. Avrebbe tanto voluto essere di nuovo a Berlino, per far vedere a tutti che la principessina araba era tornata e avrebbe fatto mangiare la polvere a tutti. Poteva tornarci, adesso, pensò, e una scarica di felicità lo fece tremare come un giunco. Ora che Tom era venuto a riprenderseli, sarebbe andato nella capitale, avrebbe ricominciato tutto quello che aveva abbandonato. Si sarebbero sposati, avrebbero vissuto in una bella casa a Charlottenburg, in quattr’e quattr’otto avrebbe recuperato quei due anni di studi e si sarebbe potuto riappropriare della sua vita vincente e splendida. Mackenzie avrebbe potuto stare con i genitori di Tom, quando lui era in Afghanistan e lui recuperava l’università. E tutto sarebbe andato per il meglio, finalmente, nella vita di Bill tutta sbagliata e rovinata. Si aggiustò la collana al collo, e i braccialetti, sfarfallando gli occhioni truccati, sentendo la voce di Tom in salotto che leggeva qualcosa a Mackenzie, e si morse il labbro inferiore. La famiglia perfetta avrebbe finalmente preso il volo come desiderava da sempre.
Saltellò in salotto, coperto con una delle gigantesche felpe del rasta, così impregnata del suo odore e così enorme sul suo corpo anoressico, e guardò Tom spiaggiato sul divano con in braccio Mackenzie, impegnati a leggere una storia, a ridere, a essere così dolcemente simili. Arrossì di piacere, scivolando a sua volta sul divano, stringendo la bambina tra le braccia e stampandole un bacio sulla testolina
-Allora, cosa stiamo leggendo?
-Una storia dove c’è gente con nomi impronunciabili.- grugnì Tom, sventolando il libro – Sinceramente, ma sto coso da dove sbuca?
-Dalla tua libreria, tesoro. Non sei mai stato un gran lettore, eh?- cinguettò Bill, dandogli un affettuoso schiaffetto sulla testa. Quanto era che non scherzava più?
-Non sono nomi difficili; è la storia dell’ alf laila wa laila. Con la principessa Shahrazàd e il re Shahriyàr. – rispose rapidamente Mackenzie, battendo le manine grasso, e Bill rise a vedere Tom roteare gli occhi all’indietro. Ma poi arrossì delicatamente, a vedere il libro che teneva in mano, con la copertina verde preziosamente impreziosita da ricami dorati con una splendida miniatura araba e il titolo accuratamente avvolto in mezzo a tralci di vite stilizzata. Guardò dentro, la traduzione in tedesco col testo a fronte in arabo, ogni pagina decorata con un delicato disegnino dorato. Sì, era proprio quello che gli aveva regalato lui, almeno quattro anni prima. Ricordava ancora di averlo fasciato nella carta di riso, con una piccola dedica all’interno, e di come Tom se lo fosse rigirato tra le mani con un sorriso incantato. Non sapeva nemmeno lui bene perché glielo avesse dato. Forse per non farsi dimenticare mai, per lasciargli un segno tangibile che la principessina araba era passata di lì, che lui l’aveva amata e che lei non l’avrebbe dimenticato. Era segretamente contento che lo avesse tenuto in così alta considerazione.
-Ma perché le hai insegnato l’arabo?- si lamentò Tom, sorridendo – Non bastavi tu?
Bill lo zittì con un bacio a stampo sulle labbra, guardando teneramente il rasta che sbuffava e riprendeva a leggere Le Mille E Una Notte a Mackenzie, che lo ascoltava con un’attenzione quasi maniacale. Qualunque errore, si disse Bill, lo avrebbe corretto: non c’era bambino che sapesse “Le mille e una notte” bene come lei. Si sistemò meglio sul divano, stringendo Mackenzie a sé, e si accoccolò accanto a Tom, appoggiandogli il capo sulla spalla, sentendosi cullare dalla sua voce che raccontava la storia, guardando la loro figlioletta ridere e battere le manine, ogni tanto. Si rilassò, chiudendo gli occhi, sentendo per la prima volta il sonno sopraggiungere senza l’aiuto di medicinali di nessun tipo, ma solamente aiutato dalla stanchezza dovuto al sesso, al calore dolce di Mackenzie e della felpa, e della voce del ragazzo che amava a cullarlo come nel migliore dei sogni.
  
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