Crossover
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Autore: Registe    30/06/2017    4 recensioni
Tredici guardiani. Tredici custodi del sapere.
Da sempre lo scopo dell'Organizzazione è proteggere e difendere il Castello dell'Oblio ed i suoi segreti dalle minacce di chi vorrebbe impadronirsene. Ma il Superiore ignora che il pericolo più grande si annida proprio tra quelle mura immacolate.
Questa storia può essere letta come un racconto autonomo o come prologo della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
[fandom principale Kingdom Hearts; nelle storie successive lo spettro si allargherà notevolmente]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anime/Manga, Videogiochi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 6 - Lumaria (III)





Xemnas





“Se Ansem il Saggio, nostro fondatore e guida, potesse vederci in questo istante non riuscirebbe a trattenere le lacrime. E se Xehanort, suo successore, fosse seduto qui tra noi ed osservasse la gioia che pervade questa sala vorrebbe senza dubbio stringerci la mano uno ad uno. Una famiglia non è mai abbastanza grande”.
Lumaria fece passare gli occhi da un trono all’altro, dalle tuniche nere tutte identiche ai visi di coloro che le indossavano. Non aveva mai visto una stanza simile.
Se fino a qualche giorno prima gli avessero chiesto di immaginare gli interni di un castello Radigata avrebbe senza dubbio abbondato di tappeti ed arazzi, decorazioni dorate anche negli angoli della mobilia e carovane di servitori dai calici sempre colmi del miglior vino della casa. Da ciò che aveva sentito dai suoi ospiti, molti di loro lastricavano con oro compresso i camminamenti dei loro giardini, e nelle sale da ballo vi erano così tante candele da rendere impossibile agli invitati distinguere il giorno dalla notte.
La prima cosa che lo aveva colpito non appena aveva abbandonato il portale di teletrasporto era stato il bianco accecante, ben lontano da qualsiasi sua immaginazione. Era un bianco forte, imponente, così oppressivo dal fargli esplodere la testa. Un colore assoluto che schiacciava ogni cosa o essere sul suo percorso.
Il Superiore si era allontanato non appena arrivati, discorrendo con un giovane ragazzo che senza dubbio li stava attendendo, e Lumaria era rimasto in silenzio, ammirando il contrasto tra quel colore così aggressivo e la tunica nera di Lexaeus. La figura enorme li aveva condotti attraverso diverse stanze tutte uguali, spoglie, con niente altro ad eccezioni di sottili colonne e decorazioni all’apparenza casuali sul pavimento; i loro passi a stento emettevano suoni.
Un’ora era trascorsa senza fare nulla, attraversando quel posto impensabile con le chiacchiere di Arlen come unica compagnia, cariche di domande a cui l’energumeno rispondeva a monosillabi e senza rivelare nulla di vitale. Lumaria aveva preferito non perdere tempo a discutere con l’uomo e si era limitato ad osservare ogni singolo dettaglio di quelle stanze, ogni battente di quelle porte cercando di recuperare le forze ed il coraggio della famiglia Dayel che fino a poco prima sembrava essergli stato strappato dal petto. Non aveva intenzione di apparire un debole.
Non di nuovo.
Quando il gigante dagli occhi azzurri aveva aperto loro una porta enorme, ben più maestosa e decorata di tutte quelle che avevano incontrato, Lumaria non avrebbe mai pensato di trovarsi davanti qualcosa che avesse potuto lasciarlo senza fiato. Si ricredette nell’istante in cui un nuovo bianco, più vivo e guizzante, scivolò tra le ante ancora dischiuse dell’ingresso e li avvolse prima ancora che potessero mettere piede nella stanza più grande che avesse mai visto.
Era ampia almeno tre volte il salone delle feste del suo palazzo, perfettamente rotonda con le pareti bianche che sembravano risplendere di luce propria e, quando guardò verso l’alto, si accorse di non riuscire a scorgerne il soffitto per il candore che sembrava scaturire proprio da sopra le loro teste e che lo accecò, costringendolo a portarsi una mano davanti agli occhi.
La prima cosa emersa da quel bianco fu il pavimento finemente cesellato di righe e solchi di un materiale che gli ricordava l’argento e che dividevano il salone in settori, congiungendosi al centro in uno spazio tondo. Il simbolo all’interno, una forma appuntita su tre lati e rotondeggiante ad una delle estremità, non apparteneva a nessuna casata che conoscesse.
