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Autore: Ardesis    20/07/2017    14 recensioni
E se una piccola deviazione di percorso avesse compromesso l’intera vicenda?
Genere: Erotico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il bianco immacolato del foglio steso sul ripiano dello scrittoio infastidiva la vista di Bernard. 

Intinse la penna d’oca nell’inchiostro e appoggiò il pugno sulla carta tentando di costringersi a formulare un inizio convincente. Fu tutto inutile. Le parole nella sua testa ronzavano e si rimescolavano confuse e inafferrabili come uno sciame di insetti agitati. Circostanza molto insolita, nonché irritante, per un giornalista che amava considerarsi un pozzo inesauribile di sentenze.

Prima che l’inchiostro colasse sul foglio, tracciò la data sull’angolo sinistro della pagina con movimenti lenti ed annoiati, poi abbandonò la penna sulla scrivania e decise di arrendersi.

Gettò la testa all’indietro e seguì con gli occhi il tragitto di una mosca che volava in cerchio a pelo del soffitto.

Da quando si era alzato dal letto, riusciva a pensare soltanto al sogno che aveva fatto quella notte. Per la prima volta dopo molti anni, aveva rivisto sua madre e quell’immagine onirica gli si era incastrata nella mente, inceppando i meccanismi del suo ingegno e impedendogli di trovare la dose giusta di concentrazione. 

Aveva creduto per tanto tempo di essere riuscito a relegare il ricordo di sua madre in un angolo polveroso e remoto del proprio cuore. Invece, quel fantasma della sua infanzia era riaffiorato dal baratro dei ricordi, senza alcun preavviso e senza un’apparente motivazione. 

Di lei, comunque, rammentava soltanto vaghi ed inutili dettagli. Ricordava che aveva i capelli neri e gli occhi grandi e chiari, che cantava quando lavava i panni e che calzava sempre un paio di zoccoli larghi e rumorosi.

Si alzò e andò ad aprire la finestra per ricevere sul viso una folata del tiepido vento mattutino. Ma i ricordi, invece che essere spazzati via, cominciarono ad accumularsi e a sovrapporsi incontrollati.

-La bellezza di tua madre è stata la sua rovina.-

Aveva grugnito zio Jacques Chatelet con la sua voce cavernosa, quando era venuto a Parigi da Rouen per assistere al funerale della sorella e per portare via con sé il nipote orfano.

Erano passati davvero molti anni prima che lo zio si decidesse a smettere di fare commenti ambigui e vaghi su sua madre e a raccontargli per filo e per segno la sua storia. Seduto su uno sgabello storto nella bottega dello zio, Bernard aveva scoperto che la vita di Cecile Chatelet era stata una vera e propria concatenazione di tragedie. Cresciuta dal fratello nelle campagne di Rouen, non appena aveva compiuto diciassette anni, era stata data in moglie ad un giovane falegname di Parigi che l’aveva portata con sé nella capitale. Dopo un solo lustro di matrimonio, il marito era morto di vaiolo, lasciandola vedova ancora nel fiore degli anni. Distrutta dal dolore ma troppo giovane per sopportare il fardello di un lutto, Cecile aveva trovato conforto nel vivace corteggiamento di un giovane soldato della marina francese. Forse per ingenuità o forse semplicemente per bisogno d’amore, Cecile si era lasciata convincere dalle promesse di quell’uomo, sottovalutando, o meglio, trascurando del tutto le conseguenze. Quando lui era salpato per il nord, Cecile era rimasta ad attendere invano il suo ritorno, seguendo nel frattempo, di giorno in giorno, il lento gonfiarsi del proprio ventre. La consapevolezza di essere stata ingannata era arrivata troppo tardi e nonostante lei avesse tentato di riguadagnarsi l’affetto della famiglia del defunto marito, era stata ripudiata e respinta da tutti. Il figlio era venuto alla luce in un piccolo convento di Parigi, dove Cecile era riuscita ad ottenere un lavoro come sguattera. Aveva accudito il piccolo Bernard per pochi anni, finché una malattia non le aveva portato via prima la salute, poi la ragione e infine la vita.

Bernard picchiettò le mani sul bordo dello scrittoio perdendosi ad osservare il nero profondo dell’inchiostro nella boccetta.

-Dio ha punito tua madre con la sifilide per essere stata viziosa e infedele.-

Quante volte nella sua gioventù era stato costretto a sentire quella frase! Ma quanto più lo zio aveva ripetuto quelle parole, tanto più Bernard si era convinto della loro infondatezza. D’altra parte, Jacques Chatelet era appartenuto ad una non rara specie di cattolici rigidi e cocciuti, che non osavano mettere in discussione nessuno di quei pregiudizi di stampo medievale che avevano assorbito durante l’infanzia. In ogni caso, nonostante zio Jacques non fosse mai riuscito a digerire l’idea che Bernard fosse stato concepito al di fuori del matrimonio, si era preso cura dell'inaspettato nipote, tenendolo lontano dalla miseria che dilagava a Parigi e impartendogli una valida istruzione. Nel corso degli anni, a dispetto delle aspettative di entrambi, erano riusciti perfino ad affezionarsi l’uno all’altro. 

