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Autore: Kat Logan    21/07/2017    5 recensioni
Esiste realmente la quiete dopo la tempesta?
C'è chi cerca di costruirsi un nuovo futuro sulle macerie del passato e chi invece dal passato ne rimane ossessionato divenendo preda dei propri demoni.
[Terzo capitolo di Stockholm Syndrome e Kissing The Dragon].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Rei/Rea, Un po' tutti | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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“On the summer day when I proposed
I made that wedding ring from dentist gold
And I asked her father, but her daddy said, "No
You can't marry my daughter"
She and I went on the run
Don't care about religion
I'm gonna marry the woman I love”
 
Nancy Mulligan – Ed Sheeran
 
 
 
 

 
Quando Haruka rientrò a casa le note del violino di Michiru inondavano il salotto.
La finestra aperta con le tende blu, danzanti al ritmo dettato dal venticello, parevano essere in sincronia con quella melodia.
La bionda scalzò le scarpe all’ingresso, tentando di far meno rumore possibile poiché non voleva interrompere l’esibizione dell’amata, ma una volta giunta alle sue spalle l’altra soffocò lentamente il suo brano.
Haruka batté le mani. Tre sciocchi secchi furono il suo applauso seguiti da un caldo bacio sul collo dell’altra.
«Sei sprecata per suonare qui dentro» sussurrò a Michiru scostandole i capelli dalla spalla per poi baciare anche quel lembo di pelle scoperto dalla canottiera che indossava l’altra.
«Il posto più adatto a te sarebbe un palcoscenico…e io sarei in prima fila per ascoltarti».
«Sembra un bel sogno…» constatò Michiru sorridendole.
Posò il violino nella sua custodia con gesti accorti e misurati per poi tornare dalla sua poliziotta preferita.
«Com’è andato il lavoro?» domandò circondandole il collo con le braccia per poi darle un bacio sulle labbra.
Haruka sospirò pesantemente.
«Quello da facchino o in centrale?» chiese ironicamente.
Michiru si lasciò scappare una risatina carezzandole il capo.
«Gavetta?».
«Sfruttamento oserei dire».
«Dai, amore ci si passa tutti…».
«Non ho fatto tanta fatica per portare in giro doni, spostare scatoloni piene di pratiche inutili e fare il caffè a mezzo dipartimento o commissioni per Jadeite».
Michiru rimase in silenzio ascoltando lo sfogo della bionda e cercando di addolcirle la giornata con qualche coccola.
Solitamente era così che funzionava. Haruka rientrava lamentandosi di qualcosa, grugniva, si sfogava un po’ sotto le carezze di Michiru per poi ritrovare il suo stato di calma piatta apparente. E come da manuale così accadde.
Sedettero sul divano, accendendo la televisione e rimanendo aggrovigliate per una decina di minuti sul divano.
Haruka – campionessa di zapping disinteressato – stava corrodendo lentamente la pazienza di Michiru che non sopportava quel cambio continuo d’immagini senza seguire davvero nulla.
Ma Michiru taceva. Cercando le parole per affrontare l’argomento famiglia con la bionda.
Forse per la prima volta era lei a tenersi qualcosa dentro, ad affondare nei propri turbamenti senza trovare la giusta via d’uscita. Ma lei non era fatta per mentire o tenere a lungo i segreti con Haruka ed Ami aveva ragione. Doveva affrontare la questione, nel bene o nel male.
Le cose vanno fatte nella maniera giusta. Così avevano vissuto le due sorelle fino ad allora, così era stato insegnato loro. E se Michiru voleva davvero essere una brava madre allora doveva prima essere una persona onesta con chi amava.
«Ruka…» Michiru attirò la sua attenzione posando una mano su quella dell’altra che continuava imperterrita a cambiare canale.
La bionda soppresse uno sbuffo tentando di giustificarsi con un «non c’è nulla d’interessante da vedere» ma Michiru non l’ascoltava, troppo intenta a prendere la rincorsa per partire col piede giusto.
«Devo parlarti» cadde in fallo e se ne rese contro dalla tensione che serpeggiò nello sguardo dell’altra.
Haruka si drizzò sul divano, forse seduta composta per la prima volta in vita sua.
Quando qualcuno comincia la frase con un “dobbiamo parlare” non è mai un buon segno. Precisò a se stessa sforzandosi di non cedere al panico.
«Cosa succede Michi?».
Ha un altro.
Haruka cominciò le sue congetture mentali.
Sono stata assente, faccio orari impossibili e si è stancata. Così ha trovato un altro, un uomo.
Panico. Sentì lo stomaco contorcersi nell’immediato.
Avrebbe vomitato e lei detestava farlo.
Michiru abbassò lo sguardo in cerca delle parole. Non era da lei temporeggiare in quel modo e ciò contribuì ad agitare ancor più Haruka.
Da dove comincio? Michiru si torse le dita affusolate attanagliata dall’ansia.
«Penso di…».
«Vuoi lasciare casa?» la interruppe la compagna senza riuscire a tenere più a freno la lingua.
«È?!».
«Vuoi lasciarmi e andare via di casa?».
«Ruka…».
«Oddio, lo sapevo!» Haruka si mise le mani nei capelli, incapace di fermare il trip paranoico nel quale era entrata.
«No, Ruka. Ma che stai dicendo?!» Michiru si alzò in piedi per stroncare sul nascere l’assurda congettura dell’altra.
«Credi davvero potrei farti una cosa del genere?».
Haruka provò imbarazzo. Non riusciva a controllarsi quando si trattava di lei, non era mai riuscita a farlo sin dal principio.
Respirò a fondo, strofinando la guancia nel palmo di Michiru che aveva raggiunto il suo visto per scrutarne meglio lo sguardo e tranquillizzarla.
«Non ti abbandonerei mai…» ribadì. «Quello che volevo dirti è che dovremmo parlare a mio padre».
Lo sguardo cobalto di Haruka si tuffò in quello ceruleo di Michiru.
«Credo sia ora di dirgli la verità su di noi. Non voglio mentirgli più…».
La bionda attese. Non disse nulla lasciando fosse la sua amata a continuare ciò che aveva da dire.
Doveva essere difficile affrontare quella questione poiché mai aveva visto quella splendida donna doversi sforzare in quel modo per trovare le parole.
«Probabilmente sarà una causa persa. Conosco mio padre come le mie tasche…».
«Già non mi sopportava pensandomi come un uomo…».
«Penso sia per il rapimento, sai com’è».
«Ma potrà odiarmi. Va bene, purché tu sia felice».
«Non voglio ti odi, Ruka…».
«Credo sarà inevitabile» un sorriso sconsolato si tirò sulle sue labbra.
«Io sarò al tuo fianco, però Michi…» le strinse la mano «perché proprio ora?».
Tacque.
Michiru tenne ancora un po’ Hotaru solo per sé.
 
