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Autore: Lady1990    07/08/2017    3 recensioni
[Questa storia è il seguito di "Nell", di cui si consiglia la lettura per un'adeguata comprensione.]
Sono trascorsi poco più di vent'anni dalla scomparsa di Ysril. Nell, dopo aver atteso invano il suo ritorno, ha lasciato la valle di Mesil e si è messo sulle sue tracce. In compagnia di Reeven, un improbabile ladro che somiglia in modo inquietante al suo amato demone, e altri compagni, dovrà scoprire cosa è successo a Ysril e salvarlo da una minaccia ancor più grande della guerra che incombe sul mondo intero. E se una strega arriva a complicare le cose, la missione non si profila certo una passeggiata.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un soldato fece irruzione nella sala del trono, trafelato e con la fronte imperlata di sudore. Nessuno lo fermò, né dignitari né guardie, poiché tutti sciamavano per i corridoi in preda all’isteria, correndo in qua e là come api impazzite.
“Sire, nemici in vista! I vessilli sono quelli di Ferenthyr! Le sentinelle dicono che l’esercito è composto da circa tremila uomini!”
Proprio in quell’istante, il boato di un corno invase l’aria, risuonando per tutta la città, e il gong delle campane di Dun’har rispose nell’immediato alla dichiarazione di guerra.
“E il comandante Dorevan è scomparso, sire. Non c’è traccia di lui da nessuna parte.” aggiunse il soldato, gli occhi sbarrati dall’angoscia e il viso di un pallore cadaverico, “Maestà, cosa facciamo? Non ci sono abbastanza soldati per respingerli, le guarnigioni sono ancora ad Ashra, non ce la faranno a rientrare in tempo.”
Sylas si accarezzò il pizzetto, assorto nei suoi pensieri. Pochi secondi dopo si alzò dal trono, attraversò la sala e accompagnò il soldato su un terrazzo per osservare il panorama e valutare il da farsi. In effetti, all’orizzonte un esercito stava marciando verso Dun’har al tempo del ritmo scandito dai tamburi di guerra, vessilli levati sopra gli elmi e armature scintillanti baciate dal sole. Sembravano usciti da un affresco.
“Le mura sono impenetrabili, non riusciranno a passare se bloccate tutte le uscite. Preparatevi all’assedio. Voglio gli arcieri schierati sul parapetto, le catapulte in posizione e pentole di olio bollente ogni dieci braccia. Sbrigatevi.”
“E i cittadini, sire?”
“Reclutate quelli che possono combattere, il resto radunatelo nei vari templi. Si ripareranno nei seminterrati. Date loro le scorte di cibo e acqua necessarie per resistere una settimana.”
“Una settimana sola?” chiese incredulo il soldato.
“Credimi quando ti dico che tutto finirà entro sette giorni. Ora va’ e riferisci i miei ordini.”
“Sì, sire.”
Il soldato si precipitò ad eseguire, lasciando il sovrano alle sue incombenze. 
Andorev si aggiustò la veste reale sulle spalle, sentendosi impagliato come un animale. L’aspetto di Sylas non gli donava affatto, più volte aveva storto la bocca in una smorfia quando si era guardato allo specchio quella mattina, ma era necessario per il piano. Il cadavere del re era stato preventivamente bruciato e ridotto in cenere, onde evitare sospetti, e Andorev aveva preso il suo posto con riluttanza, recitando la sua parte come la Sylmaran gli aveva suggerito il giorno addietro.
Se ripensava a quella donna, se “donna” si poteva chiamare, gli venivano i brividi.

“Lascia che ti riveli un segreto, Andorev. Gli eventi del presente”, spiegò solenne, le labbra grinzose curvate in un ghigno inquietante e il bastone ben dritto innanzi a lei, “sono stati elaborati e predetti millenni or sono, già da prima della nascita dei regni degli uomini che abbiamo imparato a conoscere. Tutto ciò che è stato fatto, tutte le decisioni prese, dovevano condurre a questo momento. C’è una parte del piano che non di cui non sei al corrente e che non ti dirò, non serve che tu lo sappia. Tuttavia, per farla divenire realtà, ho bisogno dell’Occhio di Xion tra le tue mani. Consegnamelo.”