Avevano avuto un rapporto strano, talvolta complice talvolta conflittuale, ma Bernard non poteva che sentirsi riconoscente nei confronti di quel grosso e burbero Gargantua, con la testa dura e il cuore tenero. Lo zio era morto per problemi di gotta l’anno stesso in cui lui si era trasferito a Parigi per cercare lavoro come giornalista.

Bernard si accese la pipa ritenendo che un po’ di fumo sarebbe stato in grado di scacciare quei tristi pensieri dalla sua testa, come vespe da un alveare.

-Sono anni che non porto un fiore sulla tomba di mia madre.-

Borbottò liberando un rivolo di fumo dalle labbra. Forse quel sogno gli aveva voluto suggerire che fosse giunto il momento di farle una visita.

Ricordava ormai a mala pena in che posizione del cimitero si trovasse la sobria croce di legno che recava umilmente il nome di Cecile Chatelet, sepolta, per convenzione, accanto al marito. 

Decise di uscire di casa e recarsi al cimitero, sperando, in quel modo, di poter esorcizzare i demoni che infestavano la sua testa.

Camminò fino al campo santo e rimase ad osservare le due croci di legno con le braccia incrociate sul petto. Ai piedi di ciascuna croce giaceva una rosa bianca con i petali ingialliti e grinzosi, e Bernard dedusse, con un certo sollievo, di non essere l’unico a conservare la memoria di quei due defunti. Forse qualche parente del marito di sua madre aveva portato loro quei fiori qualche giorno addietro. 

Sospirò e rivolse un compassionevole sorriso alle due tombe. Suo zio aveva sempre sostenuto che, attraverso la Morte, i due sfortunati coniugi Grandier si fossero finalmente riconciliati e che riposassero insieme in pace. Bernard scrollò la testa e sospirò. Non riusciva ad ammettere che ci potesse essere vita oltre la morte, però credeva che i defunti potessero sopravvivere nella memoria dei vivi. Perfino quella comune coppia di sposi, che si era lasciata alle spalle due piccole esistenze anonime e passeggere, meritava di essere ricordata.

Guardò le due rose e gli sfuggì una lacrima. 

 

 

 

 

 

 

Il mantello scuro della notte avvolse il cielo soffocando lentamente le ultime timide frange di sole. La fulgida luce di Venere brillò per prima nella volta celeste, sospesa sopra l’orizzonte, annunciando una notte chiara e limpida.

Di colpo, la siepe di ginepro che separava il cortile dal giardino emise un fruscio. Oscar si voltò di scatto e tese il braccio puntando la canna della pistola verso la pianta. Il suo sguardo era pronto a catturare ogni minimo movimento e il suo dito sul grilletto era carico come l’arma che teneva in pugno, ma dal cespuglio si levò in volo soltanto un uccello. Oscar lo osservò planare nel cielo color lapislazzulo e appollaiarsi sul davanzale di una delle alte finestre di Villa Millet. 

Abbassò l’arma e rimase a guardare la facciata del palazzo. Dai vetri trapelava la calda luce ambrata dei grandi lampadari del salone da ballo e le note ovattate di un vivace minuetto attraversavano le pareti disperdendosi nel cortile.

Con un profondo sospiro, tornò ad appoggiarsi al muro esterno della Villa, guardandosi intorno, mentre il buio calava leggero come un tulle scuro. La luna piena sorse dall’orizzonte e cominciò ad inerpicarsi nel cielo. La sua luce bianca inghiottì tutti i colori del rigoglioso giardino, dando l’impressione che sopra ogni cosa si fosse posato uno strato di ghiaccio. Tutto era immobile. Non soffiava neppure un alito di vento, come se ogni cosa fosse in attesa insieme a lei.

 

 

 

 

André entrò nella camera della Baronessa Millet attraverso la porta del terrazzo e si sorprese di trovare l’ambiente fiocamente illuminato da un lucignolo. Qualche cameriera sbadata aveva lasciato accesa una candela sul comodino della Signora. 