 
***   
 
 
Ami stava per staccare dal proprio turno. Si diresse allo spogliatoio, infilò i propri jeans, una maglietta pulita e la giacchetta in eco pelle marrone comprata in un mercatino l’anno prima assieme a Minako. Allacciò in un paio di minuti entrambe le scarpe, si mise la borsa in spalla e con un sonoro “clack” chiuse l’armadietto.
Il corridoio era calmo a quell’ora. Qualche infermiera girava qua e là ma l’orario di visite era cessato. Aleggiava la quiete.
Passò da una stanza semi buia dove Mamoru studiava stanco alcune radiografie, busso piano sulla porta per salutarlo e senza perdersi in chiacchere raggiuse il reparto in cui Sadao era ancora ricoverato.
«Come va?» domandò sulla soglia dopo averlo visto sveglio nel proprio letto.
Il ragazzo le sorrise «spiaggiato».
«Peccato per la vista mare allora!».
«Vai via?».
Ami annuì con un cenno del capo.
«Allora…buona serata».
«Grazie. Lo spero, è una serata in famiglia ma…»
«Situazione complicata?» tirò ad indovinare lui.
«Esatto».
«Allora, beh, in questo caso…b-buona fortuna!» incespicò appena per poi staccare lo sguardo da lei e portarlo diritto verso il muro che aveva di fronte. All’improvviso le parole di Rei e Haruka che lo prendevano in giro sull’aver fatto l’eroe con Ami gli tornarono alla mente.
Cercò di non darci peso o si sarebbe imbarazzato e avrebbe preso fuoco come minimo di fronte a lei.
«Grazie».
«D-di nulla».
«Intendo dire…» Ami aveva un piede sulla soglia e l’altro in direzione dell’uscita. Pronta per la fuga.
«Grazie anche per l’altro giorno! Se non ci fossi stato tu…».
Sadao boccheggiò. Le dita si mossero stropicciando il lenzuolo in modo convulso.
«Nessun p-problema».
Imbecille.
Voleva colpirsi da solo ma aspettò che lei se ne andasse per farlo.
 
