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Autore: PawsOfFire    01/07/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Nota inziale:
Buondì! innanzitutto mi scuso profondamente per questo immenso ritardo. Questa sessione d'esami mi ha portato via moltissimo tempo ed energie  ed, ahimè, ho dovuto assentarmi un po' da qua. Scusate ancora!
Adesso dovrei tornare a pubblicare con una certa regolarità e, soprattutto, tornare a recencensire e rispondere a tutti gli arretrati.
Vi lascio al capitolo ringraziandovi immensamente per il vostro sostegno a questa storia. Vi adoro!
PawsOfFire






 

C’era stata una battaglia, si…
Ho ricordi piuttosto confusi di ciò che è successo prima di entrare qui, in questo ospedale. Sapevo che c’era stato uno scontro violento e che mi trovavo a...
“Belgorod, credo.” mi massaggiai il mento, tentando di ricordare. Lo ritrovai ruvido, fitto di peluria dura di più di una settimana. Una settimana di incurie, ricordai, dove a malapena mi avevano somministrato la zuppa.
“Tieni qua” mi aveva detto Hildegard, mollandomi la ciotola di zuppa bollente tra le mani.
“Tanto ti puoi alzare, ora. Ho ben altro da fare che starti ad imboccare come un poppante”
Non avevo scelta. Strinsi i denti e puntellai i gomiti, cercando di sollevarmi un poco.
Il costato mi tormentava con le sue fitte continue, come se fosse cosparso da centinaia di sottilissimi aghi.
E mi offesi con Hildegard, dico sul serio. Iniziavo a sentirmi come un cucciolo capriccioso e trovavo confortante essere curato. Ma dovetti ricredermi, ed anche presto: quanto tempo poteva avere quella donna per seguire le mie pappe se fuori continuavano ad ammassarsi uomini? Noi eravamo fortunati, con le nostre brandine alte mezzo dito ed i cuscini di tessuto infeltrito. I più giacevano a terra perché non c’era spazio e, quelli che oramai erano diventati la maggioranza, alloggiavano fuori dalla chiesa sconsacrata, supini, in balia di un inizio di Agosto capriccioso e fetente. Quando il sole non batteva – e quindi bastavano teli e bastoni per riparare un poco i feriti dal calore – con la pioggia tutto diventava inutile: le tende si gonfiavano d’acqua ed i poveri uomini soffocavano nella tempesta se nessuno provvedeva a metterli al riparo, nonostante si effettuassero continui trasferimenti da ospedale ad ospedale.
Il terreno non aiutava la sepoltura: fangoso e quasi liquido scivolava come melma dalle pale e spesso dovevano andare molto a fondo prima di riuscire a tumulare i poveretti: una cattiva sepoltura tornava sempre a galla, riportando ai vivi il fetore dolciastro.
Presi la zuppa e la ingoiai senza fiatare.
L’indomani ebbi due stampelle di legno ma erano quasi inutili dato che, da solo, riuscivo a malapena a stare seduto. Solo il dottor Biermann, durante una sera afosa e stranamente quieta, mi diede una mano ad issarmi in piedi.
“Un passo per volta, Capitano Faust. Prima mi dica, colleziona ancora sigarette?”
“Mai smesso di farlo”
I suoi occhi si illuminarono. Il vecchio dottore era un grande amante del conio. Ma, visto che il tabacco scarseggiava più dei soldi, optò per un nuovo mezzo scambio.
Sua moglie, una certa Miriam Goldstein, distinta nobildonna di Amburgo il cui cognome aveva destato grattacapi perfino al Gestapo più fetente della città, era solita ad inviare al maritino dei sigarettoni costosi che il dottore amava fumare in una tirata unica, ignorando la lettera scritta in minuziose alzatine nere se non per fumarsela in un secondo momento, spesso colmandola con scarti di tabacco che raccoglieva chino, per ore, sul pavimento.
“Facciamo così. Le darò io una mano a camminare, Signor Faust.
La poterò a passeggio una volta al giorno per sette giorni...al modico prezzo di...settanta sigarette.”
“Affare fatto.”
Ammassati come eravamo, avevo circa mezzo metro di spazio per camminare. Dovevo tenermi stretto stretto alle stampelle che strisciavano sui fianchi dolenti, cercando di non pestare i piedi, teste ed arti fasciati e steccati. Biermann, da dietro, mi scortava, afferrandomi al volo quando perdevo l’equilibrio.
Attraversammo lo stretto corridoio di lamentosi mentre il mio sguardo indugiava tra centinaia di volti per riuscire a scorgere qualche lineamento familiare.
E fu uno di loro a chiamarmi.
“Capitano Faust!” e fu più un urlo per sovrastare la musica ed i lamenti che oramai si fondevano in una unica grande entità.
Ed eccolo, Tom. Sembrava ancora più piccolo del solito, con la testa tragicamente rasata a metà dalla quale spiccava una cicatrice in via di guarigione.
“ Weisz, quale onore. Battuto la testa, forse?”
Il giovane scrollò le spalle ed accennò un sorriso.
“Un sasso”
“Assurdi, questi russi. Non sono capaci ad asfaltare in maniera dignitosa le loro strade...”
Ero felice di vederlo. Nessuno dei due brillava di salute ma, almeno, eravamo vivi. Sapevo di non poter stare troppo tempo a ciondolare in mezzo al corridoio e Biermann me lo fece capire prontamente picchiettando sulla spalla ammaccata e dolente. Mi congedai con una smorfia di dolore, tornando a saltellare faticosamente verso il mio lettino.
Ero a pezzi: mi sentivo come se avessi percorso chilometri, invece erano solo una manciata di metri.