Tutti intorno alla sala, al di sopra di dieci pilastri all’apparenza inarrivabili nemmeno con delle scale, altrettanti troni candidi sembravano torreggiare su di loro così come i loro occupanti.
“Non uno, non due fratelli. Stavolta il Castello ed il destino portano al nostro cospetto tre nuovi membri, e non saprei dirvi di chi io sia più felice. Fate la loro conoscenza e gioitene, miei adorati figli, perché simili eventi sono segni fausti per la nostra Organizzazione”.
Quando gli occhi di Lumaria si adattarono alla luce –e le sue orecchie al tipico slancio oratorio Radigata- il principe cercò di osservare i visi che lo fissavano dall’alto dei troni e che si distribuivano alla destra ed alla sinistra del loro Superiore. Indossavano tutti la stessa identica tunica scura, così come uguali erano le calzature.
Osservò l’uomo dai capelli argentati mentre si protendeva dal suo trono, il più alto di tutti, aprendo le braccia e tendendo le mani quasi a voler attirare a sé gli occhi di tutti, da quelli dell’uomo guercio alla sua destra fino al ragazzo su uno dei seggi più bassi, una figura magra ed irrequieta che non riusciva a rimanere immobile nemmeno in un momento che, almeno da ciò che Lumaria poteva intuire, rappresentava un evento importante per tutti gli abitanti di quel Castello. “La conoscenza è ciò che ci unisce. È ciò che ha portato a questa famiglia, l’obiettivo che perseguiamo, il bene prezioso che da migliaia di anni i miei avi si sono imposti di salvaguardare e proteggere. Ciò che ci rende forti è la consapevolezza di non custodire tesori luminosi e materiali tra le nostre mura, ma un potere ben più grande che mai dovrebbe cadere nelle mani sbagliate”.
A giudicare dal sonoro sbadiglio del ragazzo dai capelli rossi poco al di sopra di loro era chiaro che quel lungo preambolo fosse qualcosa che tutti gli abitanti del Castello conoscessero quasi a memoria, ma Lumaria socchiuse gli occhi, inspirando a pieni polmoni ogni singola parola che quell’eccentrico misantropo stava sillabando alla sua platea.
Non aveva bisogno della saccenza Radigata per sapere quanto pericolosa fosse la vera conoscenza.
O quanto una scomoda verità potesse causare ben più rovina per una semplice guerra di espansione.
Con la mano ancora a protezione degli occhi si voltò verso l’alto, incrociando in quel bianco implacabile lo sguardo ambra del Superiore. “Il Castello, la nostra casa che da sempre veglia sulla mia famiglia, mi ha mostrato alcuni di voi come propri futuri custodi. Esso non attende altro che infondervi del proprio amore e dei suoi doni, e se voi sarete disposti a proteggere i suoi segreti la nostra intera famiglia vi accoglierà come se foste da sempre dei suoi membri”.
Sulla parte dell’amore Lumaria sarebbe stato ben felice di passare oltre.
Sulla questione dei doni, d’altro canto …
Poco al di sotto del Superiore, un uomo decisamente avanti con gli anni non nascose un suono di stizza.
Svariate espressioni si dipingevano su quei troni, e si imbevve di loro nella lieve pausa che seguì il discorso; se su alcuni occhi era dipinta una forma di adorazione, su altri vi era educazione, su altri indifferenza, su altri ancora riuscì a leggere persino un’ombra di critica. Per un istante gli parve di sentire suo padre, immobile alle sue spalle durante un banchetto, ricordargli di prestare attenzione agli sguardi dei commensali e non alle loro chiacchiere. Al modo in cui le dame poggiavano le mani in grembo, non all’intreccio di stoffe che le rivestiva.
“Permettetemi dunque di presentarvi alla mia famiglia, nella speranza che a breve decidiate di farne parte. Il primo è Lumaria, della famiglia dei Dayel. E già so, in cuor mio, che sarà un figlio prezioso”.