 
***
 
 
«Ehi, genio!» la voce di Minako richiamò l’attenzione di Ami che aveva rallentato il passo davanti la veranda del Moon bar.
«Ciao Mina» la salutò l’amica per raggiungerla allo sgabello sul quale sedeva.
«Ti fermi per un drink?».
«Io…oh si la cena! Siete al ristorante di Akira, no?! Perciò fermati a fare un aperitivo dai. Andiamo insieme dopo!».
Ami si lasciò circuire dall’amica che ordinò per entrambe lo stesso cocktail e prese posto accanto a lei.
«Non credi sarà troppo forte? Io non reggo l’alcol» disse con una nota di preoccupazione nella voce Ami.
«Tranquilla, i neuroni funzioneranno ancora a dovere dopo!». La bionda le diede una pacca sulla spalla giocherellando con uno degli stecchini che infilzavano alcune olive in un piccolo piattino.
«Hai parlato con Akira?».
Minako alzò il pollice quasi a farlo schiantare contro il naso dell’altra.
«Certo! E’ andata alla grande!».
Ami ridacchiò. «Sarai una mammina e sei qui a bere!?».
La bionda si drizzò sullo sgabello e tirò in fuori il petto con fare tronfio.
«Futura mammina» si portò una mano sul ventre piatto «qui dentro non c’è ancora nessuno quindi…posso bere quanto voglio!».
Il cameriere portò loro i Japanese Ice Tea ordinati dalla bionda.
Minako frugò nella borsa, afferrò il portafoglio e pagò per entrambe. Dopo di che mostrò orgogliosa il cellulare all’altra.
«La vedi questa?».
Ami prese tra le labbra la cannuccia e incuriosita guardò lo schermo.
«E’ un app per l’ovulazione!».
«ODDIO!» Ami rischiò di fare una figura barbina e di sputare metà cockatail addosso a qualche povero malcapitato.
«Beh che c’è?! E’ roba da donne…no?!».
«MA CHE DIAVOLO MI HAI ORDINATO?!!».
 
*** 
 
 
«Dritta. Devo staaaare assolutamenteee drit-taaah».
Ami tentò d’immaginare una linea retta dinnanzi a sé e di percorrerla come un’equilibrista su un filo teso. Ogni tentativo però risultò vano poiché barcollava pericolosamente anche se Minako cercava di farle da sostegno.
«Ma che diavolo di ore sono?!» chiese con voce impastata il caschetto blu senza riuscire a visualizzare l’orario segnalato dal suo digitale al polso.
«Ooh siamo in tempo niente paura!» la rassicurò Minako come se nulla fosse.
Non che rientrasse nella normalità vedere Ami sbronza ma se doveva essere shockata per qualcosa era per la poca tolleranza dell’amica all’alcool.
«Mi chiedo come si faccia ad ubriacarsi con così poco…». Diede voce ai pensieri per poi vedere all’altro lato della strada l’entrata del locale di Akira.
«Ma quello è mio…padre?!».
«Pare di sì».
Si bloccarono sul posto e Ami si toccò forsennatamente la faccia.
«Oddio. È mio padre».
«Lo hai già detto».
«Si ma…io…».
«È entrato. Non ci ha viste. Okay Amiiii».
«È importante Mina. È im-por-tan-te sta sera» cercò di scandire Ami.
Haruka parcheggiò proprio davanti l’entrata, aprì la portiera a Michiru che strinse la borsetta e le diede un bacio sulla fronte.
Minako le fissò e notò una certa tensione nei movimenti della sorella maggiore di Ami.
«Glielo dicono…» ebbe la rivelazione sotto agli occhi. «DICONO A YOSHIO DI LORO QUESTA SERA».
«Sssshhhhhtttt».
«Oddio e tu eri il supporto per Michi». Minako andò nel pallone e boccheggiò. Si fece aria con una mano ripetendosi di non svenire e che degli zuccheri sarebbero stati pronti all’uso nella cucina di Akira.
«Il retro Ami. Entriamo dal retro».
 