“Perché dovrei consegnarti il mezzo per conseguire il mio piano?”
“I nostri intenti sono simili, Andorev.”
“Vuoi mettere anche tu in ginocchio l’umanità?” domandò sarcastico lo stregone, rifiutando di separarsi dalla gemma così presto dopo aver atteso secoli per ritrovarla.
“Sì. Gli uomini sono diventati troppo arroganti e superbi, devastano la terra senza alcuno scopo se non quello di appagare la loro avidità. Sono corrotti, una piaga che deve essere estirpata.”
“Allora perché non lasci che me ne occupi io? Aspetto questo giorno da anni.”
“Lo so, ma non è compito tuo: spetta a Xion. È stato plasmato proprio per questo, per ripulire la terra dalle erbacce e riportare l’antica armonia. Consegnami il suo occhio, così che possa restituirglielo. Solo allora Xion si desterà dal suo sonno. Ha bisogno del suo occhio.”
“Questo è solo uno. La leggenda afferma che deve averli entrambi.”
“Il secondo è già in nostro possesso. Lo è sempre stato.”
“Sylmaran, mi credi stupido? Col tuo potere e la tua saggezza avresti potuto appropriarti di questo Occhio anni fa. Perché farti avanti adesso?”
“I tempi sono maturi e l’Occhio ha finito di piantare i suoi semi, si è caricato a sufficienza. Grazie a te, devo ammettere. Senza di te, tutto questo non sarebbe stato possibile.”
“Capisco, ma perché chiedermelo con gentilezza? Potresti strapparmelo dalle mani prima del mio prossimo respiro.”
“Un gesto di gratitudine, nulla di più. Sei stato importante e lo sei ancora.”
Andorev si prese qualche minuto per riflettere, ma non gli occorse molto per confessare a se stesso che non avrebbe collaborato, a meno che la Sylmaran non lo avesse reso partecipe dei suoi piani.
“Se vuoi tanto disperatamente conoscere le trame ordite dalla mia stirpe e dai miei parenti, dovrai promettermi di seguire i miei ordini senza obiettare.” disse la vecchia, come se gli avesse letto nel pensiero.
Lo stregone soppesò le possibilità, i pro e i contro, e alla fine accettò.
La Sylmaran gli sorrise. Agitò una mano nell’aria, componendo simboli che Andorev non colse, e in un attimo l’uomo venne avvolto da una fitta nebbia. Prima che cedesse al panico, però, nella nebbia cominciarono ad apparire delle figure. Osservò con attenzione, concentrandosi per distinguere i contorni di quelle forme in movimento, e presto realizzò di stare assistendo al futuro: la Sylmaran gli stava concedendo l’onore di un piccolo scorcio su ciò che sarebbe presto avvenuto, quel tanto che bastava a convincerlo ad abbandonare le riserve. Bevve le visioni come un assetato, memorizzandole, mentre l’eccitazione lo pervadeva come un fiume in piena, riempiendo la sua mente folle di un’esaltazione indescrivibile. 
Non appena tutto tornò alla normalità, respirò profondamente ad occhi chiusi e, senza esitare, lanciò l’Occhio alla strega, che lo afferrò con un movimento fluido. 
“Sono felice che ci siamo trovati. Adesso va’, sai cosa devi fare.” gracchiò la Sylmaran.
Andorev si profuse in un inchino sincero, a corto di parole. Quando si risollevò, la vecchia era sparita. 


Lo stregone fissò con espressione indecifrabile l’esercito schierato di fronte alla città e un ghigno impercettibile si dipinse sulle sue labbra. Era quasi il momento. Fremeva impaziente, tanto che, se avesse potuto, sarebbe saltato fuori dalla propria pelle.