Narratore: “Registe, ma da quando in qua si spacciano acidi dietro le quinte? Perché mi sa che Xemnas …”

“È un piacere ed un onore essere al cospetto di voi tutti” recitò lui, più a denti stretti di quanto pensasse possibile. Il gesto di saluto, l’inchino di ossequio, le parole formali tornarono ad impossessarsi del suo corpo come un tempo. Quello sapeva farlo.
Chinò lievemente la testa senza però smettere di ascoltare, cercando nel lieve brusio che seguì il suo saluto qualche suono, qualche parola che potessero fargli comprendere il pensiero delle persone sopra di lui.
Non ne trovò di interessanti.
“Ed è con grande gioia che invece vorrei presentarvi Arlen. Sarei davvero felice se decidesse di unirsi a noi, in quanto da tempo meditavo sul fatto che la nostra Organizzazione mancasse di una presenza femminile”.
“Con quella seconda scarsa di “femminile” c’è davvero poco, Superiore!”
“Per favore, Xigbar …”
Lumaria osservò la persona che aveva osato interrompere il discorso del suo capo, il guercio dai capelli brizzolati che aveva notato poco prima e che era seduto sul proprio trono con la stessa grazia di un miliziano o un contadino. Il suo posto, alla destra del proprio capo e più in alto di molti altri, doveva essere un segno di importanza. Quello, unito al fatto che avesse interrotto il grande momento del suo capo senza ricevere una punizione –peraltro per motivi futili- lo convinse a segnare in un angolo della sua mente il suo nome.
“Con quell’occhio solo è chiaro che di donne tu non ne abbia viste gran che, sai?”
Arlen fece un passo avanti, superando Lumaria e fissando il guercio con spavalderia. “Anzi, mi sa che vedi le cose proprio a metà. Perché non scendi ed osservi da vicino?” disse, mettendo una mano sul fianco per provocarlo “Ma non correre a piangere da papà Superiore se con un calcio dato bene ti trasformerò nella seconda ragazza di questa Organizzazione!”
“Mamma mia, Xigbar! Incassa!” disse una terza figura, un uomo massiccio alla sinistra del Radigata.
Disgustoso.
Lumaria cercò di fissare con sempre maggiore intensità lo stemma sul pavimento pur di non venire coinvolto da quel fastidioso e triviale scambio di battute degne al massimo della levatura del Porco Zoppo. Il Superiore aveva parlato di proteggere e custodire la conoscenza del suo Castello, ma era chiaro che il livello dei suoi guardiani fosse quantomeno discutibile; cercò di consolarsi sperando che si trattasse solo di un’impressione fugace, ma lo strappo lungo la tunica nel punto dove aveva sempre indossato la spilla di famiglia gli ricordò che, purtroppo, un Dayel non sbagliava mai. E che qualunque organizzazione non criminale avesse deciso di includere quella pazza di Arlen tra le sue fila avrebbe perso credibilità nel giro di qualche minuto.
Si annotò mentalmente anche tutte le figure che mostravano un’espressione disgustata davanti a quella scena indecente.
“Figli miei, per favore …”
Vi era da dire che il richiamo del Superiore fu sufficiente a placare la discussione appena sorta.
Un uomo dal senso della disciplina debole, ma in grado di infondere rispetto anche a persone più grandi o più rudi di lui.
“Desidero che vi comportiate con la signorina Arlen da veri cavalieri quali so che potete essere, se lo desiderate. Così come richiedo voi la massima disponibilità ed educazione verso il giovane Sora, che è giunto presso la nostra Organizzazione per quello che ritengo sia un chiaro segno del destino e della benevolenza dei miei avi”.
Lumaria non si era affatto accorto della terza figura presente nella stanza; il ragazzo si era tenuto bene in disparte, alle loro spalle, appoggiato all’ingresso ormai chiuso con lo sguardo di chi chiaramente non desiderasse trovarsi lì. Avrebbe potuto avere al massimo dodici o tredici anni, ma era comunque di corporatura piccola e gracile, sgraziato come solo un contadino poteva esserlo. Aveva la testa china come se tutti i troni della stanza potessero cadergli sulla testa all’improvviso, i talloni appoggiati allo stipite della porta e degli occhi di un azzurro penetrante che vagavano sul pavimento e si alzavano solo per qualche istante. Teneva le mani serrate dietro la schiena, quasi inchiodate tra loro per impedire al corpo di tremare.