 
*** 
 

«Benvenuti» Akira accolse i suoi ospiti con un sorriso gioviale.
«Grazie per aver preso la prenotazione così all’ultimo» disse riconoscente Michiru.
«Figurati. Per gli amici c’è sempre posto. Vi porto al tavolo!».
Yoshio borbottò qualcosa e Michiru lo rassicurò dicendogli che Ami sarebbe arrivata a momenti.
Haruka cercò conforto nell’oscillare del codino nero di Akira legato dietro la nuca.
Nel suo locale, armato di grembiule bianco in vita, lui sembrava aver trovato la sua dimensione mentre lei si sentiva come fosse rimasta di venti passi indietro.
Una strana sensazione allo stomaco.
Lui sarebbe tornato indietro a tenderle la mano se ne avesse avuto bisogno?
 
I tre si accomodarono ad un tavolo tondo sistemato accanto ad una vetrata che si affacciava su un giardino dove al centro spiccava una fontana illuminata. La saletta era appartata e sebbene lei e Michiru avrebbero dovuto affrontare un argomento delicato tutta quella riservatezza mise ancora più tensione addosso ad Haruka.
«Intanto vi porto un po’ di sakè» disse Akira ripercorrendo il breve percorso a ritroso per poi dirigersi in cucina.
«Allora tesoro, stai bene?» domandò Yoshio alla figlia maggiore.
«Sì papà».
«E ora come fai col lavoro? Ho visto l’edificio dove insegni completamente bruciato. È una fortuna non ti trovassi lì».
«Al momento do lezioni ad alcuni studenti a casa».
«Anche se io credo che Michiru sia sprecata come insegnate» aggiunse Haruka.
«Hai ragione. Ho sempre sostenuto anche io che Michiru ha troppo talento per…».
«Papà…» lo interruppe la figlia sentendosi imbarazzata per tutti quegli elogi.
«Tesoro, sei una donna in gamba. Lascia che i tuoi uomini si stimino un po’. No?!».
 
Michiru portò una mano sotto al tavolo intrecciandola a quella di Haruka.
 
«Ma dov’è finita tua sorella? Non è da lei fare tardi a un appuntamento».
 
 
 
***
 
 
Un rumore di scatole e latta attirò l’attenzione di Akira rischiando di fargli versare fuori dai bicchierini il sakè.
Il ragazzo posò tutto sul vassoio e si affrettò ad andare verso i fornelli quando colse in flagrante la propria fidanzata.
«Woh, wooh, che succede qui?».
Ami tentava di lavarsi il viso con l’acqua più fredda di cui il lavandino disponesse mentre Minako aveva la bocca piena e sparso qualche briciola qua e là.
«Avevo bisogno di…» mandò giù un grosso pezzo di angel cake.
«Fammi indovinare. Zuccheri» disse Akira.
«Esatto. È un’emergenza».
«Fa che sia un’emergenza che mi metta nei guai. Ho il locale pieno».
«Certo amore» sorrise furba lei lasciandogli un bacio sulla guancia.
«Và, và… ci penso io qui».
Akira fece per tornare al suo vassoio da consegnare al tavolo di Haruka e Michiru quando strizzò gli occhi e tornò indietro.
«Che ci fa qui Ami?».
«È lei l’emergenza!» sorrise zuccherina Minako.
 
 
***
 
Sarà un vero disastro.
Akira riusciva a pensare solo a quello mentre con un sorriso forzato si dirigeva verso il tavolo dei Kaiō.
Improvvisamente si fece rigido e cominciò a camminare quasi avesse dei crampi alle lunghe gambe.
Haruka nel vederlo arrivare a quel modo gli riservò uno sguardo interrogativo mentre l’amico consegnava a loro il saké e qualche antipasto di mare offerto dalla casa.
Da quando in qua qualcosa non si paga al ristorante? Valutò Haruka nella sua testa.
Di solito è per scusarsi di qualcosa.
«Che succede?» domandò con un sibilo fra i denti quando il moro si chinò al suo fianco per posizionarle il piccolo bicchierino contenente la domanda.
«Andrà tutto bene» mascherò lui in un colpo di tosse.
Quando Akira faceva promesse era solito mantenerle, a meno che non fossero bugie bianche e allora - lui che aveva una strana concezione di quella tipologia di menzogna per un buon fine - c’era da preoccuparsi.
A Michiru che non sfuggiva nulla della complicità dei due distrasse suo padre indicando il piatto da portata colmo di crostini e stuzzichini.
«Oh guarda papà, c’è quello col calamaro che ti piace tanto!» lo servì amorevolmente per poi pizzicare sotto al tavolo la coscia di Haruka.
«Che succede amore?»
Haruka sobbalzò appena e accigliata le rispose con un «gli hai appena dato il mio preferito».
Si massaggiò la gamba ma venne immediatamente fulminata dallo sguardo della compagna.
 