Un altro corno risuonò nell’aria e l’esercito di Ferenthyr caricò. Gli arcieri di Dun’har incoccarono seguendo gli ordini gridati da un generale, attesero che i nemici fossero a portata di dardo e scoccarono. Un nugolo di frecce piovve sui soldati avversari, falciandone parecchi e abbattendo completamente la prima linea. 
E così ebbe inizio.

Nell riemerse da un sonno senza sogni con un grugnito. In principio non percepì nulla, quasi stesse ancora galleggiando nel vuoto, la testa leggera come una piuma. Rotolò d’istinto sulla schiena, anche se non aveva modo di verificare il movimento dato che non sentiva alcun attrito, come succede quando si tocca un arto addormentato. Sbuffò frustrato. 
All’improvviso tutti i muscoli e le ossa del suo corpo protestarono, una scarica elettrica che si ripercosse lungo la spina dorsale mozzandogli il fiato. A fatica tentò di ignorare le grida di allarme che esplosero nella sua coscienza, non era il momento di abbandonarsi al panico. Innanzitutto, doveva capire cosa era successo e dove era. L’ultima cosa che ricordava era il dolore lancinante al petto e un panorama di rocce.
Tese le orecchie, ma un ronzio assordante gli impediva di captare suoni e rumori. Avvertiva qualcosa, una sensazione vaga, come se qualcuno stesse tirando per un filo la sua anima in una precisa direzione. Era fastidioso. Il suo cervello non stava rendendo le cose facili, rifiutandosi di cooperare e svegliarsi dalla catatonia in cui era piombato. 
Alla fine i pensieri si schiarirono e i suoi sensi si riattivarono, seppur con snervante lentezza. Quanto tempo era trascorso dal suo svenimento? Dove erano i demoni? Perché era così debole? Cosa era stato quel dolore che lo aveva messo al tappeto? 
Troppe domande e nessuna risposta. Si impose la calma e aspettò paziente di riacquistare il controllo sul proprio corpo, prima di fare alcunché. 
Pian piano riprese sensibilità alle dita. Tastò intorno a sé e si accorse di essere disteso su un pavimento di pietra. Tracciò con i polpastrelli il contorno delle mattonelle ruvide e si corrucciò, confuso. Una corrente fredda gli accarezzò la pelle e l’accolse con sollievo, benché non fosse esattamente piacevole. Però almeno ora sentiva.
Subito dopo tornò l’olfatto. Annusò l’aria. Gli occhi gli lacrimarono all’istante a causa del tanfo nauseabondo che lo circondava, come se ci fossero dei cadaveri imputriditi a poca distanza.
Un sapore ferroso e amaro gli esplose in gola, sangue misto a bile. Deglutì e represse un conato, grato di avere lo stomaco vuoto.
Aprì le palpebre e dopo un po’ mise a fuoco il soffitto della cella in cui era rinchiuso, assieme alle carcasse di piccoli animali lasciati a marcire negli angoli bui, una distesa di ossicini e carne marcia a imbrattare il pavimento. In seguito, fece vagare lo sguardo fuori, oltre le sbarre fatte di un materiale chiaro, quasi bianco. Una vocina nella sua testa gli suggerì che erano ossa, ma scansò immediatamente il pensiero per tenere sotto controllo il battito del cuore, già di per sé accelerato. Scorse altre celle, identiche alla sua, disposte in file ordinate una sopra l’altra. Lui si trovava alla base di quella che sembrava una voragine scavata nella terra, e non c’erano scale che conducevano all’uscita. Chiunque lo avesse portato lì, doveva essere in grado di volare, altrimenti sarebbe stato impossibile accedere a quelle strane prigioni.
Stranamente, il ronzio nelle orecchie non accennò a diminuire. L’udito era l’unico senso che mancava all’appello e non pareva intenzionato a collaborare. Nell si sforzò di scacciare il ronzio, regolarizzò il respiro e si armò di pazienza, invano.