 

~
 

Dopo quello che il dottore considerò un giro di prova dovetti ovviamente anticipare il pagamento.
Fui felice di ritrovare il mio famigerato tascapane dove avevo nascosto tutti i beni di prima necessità, quali ammiccanti rivistine di costumi e la famigerata scarpa col tacco di Anita Blume.
La scarpa, in particolare, mi dava il coraggio di andare avanti.
Nei momenti bui, quando mi sentivo solo, triste e disperato, facevo scivolare la mano nella tasca, portandomi la scarpetta rossa al naso. Aveva un delicato profumo…
Credo che Suor Annette se ne sia accorta.
Un giorno, al mio risveglio, trovai una calzatura da infermiera davanti ai miei occhi.
Temo mi abbia preso per un feticista. Ma non importa, perché era una scarpetta orribile...nera e consumata, dava letteralmente alla nausea.
Puzzava di talco e sudore.
La lanciai via con un gesto sdegnato e pagai col digiuno il mio affronto, durante il quale venni trattato come un lebbroso e quindi tenuto a distanza da tutti.
Solo una giovane infermiera ebbe il coraggio di parlarmi. Una bellezza avvizzita dal duro lavoro, dai turni massacranti, dall’alcool e dal fumo.
Si avvicinò a me in modo quasi timido. Io, da gran maleducato, chiesi che fine avesse fatto la mia zuppa.
“Arriva, arriva” mi disse.
“Ma io ho fame”
“Arriva la zuppa, non si preoccupi” sorrise in modo velatamente amaro. Poi cambiò discorso.
“Mi dispiace non poter fare nulla per lei ma...devo chiederle un grande favore...”
Prima che potessi elaborare qualsiasi pensiero balordo l’infermiera mi mostrò la foto ingiallita ed usurata dal tempo di un soldato in alta uniforme.
Un tenente, forse. Non doveva avere più di venticinque anni...
La mano della giovane tremava appena nel consegnarmi quel cimelio a lei tanto caro.
“Lo conosce?” le sue parole trasudavano speranza e dolore.
“ Lui...non lo vedo da mesi”
Guardai attentamente la foto mentre lei si chiudeva in un silenzio composto, carico di attesa.
Scrollai la testa, abbassando lo sguardo.
"Non credo di averlo mai visto..."
Mi sentii improvvisamente in colpa e mi scusai a labbra socchiuse, nonostante sapessi perfettamente che non era colpa di nessuno. L’infermiera mi strappò la foto dalle mie mani e ricalcò le mie parole con un filo di voce.
“Non...non c’è bisogno. La ringrazio...”
Si allontanò lasciandosi dietro una ventata di tristezza.

 

~
 

“Caro Alfred,
ricordi il nostro gattino nero, Furia? Aveva il muso macchiato di bianco e tu pensavi fosse colpa del latte che aveva bevuto da cucciolo. Che cazzata.
Spero che tu stia bene. Perché qua il tempo è infame, non smette mai di piovere per davvero. Il sole è la pausa sigaretta delle nuvole.
E ne e ho visto, di pioggia. Bastardo tu che sei in Nord-Africa a farti baciare il culo dal sole. Qua piove, piove ed ancora piove. Piove acqua, piovono mortai, piovono proiettili e piovono granate. Non moriremo mai di sete.
Stefan diceva sempre che quando piove è dio che sta piangendo. E’ come la buona anima di Furia, che aveva la macchia bianca solo quando cambiava il pelo. Sembra tutto una cazzata, invece poi ci ripensi e dici:”magari è vero”
Sarebbe figo se rispondessi alla lettera. Non hai mai risposto, infame. Ed io ancora che ti scrivo un paio di volte l’anno.
009764, questo è l’indirizzo. Magari...fatti sentire prima di Natale, quando ci rivedremo.
Sarà così, no? O sono pazzo a crederci ancora?