Era chiaro che tutti si aspettassero che spiccasse almeno una parola, ma il silenzio che seguì le parole del Superiore ebbe probabilmente l’effetto opposto e lo straccioncello fece solo uno stentato passo in avanti. “ … io …”
“Non temere, Sora” parlò il n. I, venendogli in aiuto “La nostra famiglia sarà un po’ rumorosa e variegata, questo lo ammetto, ma faremo tutto il possibile per aiutarti a superare la tua perdita. Sei il benvenuto nella nostra Organizzazione e sono convinto che riuscirai presto ad ambientarti. Sarai il fratello minore che tutti, qui dentro, da tempo desideravamo”.
Nonostante la voglia di buttare fuori quella palla al piede che stava chiaramente interrompendo il momento solenne, Lumaria cercò di trattenere la stizza e rimase ad osservare il ragazzo; non gli sfuggì uno sguardo rapido ma intenso verso uno dei troni a metà altezza, un’occhiata carica di dubbio e paura rivolta ad una figura granitica a cui fino a quel momento non aveva prestato alcuna attenzione, troppo intento a fissare il Superiore e gli uomini che sedevano al loro fianco.
Il piccolo contadino biondo stava fissando nervosamente un licantropo.
A Lumaria per poco non mancò un battito quando si accorse dei lineamenti lunghi ed affilati della figura vestita della tunica nera al pari degli altri umani, seduto in maniera impeccabile e con le mani appoggiate lungo i braccioli con fare calmo. Si maledisse per non aver notato subito le orecchie lunghe, appuntite, e gli occhi che non avevano nulla di umano. Nella sala dei banchetti del suo castello vi era impagliata la testa di una di quelle bestie, un mostro che suo nonno aveva cacciato al prezzo di decine di vite dei propri soldati.
La creatura non degnò né lui, né Arlen né il moccioso di più di uno sguardo veloce, intento solo ad osservare dal basso il Superiore.
D’improvviso capì almeno una manciata di motivi della ritrosia di quel Sora.
Cercò di aprire la bocca, raccogliere qualche parola sensata per prendere tempo, ma il Superiore lo anticipò di nuovo, sporgendosi dal proprio trono quasi ad assicurarsi l’attenzione di tutti gli astanti.
“Il nostro Castello è il retaggio di una guerra che fu, una storia che ormai è svanita anche dalle leggende. Esso venne creato durante la guerra che spinse i demoni nel sottosuolo dal quale adesso stanno tornando”.
Lumaria ripensò ai membri della famiglia demoniaca ricomparsi da qualche anno, le creature davanti a cui anche l’esercito reale di Papunika sembrava essersi arreso. I mostri che ridevano degli dèi delle Dodici Case, venerando solo il loro sovrano, il Grande Satana.
“Il grande Ansem il Saggio fu il primo signore del Castello. Mi duole nel profondo non sapere come sia riuscito ad edificare questo posto, questa nostra casa che pensa e ci ama più di una madre. Forse il segreto giace sepolto nella biblioteca, ma nessuno di noi è mai riuscito a trovare una traccia; rimane comunque che il Castello ha accordato la sua protezione alla mia famiglia, e così io la accordo a voi” disse, spalancando le braccia con fare teatrale. Arlen non riuscì a trattenere uno sbadiglio.
“Nella biblioteca vi sono migliaia di libri. Libri di ogni tempo, pieni di sapere del passato, altri che vi appaiono senza che nessuna mano umana li porti all’interno. Riteniamo che alcuni vengano scritti dal Castello in persona. Un sapere che non ha nulla da invidiare alla biblioteca regale di Pharros e che viene da mondi lontani, dove nemmeno i demoni hanno mai messo piede. Catalogarli è un’impresa impossibile …” mormorò piano, scambiando uno sguardo d’assenso con uno dei membri più in alto, un uomo che fino a quel momento era rimasto in silenzio. “… ma proteggerli, quello è fattibile. Proteggere una conoscenza enorme, delle verità che il nostro mondo non è ancora disposto ad accettare. Tra queste mura la magia più potente è il sapere, ed il Castello è pronto a concedervela a patto che lo difendiate, che lo curiate come il più prezioso dei vostri compagni. La cupidigia di conoscenza è una fiamma a cui nessun mortale sa resistere e, credetemi, nemmeno i demoni se sono immuni. È per questo che chiedo a voi di diventare i guardiani di questo posto, di dedicare il vostro amore ai libri che qui dormono, e ad ottenere in cambio sapienza e magia. Quasi tutti voi siete stati scelti dal Castello dell’Oblio in persona e non ho modo di disquisire delle sue decisioni che per me sono più che legge”.