Cominciò a vagare nella stanza finché la sua attenzione non fu catturata da uno scrigno dorato che troneggiava sul mobile della toilette, accanto ad una schiera di colorate boccette di profumo. Per quanto breve, la sua esperienza di ladro gli aveva insegnato che le nobildonne tendessero a conservare i propri gioielli in cofanetti simili, rigorosamente tenuti in bella vista e a portata di mano. Vi si avvicinò e sollevò il coperchio, immaginando di trovarsi davanti ad un eccitante sfavillio di ori e di pietre preziose, invece non vide altro che la fodera di velluto rosso che ricopriva l’interno dello scrigno. Vuoto. 

Ebbe il tempo di prendere atto di esser stato preceduto, poi di colpo la candela si spense. Il buio pesto che gli crollò addosso gli tolse il fiato. D’istinto sollevò gli occhi in cerca di un punto di riferimento, ma ciò che vide gli fece venire la pelle d’oca. C’era una sagoma scura proprio davanti a lui. La sua fronte si coprì di sudore freddo ma fu questione di pochi secondi, perché quando i suoi occhi si abituarono alla penombra, riconobbe che quella sagoma era il suo stesso riflesso sullo specchio. Ritornò con sollievo a respirare.

-Mi sono calato troppo nella parte.-

Scherzò per rincuorarsi, ma senza immaginare di ottenere una risposta.

-Concordo.-

Sibilò una voce alle sue spalle. Il cuore gli tornò in gola. 

-Chi è là?-

Chiese, con l’addome contratto e gli occhi incollati sullo specchio. Silenzio. Non poteva essere stato uno scherzo della sua fantasia, si disse. Il Cavaliere nero era lì, da qualche parte dietro di lui, protetto dal buio.

-Impostore...- la voce del ladro fece vibrare l’aria -Se questa non sarà la tua ultima notte da Cavaliere nero, allora sarà l'ultima della tua miserevole vita!-

Nel nero riflesso sulla superficie dello specchio, André fece in tempo a vedere un bagliore sottile di luce che squarciava il buio. Si tuffò di lato e riuscì per un soffio ad evitare un colpo di spada spietato come lo slancio mortale di una ghigliottina. La lama del Cavaliere nero calò con una tale violenza sul ripiano della consolle, che si conficcò tra le fibre solide del legno. André approfittò di quei pochi attimi di vantaggio per fuggire sul balcone. Scavalcò il parapetto con un balzo e atterrò sul cornicione, appena prima che un nuovo colpo di spada lo raggiungesse.

-Ti stavo aspettando, figlio di puttana!-

Esplose Bernard, mentre André, con la schiena addossata al muro, si allontanava da lui a piccoli passi sulla sottile sporgenza del muro. 

-Ti stavo aspettando anche io!-

Gli rispose. Quand’ebbe conquistato il balcone vicino, si guardò indietro e scoprì che il ladro non aveva nemmeno provato ad inseguirlo. Era immobile e lo fissava in silenzio, forse turbato dalle sue parole. Allora estrasse dalla cintola il pugnale con lo stemma del Duca D'Orleans e lo sollevò verso la luce della luna:

-Riconosci questo pugnale?-

Il Cavaliere nero gli rispose mostrandogli i denti come un cane inferocito. “Sì, lo riconosci, vero?” André gli lanciò un sorriso di sfida e saltò dal parapetto, atterrando su un muro coperto di edera che si sollevava sopra il giardino della Villa. Da lì raggiunse facilmente il cortile. Fece un discreto cenno ad Oscar per comunicarle di stare all’erta e lei gli rispose facendo brillare la canna della pistola alla luce della luna. “Tutto procede secondo i piani.”

Bernard si calò dal balcone con una fune, toccando terra a metà strada tra il nascondiglio di Oscar e il punto in cui stava André, e sguainò la spada.

-Chi sei? Perché fai tutto questo?-

Gridò facendo mulinare il fioretto.

-Rinuncia alla tua maschera e ai furti.- rispose André, fedele al proprio copione, mentre rinfoderava il coltello nella guaina della cintura -Se non lo farai, consegnerò questo pugnale alle autorità e il Duca D'Orleans verrà pubblicamente accusato di essere tuo complice.-

Bernard si avvicinò.

-Battiti con me e dimostra che la tua lama è affilata quanto la tua lingua.- lo apostrofò -Se vinci tu, mi costituirò personalmente. Ma se vinco io, mi consegnerai il pugnale e smetterai di infangare il mio nome.-

André lanciò uno sguardo ad Oscar, ben nascosta nell’ombra, e ripensò a quella stessa mattina, quando l’aveva vista affacciata alla finestra con una tazza di tè in mano, bella, luminosa, baciata dal primo sole del giorno. Quanto desiderava dimostrarle di essere pronto a misurarsi in un vero combattimento! 