Senza nient’altro da fare, tornò a studiare l’ambiente. Era immerso nella penombra, la sola fonte di luce si trovava da qualche parte all’imboccatura della voragine, lontana dalla vista. Si mise a sedere lentamente, badando a non scaricare troppo peso sulle braccia intorpidite. In un secondo momento, si avvide di non avere più la borsa e imprecò fra i denti.
Strisciò verso le sbarre e una volta vicino si stupì nel notare gli intricati simboli incisi sulla superficie levigata. Non ebbe dubbi: rune magiche. Non che sapesse decifrarle. Poi aggrottò le sopracciglia perplesso, perché i demoni non usavano la magia. Sì, erano capaci di trucchetti e sapevano maneggiare pozioni, ma incidere rune magiche sulle sbarre di una cella imbevendole di potere? Impossibile. 
Nell allungò una mano e sfiorò un paio di rune, pentendosene il secondo successivo. Una fitta lancinante lo trafisse con violenza, facendolo piegare in due dal dolore e boccheggiare per l’improvvisa carenza di ossigeno. Non appena si riprese, si allontanò rapido portandosi a distanza di sicurezza. 
La consapevolezza di essere in trappola risvegliò il terrore che aveva tenuto a bada sino ad allora, e prima che se ne accorgesse iniziò ad iperventilare. Il ronzio nelle orecchie persisteva e acuì il senso di smarrimento e impotenza che lo aveva assalito, stritolandolo in una morsa gelida e ferrea. Le lacrime non tardarono a fare la loro comparsa, vincendo la barriera delle ciglia e rotolando sulle guance pallide e scavate del ragazzo fino al mento.
Era stato tradito. I demoni lo avevano ingannato. Anzi, lui si era lasciato ingannare come un idiota. Era solo colpa sua. Perché non imparava mai? Tutte le esperienze che aveva vissuto avrebbero dovuto insegnargli qualcosa, alimentare un istinto di conservazione che gli avrebbe risparmiato spiacevoli incidenti. Invece, smanioso com’era di ritrovare Ysril, era stato cieco e si era fidato delle creature sbagliate. Perché si era fidato? I demoni erano malvagi ed egoisti, non conoscevano la gratitudine. Cosa diamine gli era saltato in mente? Perché doveva sempre ricadere in comportamenti ingenui?
Ricordava bene cosa era successo quando aveva detto addio alla valle di Mesil, carico solo di una borsa con qualche provvista, il suo medaglione e una mappa del territorio circostante acquistata al mercato, e neanche molto precisa. Niente armi. E questo era stato il suo primo errore.
Dopo appena una settimana di marcia, si era imbattuto in un piccolo gruppo di predoni. Avevano razziato il suo cibo, bruciato la sua mappa e tentato di stuprarlo, lodando il suo fisico alla stregua di una meraviglia divina. Era stata la prima occasione in cui aveva veramente realizzato il pericolo derivante dal suo aspetto. Non era mai stato vanitoso e, anche se Ysril, come altri, lo aveva sempre riempito di complimenti, non si era mai comportato in modo civettuolo, la propria bellezza l’ultimo dei suoi pensieri. Mai aveva temuto per se stesso, perennemente protetto e sorvegliato da persone amiche. In quella circostanza ebbe prova di quanto avrebbe rischiato da lì in avanti a causa del suo “bel faccino”. Se non fosse morto prima.
La paura lo aveva travolto, come si aspettava, ma invece di paralizzarlo gli aveva dato la spinta per ribellarsi. Aveva spento il cervello per lottare a mani nude, aveva menato pugni e calci, graffiato facce e strappato capelli. Per ogni colpo andato a segno, ne aveva ricevuti indietro tre, ma non si era arreso, conscio che in ballo c’era la sua vita. Un predone, stufo e arrabbiato, lo aveva quindi pugnalato alle spalle, conficcandogli un coltellino poco sopra un rene. La sofferenza, tuttavia, gli aveva elargito ulteriore forza. In men che non si dica si era liberato, girato, appropriato del coltellino sfruttando la sorpresa del predone e gli aveva tagliato la gola con un gesto fluido e naturale, come se il suo corpo conoscesse le mosse esatte da compiere nonostante non avesse mai combattuto o ucciso nessuno. Non aveva sentito il sangue schizzargli copioso sul viso, avvertiva soltanto l’adrenalina serpeggiargli nelle vene divampando feroce come un incendio. Infine era scappato senza guardarsi indietro, i vestiti lerci che indossava, il medaglione e il coltellino i suoi soli beni. 