 
Intanto in cucina Minako sembrava essersi tramutata nell’allenatore di un pugile massacrato di botte a bordo ring.
Massaggiò le spalle ad Ami e con convinzione la spronò ad andare.
«Vai tigre, puoi farcela!».
Ami le rivolse uno sguardo perplesso.
«Non mi sento per niente bene…» mugugnò con una mano allo stomaco.
«Oh si che stai bene. Devi solo rimpinzarti ben bene. Tra poco passa tutto ma devi andare ORA».
«Ma, io…».
«Ami, ehi, Ami!» Minako schioccò le dita davanti alle iridi celesti per valutarne il riflesso.
«Cinque per cinque…».
«Venticinque» rispose in un sospiro.
«Bene. Neuroblastoma?» chiese seria.
«Tumore che ha origine dalle cellule nervose del sistema autonomo».
Minako parve soddisfatta.
«Perfetto, sei pronta!».
«Io non credo che…».
«BASTA TEMPOREGGIARE».
La bionda, animata della sua prorompente energia vitale la trascinò letteralmente fuori dalla cucina ed entrambe si ritrovarono al centro della sala.
«Di là» le indicò stendendo il braccio e puntando il dito verso la zazzera color grano di Haruka.
 
«ECCOCI!» annunciò Minako mostrando tutta la dentatura in un sorriso quasi esagerato.
«Oh Ami, sei arrivata!» Yoshio si alzò per abbracciarla e scostarle la sedia.
«Ehm, si papà».
«Mi perdoni signor Kaiō, Ami ha fatto tardi per colpa mia» intervenne Minako facendo un cenno di saluto frettoloso alla coppia al tavolo.
«I turni sono allucinanti e non avevo ancora avuto modo di chiedere a sua figlia una spiegazione sul…».
«Neuroblastoma» sbiascicò Ami.
«Esatto! Io proprio non lo capisco e…vi lascio alla vostra cena!».
Ami si arpionò al braccio dell’amica.
«Resta…».
«Si, Minako. Rimani a farci compagnia» la invitò di buon grado Yoshio.
«Oh no, grazie. Cioè lo farei volentieri ma…devo andare di là! Ad aiutare il mio uomo e a…» parve doverci pensare su un attimo «studiare».
«Per il neurocoso?» domandò annoiata Haruka.
«Esattamente» rispose Minako prima di venire richiamata da Akira in cucina.
 