-Molto bene.- gridò fiero -In guardia!-

 

 

 

 

Le bocca di Oscar si schiuse ma la sua mano corse a coprirla prima che la voce provasse ad uscire. Il “no!” che le era salito su per la gola si bloccò contro le sue labbra serrate. Non poteva gridare, non poteva farsi scoprire. Cercò di ideare in fretta un modo per impedire che il duello cominciasse, ma non fece in tempo. Le scie luminose delle spade sfolgorarono nel buio della notte e le lame si scontrarono con un crudo fragore di metallo, richiamando l’attenzione degli ospiti della Baronessa, che si accalcarono alle finestre del Palazzo per assistere a quello spettacolo imprevisto.

-Sono in due!-

Strillò eccitata una giovane donna, puntando un dito verso di loro.

Oscar rimase immobile contro il muro a seguire con lo sguardo le mosse dei duellanti. Caricò la pistola, ma tenne lontano il dito dal grilletto per evitare di cadere nella tentazione di premerlo. Per quanto la sua mira potesse essere precisa, col buio e con la dinamicità del duello era troppo difficile distinguere quale dei due fosse il vero Cavaliere nero. 

Decise di fidarsi dell’abilità di André, pur sentendosi morire ogni volta che la lama del ladro sfiorava il corpo dell’amico. Pregò in silenzio che la sorte non facesse scherzi e cercò di ignorare il pessimo presentimento che le stringeva lo stomaco.

 

 

 

 

 

Bernard si pentì quasi subito di aver lanciato quella sfida. Aveva creduto che l’avversario fosse solo uno spaccone con pochi fondamenti di scherma e invece si era trovato davanti un abile spadaccino. Provò a tenergli testa, ma alla lunga si accorse di essere in difficoltà. Il fantasma della sconfitta cominciò a fargli paura.

Ad un tratto, nel pieno del duello, qualcuno tra il pubblico affacciato ai finestroni propose di intervenire. Oscar cominciò a sudare freddo.

-André, disarmalo prima che gli ospiti della Baronessa si intromettano.-

Sussurrò tremando di impazienza e stringendo l’impugnatura della pistola con entrambe le mani. Con stupore e sollievo si trovò ad assistere proprio in quel momento ad una svolta decisiva. Con una mossa perfetta, André era riuscito a far saltare l’arma dalle mani dell’avversario. 

Bernard sentì una voragine aprirsi dentro di lui, mentre guardava la propria spada che volteggiava nell’aria, sempre più distante, fino a diventare irraggiungibile. Davanti ai suoi occhi, ciechi per lo sgomento, si tratteggiò la visione mostruosa di un ciclopico giudice che leggeva con voce solenne la sua condanna a morte.

Crollò in ginocchio, svuotato dalla sensazione di sconfitta, aprì le mani in segno di resa e sollevò la testa, offrendo il volto alla luce della luna. In quel preciso istante, Oscar vide André indugiare e capì con terrore che quell’attimo di esitazione gli sarebbe costato caro. Alzò in fretta la pistola e prese la mira in linea con la canna, puntando direttamente alla schiena del ladro, ma la mano di Bernard fu più veloce della sua.

Accadde tutto troppo rapidamente.

Bernard afferrò il manico del pugnale che André portava alla cintura e si rialzò da terra con un balzo. La lama dello stiletto brillò come una stella cadente nella notte e squarciò il buio disegnando la traiettoria curva del suo braccio che si sollevava rapido verso il cielo.

Oscar premette il grilletto e il proiettile si conficcò dritto nella schiena di Bernard. Ma lo slancio della sua mano era ormai inarrestabile. La lama affilatissima del pugnale non riuscì a raggiungere la gola di André, ma incise un taglio verticale su un lato del suo volto, lacerando la maschera e la carne. Bernard perse i sensi ancor prima che il suo corpo ferito crollasse a terra. Quando toccò il suolo, il pugnale schizzò fuori dalla sua mano e rimbalzò distante sui ciottoli.

André non si rese nemmeno conto di aver urlato. Cadde in ginocchio, senza fiato, e la notte gli sembrò diventare di colpo più nera.

Il dolore che gli attraversò la faccia risucchiò tutte le altre sensazioni. Era come se una lingua di fuoco gli stesse divorando il volto, scavando la pelle. Si portò una mano sulla guancia e la trovò viscida di sangue.

Devastato dall’orrore, riuscì ad udire solo un borbottio confuso di esclamazioni e di passi che gli si avvicinavano e distinse a malapena la voce di Oscar che chiamava ripetutamente il suo nome. Alzò il viso, ma scoprì di non riuscire a vederla. Ebbe la vaga percezione di un paio di mani che gli prendevano le spalle, poi le forze scivolarono fuori dal suo corpo insieme a quel fluido di fuoco che colava dalla ferita. Si accasciò tra le braccia di lei ascoltando l’eco confusa della sua voce dolce e disperata.

-Sono qui, André, andrà tutto bene.-

   
 
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