Di sicuro Lumaria non aveva nulla da ridire ad un edificio in grado di spostare i propri abitanti in qualsiasi luogo del mondo e che aveva deciso di nominarlo suo protettore. La cosa continuava a sembrargli del tutto irreale, ma la taglia sulla sua testa emanata da Bernard Durlyn aveva al contrario una consistenza tale da spingerlo a non porsi troppe domande sulla fortuna cadutagli proprio tra le braccia.
Al momento, ovviamente.
“Il mio sincero desiderio è che voi decidiate di restare e di amare questo posto quanto noi. Sarebbero molte le cose di cui vorrei parlarvi, perché tanta è anche la gioia che provo; ritengo però che tocchi a persone ben più adatte di me mostrarvi ciò che il Castello può davvero offrirvi. Stasera organizzeremo una grande festa di benvenuto e, se desidererete restare, provvederemo a preparare degli alloggi per voi”
Il Superiore reclinò la testa verso destra, superando con gli occhi il guercio di nome Xigbar e soffermandosi su una figura silenziosa, un uomo avanti con gli anni che non aveva espresso più di un brontolio o due. “Vexen, confido nella tua preziosa saggezza. Chi altro potrebbe descrivere al meglio la natura della magia che il Castello può offrire?”
“Suppongo di essere l’unico competente, qui dentro. Dopo di lei, Superiore, s’intende”.
Persino da quella distanza Lumaria riuscì a sentire del freddo emergere dalle parole del nuovo interpellato. Il n. I, al contrario, sembrò non aver sentito. “Ho molta stima del tuo intelletto, Vexen, e non smetterò mai ripeterlo. Ammetto che troppo stesso mi dilungo in dissertazioni che senza dubbio farebbero scappar via i nostri ospiti” mormorò con fare ilare “E per questo sono convinto che tu riesca ad essere molto più preciso e dettagliato di me. Ti affido i nostri futuri fratelli, n. IV, e mi raccomando di spiegare loro la questione del nome, delle armi e degli elementi”.
“Il nome?” chiese Sora, uscendo dal suo silenzio.
“Le armi?” fece eco Arlen con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
“Gli elementi?” provò a domandare Lumaria, ma prima che alle loro domande cacofoniche venisse data una risposta esaustiva gli occupanti dei troni, ad un cenno del loro capo, svanirono di nuovo in quei portali oscuri che li avevano condotti lì dentro. Uno di loro, il ragazzo dai capelli rossi, accennò persino un segno di saluto.
Un portale si aprì al centro del simbolo dell’Organizzazione, alla loro altezza, e ne emerse l’uomo a cui il Superiore si era rivolto usando il nome di Vexen.
La prima cosa che Lumaria notò fu l’espressione stizzita, un paio di occhi verdi imbronciati che scrutarono loro tre in un istante. Uno sguardo freddo, fastidioso. Indagatore.
Doveva avere alcuni anni più del Superiore, o forse era un’impressione causata dai lineamenti ancora più affilati di quelli del Radigata, con degli zigomi marcati che delineavano delle guance infossate. Delle vene sottili facevano capolino al di sotto delle tempie chiare, ma per la maggior parte del tempo erano nascosti da dei capelli biondi portati lunghi fino oltre le spalle; un paio di ciuffi sporgevano dalla fronte cadendo ai lati degli occhi. Nonostante l’età era più alto di tutti loro, anche più del n. I in persona. “Immagino di non avere molta scelta …”
Le parole furono esposte in maniera tale da non ammettere repliche, eppure Lumaria vi riconobbe una lieve inflessione, tipica delle regioni settentrionali di Karl.
A quanto pareva l’Organizzazione era riuscita a radunare gente da ogni angolo del mondo. O di ogni razza, rifletté ricordandosi del licantropo in tunica nera e stivali.
“… quindi seguitemi e non perdiamoci in chiacchiere. Ne avremo di cose di cui parlare!”
  
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