 
«Non è che lavori troppo Ami?» inquisì il padre.
«Sei molto intelligente credo potresti anche permetterti di rallentare o non avrai tempo per trovarti un bravo ragazzo».
Ami per poco non si ritrovò a sputare il boccone nel piatto e lo sguardo di Yoshio scivolò su Haruka come a sottolineare di non essere convinto a pieno che lei fosse un marito valido per Michiru.
«Papà…» Michiru si sporse verso la mano dell’uomo per poggiarci sopra il proprio palmo. «Non tediare così Ami, la imbarazzi lo sai. È molto riservata su certe faccende».
«Oh sì, signor Kaiō». Haruka infilzò del polipo marinato con le bacchette. «Non si preoccupi Ami ci sta già lavorando» aggiunse con un sorriso sornione.
Gli sguardi degli altri tre conversero su di lei.
«Intendo dire che frequenta un bravo ragazzo» masticò lentamente. «È un poliziotto anche lui».
Yoshio si drizzò tutto sulla sedia.
«Davvero Ami?».
«È solo un mio paziente papà. Credo che Haruka stia fantasticando».
Michiru non sapeva più da che parte prendere.
«In realtà penso che Haru volesse sottolineare quanto va fiera di essere entrata nelle forze dell’ordine».
Adesso l’attenzione del padre fu tutta per la figlia più grande.
«Si da molto da fare».
Ami emise uno sbuffo. Non riusciva ancora a controllarsi del tutto e aveva voglia di mettersi a cantare. Forse perché il pensiero solleticò nella sua testa l’immagine di Sadao.
«Mh» Yoshio squadrò Haruka e Michiru riconobbe quello sguardo. Suo padre stava per fare una domanda scomoda o forse una battutina per mettere in fallo la bionda. Perché lui era uno di quei padri che si era ritrovato a crescere da solo due figlie – di cui una nemmeno sua – e l’unico istinto che aveva era quello di proteggerle da tutto e da tutti fino alla fine.
Michiru avrebbe potuto presentargli persino un avvocato, un giudice o un valido politico, ma per quanto il suo partner potesse risultare una persona rispettabile agli occhi di tutti Yoshio non avrebbe ceduto in ogni caso facilmente le sue due bambine. I suoi tesori più grandi, ciò che davano realmente valore alla sua vita.
«E come l’hanno presa in dipartimento? Avere uno Yaku-».
Ami lo bloccò.
«Siamo qui per altro».
Michiru non seppe se ringraziare la sorella o mettersi a gridare.
Forse se Ami non fosse intervenuta lei non sarebbe riuscita a dire un bel niente anche in quell’occasione.
Forse era il suo carpe diem quello. Doveva cogliere l’attimo.
«E di cosa dovevate parlarmi?» domandò Yoshio lasciando cadere ogni malevolenza nei confronti di Haruka.
«Di noi. Di me e Haruka» la lingua di Michiru parve sbloccarsi all’improvviso.
«Non sono stata del tutto sincera con te papà e me ne dispiaccio».
«Devo preoccuparmi?» domandò l’uomo cercando di tenere un contegno.
Ami si chiese se al ristorante Akira avesse un defibrillatore portatile anche se non valutò l’ipotesi di non riuscire ad usarlo nel suo stato attuale.
«No papà, tranquillo».
«Sei malata?».
«No».
«Tenuō ti tradisce?».
«Per l’amore di Dio» soffiò Haruka con gli occhi al cielo.
«Michi penso dovresti tagliare corto» consigliò Ami.
Tagliente come la lama di un coltello valutò Haruka. Non era da Ami essere così diretta. Era sincera sì, ma aveva sempre avuto un gran tatto mentre quella sera era come se fosse priva d’inibizioni.
Ubriaca? Ma è ridicolo Haruka non è mica te!. La sua testa stava nuovamente ponderando congetture tanto che la bionda quasi dimenticò d’intervenire in qualche modo nella confessione della moglie.
Ma se lo avesse fatto – considerando l’astio che aveva Yoshio – nei suoi confronti avrebbe solo peggiorato le cose. Solo Michiru poteva dirlo nel modo giusto anche se a ben pensare forse un modo propriamente giusto o sbagliato non esisteva.
Anche Michiru aveva detto una bugia bianca a Yoshio o forse si trattava solo di omissione nel suo caso.
Qual è il vero confine?
«Papà è solo che…».
Cosa succede quando la verità prende il sopravvento su una bugia bianca?
«Haru è una donna».
La stretta più ferrea di Michiru attorno alle sue dita la ridestò dai pensieri.
Yoshio rimase impietrito e per un momento Haruka credette che l’intero locale stesse guardando solo loro e fosse rimasto con le posate a mezz’aria.
«Sono perdutamente innamorata di una donna papà».
 
Akira rimase con lo strofinaccio incastrato in un bicchiere a spiare da lontano la scena.
«Credi stia andando bene?» domandò a Minako.
«Non sta svenendo nessuno?».
«No».
«Nemmeno Ami?».
«Sembra a posto».
 