Sempiterno,
Bastian Faust


~
 

Scrissi a mio fratello la bella copia di una lettera dalla calligrafia talmente oscena che io stesso faticavo a leggere. Non sapevo se l’avrebbe mai ricevuta ma avevo bisogno di scrivere qualcosa. Scrissi anche una lettera ai miei familiari, raccontando loro le imprese gloriose che mi avrebbero portato sui libri di storia.
Tessere lodi sulla mia persona migliorava la salute, lo dico sempre! Se resto troppo tempo senza meravigliarmi dell’assoluta perfezione che incarno mi avvizzisco come una pianta.
Già riuscivo ad immaginarmi la risposta di mia madre, con quella calligrafia fintamente curata che lasciava trapelare l’emozione di una risposta scritta a pugno.

“Oh Basti! Mi ricordo quando da piccolo ti colava sempre il moccolo sulla camicetta. Ma dimmi, ti danno da mangiare abbastanza? Dimmi quando torni, così ti preparo le frittelle di mele che ti piacciono tanto!”

E mio padre, subito dopo. Lui utilizzava il suo spazio per parlare della sua, di guerra, prima di concludere la lettera con un “mi raccomando, copriti. Non fare la fine di mio fratello Bastian che è morto congelato”
 

~

 

Iniziai a preoccuparmi quando in serata nessuno ebbe la propria zuppa.
Il giorno dopo, a pranzo, eravamo ancora a digiuno. In compenso si presentarono alle nostre porte un’infinità di soldati della Luftwaffe in condizioni disperate.
Noi non lo sentivamo ma, sopra le nostre teste, chissà quanto oltre le nuvole, aerei tedeschi e russi danzavano un valzer di morte.
Dannato sole di Agosto, che sei tornato ad asciugare la terra!
Nessuno diede peso per davvero alla battaglia nei cieli fino a quando una pioggia di metallo iniziò ad abbattersi poco lontano da noi. Fischiavano le eliche i motori ruggivano, esplodendo in un boato di terra ed erba e metallo, sfiatando rigurgiti fumo nero e fiamme.
Nelle ore che seguirono fu un trambusto di fischi e motori, schianti ed urla e musica e dannatissima musica sempre più alta che copriva l’inferno per la miseria qualcuno spenga quella musica!

 

Fummo costretti a liberare i letti.
Un minuto prima ero sdraiato nella mia brandina e subito dopo zoppicavo malamente con una stampella sola fuori dai bassi scalini della chiesa dismessa, un passo alla volta, con un foglio scritto alla buona che mi esentava dai lavori faticosi: a quanto pare esistono anche lavori leggeri sul fronte orientale ed io, dopo tre anni, ancora non lo sapevo.
Sfilai invisibile in un corridoio di terra mentre gli aviatori correvano tra i loro aerei ed i furgoni sfrigolavano i pneumatici sull’asfalto rovente di uno stupido agosto correndo tra le fusoliere fumanti e la pioggia di uomini che cadeva dal cielo.
Due giovani con una barella si scontrarono con me mentre correvano, facendomi perdere l’equilibrio. Un soldato mi afferrò al volo.
Dimissioni anticipate anche per lui e la sua profonda ferita al volto.
Ai lati i paracaduti coprivano in una confortevole tomba soldati mugolanti di dolore a cui, forse, nessuno avrebbe mai prestato attenzione.
Il bianco rendeva tutto più intimo. Alcuni di loro si contorcevano appena, forse era il vento che soffiava sui teloni. Nessuno aveva il coraggio di vedere cosa c’era lì sotto.
Ed io, vivo e zoppicante, passavo in mezzo a loro assieme a tutti gli altri che erano stati cacciati. Sentivo le loro invocazione a fil di voce e non riuscivo a capire se fosse un’allucinazione o si trattasse ancora della musica classica che prorompeva dall’ospedale.
Era come una parata grottesca. Noi, zoppicanti e stanchi e loro, dritti e composti, come se fossero sull’attenti.
Lanciai loro un’ultima occhiata, prima di salire con fatica su un furgoncino già al completo.
“Sieg Heil, ragazzi miei. Sono pur sempre un vostro superiore”

 

~
 

Sfrecciammo su una strada battuta alla meglio, tra i campi di erba bruciata dal sole e l’orizzonte che si perdeva, ingoiato dagli alberi sempreverdi.
Scorgemmo una linea ferroviaria. Proseguimmo per un po’, fin quando i binari non iniziarono a diventare sconnessi fino a scomparire per un tratto che parve lunghissimo, accostandosi ad una carcassa di un treno frammentato per tutta la linea, squassato dalle bombe ed ora adagiato su un fianco come un animale morto.
Gli uomini come corvi ne strappavano le interiora banchettandovi lietamente.
Scoppiai a ridere come un cretino. Un vecchio mi chiese se fossi pazzo.
Era così ovvio!

“Era un treno di rifornimenti, quello! Ecco dov’era, la mia zuppa!”

   
 
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