Yoshio dovette mettere insieme i pezzi.
Sua figlia era stata rapita. Il rapitore in questione era uno Yakuza. Lo Yakuza aveva sposato sua figlia e non era un uomo. E il fatto che il malvivente rendeva felice la gioia dei suoi occhi e non era più un poco di buono, ma una forza dell’ordine, passò in secondo piano. Il punto focale era che la sua Michiru, la figlia perfetta che aveva spiccato il volo, adesso non lo era più così tanto.
Come sua madre. Constatò per un momento anche se non avrebbe dovuto. Bugiarda come sua madre.
Eppure non l’aveva cresciuta così e lui sapeva bene nel profondo che Michiru non era come la donna che lo aveva abbandonato.
Dunque è colpa sua. Era lo Yakuza ad averla messa sulla cattiva strada.
«Papà dì qualcosa…» il tono di Michiru era una supplica ma in risposta solo silenzio.
«Signor Kaiō».
«Zitta tu». Non era mai stato un uomo maleducato, né aveva mai mostrato particolare autorità ma in quel momento era diverso. Forse perché non riconosceva più nessuno a quel tavolo.
Il blu delle iridi di Michiru si fece liquido e ad Haruka non sfuggì quel particolare.
Ami ruppe il silenzio con un sonoro sospiro.
«Quanto la fai lunga…» tutti gli sguardi si posarono su di lei.
«Michiru non vuole fare come la mamma. Ti sta dicendo le cose a cuore aperto per non farti del male come ti ha fatto lei e questo è il ringraziamento?».
Il viso di Yoshio assunse i tratti di una persona sconvolta.
Ami incrociò le braccia e scivolò un po’ di più sulla sedia. Sentiva un caldo infernale e voleva solo andarsene. Forse non era stata un’ottima idea bersi persino qualche bicchierino di sakè mentre tutti tentavano di tenere banco al tavolo.
«Ami ma…».
«Non ci sono ma. È così e basta. Nessun “ma” nessun “se” è come un dogma» blaterò.
«Un che?» domandò Haruka.
«Una verità assoluta. Una condizione che si prende per vera e che non si discute» precisò la più giovane.
«O almeno il diritto di chiedere perché?» Yoshio parve essersi placato.
«Si può con un dogma?» domandò seria la bionda guardando Ami.
«Perché ora?».
«Preferivi rimanerne all’oscuro?» tergiversò Michiru.
E in quel momento Haruka intuì che anche Michiru aveva qualcosa da nascondere.
Ami si alzò, poggiando le mani sul tavolo. Si accorse di essere stufa di tutti quei drammi e per la prima volta prese realmente consapevolezza di quel che voleva lei. Non le andava di essere lì. Non le andava di diventare un bersaglio e forse nella sua vita non lo sarebbe mai stato poiché era sempre in grado di far la cosa giusta, quella migliore. Ed era tremendamente noioso non sbagliare mai.
Decise di buttarsi e forse l’indomani se ne sarebbe pentita. In tal caso avrebbe provato per la prima volta il rimorso di un errore madornale.
«Vuole una famiglia».
Haruka batté le palpebre.
Michiru si rese conto di non saper gestire per la prima volta in vita sua una situazione del genere.
Yoshio stufo di dover chiedere spiegazioni invitò Ami a dire una volta per tutte la verità.
«Te lo sta dicendo adesso perché Michiru vuole una famiglia a tutti gli effetti. Vuole ne faccia parte anche tu. Ecco perché dovevi saperlo. Vuole diventare madre e che tu faccia il nonno».
Haruka e Yoshio spalancarono le labbra in sincrono per lo stupore.
Haruka non sapeva come catalogare quella bugia. Forse era pessima quanto Akira in quello.
Bugia bianca o meno?
Si accorse solamente di una cosa. Di qualunque categoria fosse quella bugia l’avrebbe fatta arrabbiare.



Note dell'autrice:
Scusate. MA HO ADORATO scrivere di Ami ubriaca e Minako che le fa da balia strampalata. E' a causa loro che tutta la vicenda si è dilungata fino a farmi scrivere quattordici pagine anzichè le sette che avevo progettato. Ma come ho detto sulla mia pagina quando i personaggi fanno tutto da soli non sarò certo io a fermarli.
I cattivi alle volte non bastano. E' colpa loro lo scompiglio. Colpa di Michiru che ha omesso con il papà il dettaglio riguardante la sua donna e di non essere riuscita a dire ad Haruka di Hotaru. Colpa di Ami che da ubriaca parla un pò troppo e chi più ne ha più ne metta. Penso però vi arrabbierete di più nel prossimo capitolo quindi macumbe nei miei confronti né ora né prossimamente, please.

Il Japanese Ice Tea è fatto con 
Vodka, Gin, il Rum bianco, il Midori e lo Sweet&Sour. Non so se ci si possa ubriacare con solo un bel bicchierone di quello ma Ami la vedo proprio come la più astemia del mondo. Per sicurezza le ho fatto sbevazzare pure del saké così non ci sbagliamo, ahahah!
Bene, smetto di blaterare e mi auguro non vi siate annoiate. Aspetto con ansia le vostre opinioni.
Alla prossima.
Kat
   
 
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