Quello era stato il suo battesimo.
La ferita si era rimarginata da sé in pochi giorni, lasciando solo una cicatrice. Non si era chiesto come fosse possibile, non era presente a se stesso allora, come se fosse stato catapultato di botto in uno stato febbrile, frenetico. Da quel giorno aveva vagato per mesi privo di meta, sprovvisto di mappa e senso dell’orientamento, e sfortunatamente non c’era mai alcun villaggio in vista, solo boschi e praterie a non finire. 
In quel periodo, per forza di cose, entrò in contatto con l’istinto animale, imparando a cacciare come una bestia selvatica per sopravvivere. Divorava le sue prede crude, strappando la carne dalle ossa con i denti, incurante del fluido scarlatto che gli colava sul viso, sulle mani e sui vestiti, regredito a uno stadio ferale in cui non c’era spazio per la razionalità o per preoccuparsi dell’igiene. Aveva seguitato così per molto tempo, finché un giorno, quasi si fosse destato da un lungo sonno, la sua coscienza era riemersa mentre si lavava in un torrente. Al ricordo dell’esistenza che aveva condotto, aveva provato disgusto per se stesso e aveva ponderato seriamente se tornare indietro, nella valle, dove sarebbe stato al sicuro, protetto. Per poi rammentare che no, la valle era il posto meno sicuro adesso. Se n’era andato per un motivo, ossia per fuggire dalle occhiate sospettose degli abitanti, che non lo vedevano invecchiare come tutti gli altri. Se si fosse fatto rivedere, avrebbe messo in pericolo Melly e la sua famiglia.
Era bloccato in un limbo, solo e disorientato. Passarono settimane prima che si decidesse a smettere di comportarsi da stupido e riprendere le redini della sua vita. E allora, senza saperlo, si era diretto a sud. 
Durante il viaggio, per la prima volta aveva ringraziato i doni di Ysril. La fame si faceva sentire sporadicamente, il sonno ancora meno, come se una fiamma si fosse accesa dentro di lui nel momento in cui aveva sgozzato il predone, macchiandosi del sangue della sua prima vittima, sancendo una rinascita. Una fiamma che lo teneva in vita senza bisogno di alimentarla di continuo, forte e vivace, selvaggia. Grazie a quella rinnovata energia, aveva potuto evitare di accamparsi all’aperto e cadere vittima dei predatori nascosti nella vegetazione, spronandolo a muoversi, a proseguire, non importava dove. 
Ma qualcosa si era rotto irrimediabilmente. Il delitto compiuto, benché per legittima difesa, aveva indurito il suo cuore. Nonostante fosse trascorso appena un anno dalla sua partenza, qualcosa di importante in lui era cambiato per sempre. Non era più il ragazzo che aveva lasciato la valle, né il ragazzo che aveva sposato Ysril, né il ragazzo che era stato padre e zio e fratello.
Aveva sperimentato com’era perdere la propria umanità, cedere al lato primitivo, una belva guidata dallo stomaco e dai bisogni primari, priva di scopo e ragione, e non gli era piaciuto. Eppure, al contempo lo aveva reso più forte, aiutandolo a disfarsi degli ultimi strascichi di fanciullezza che si trascinava dietro, reliquie di una vita che non gli apparteneva più. 
Sua sorella lo aveva viziato, abituato a tre pasti al giorno, un letto morbido, una casa calda, costante compagnia e affetto. E prima di lei Ysril lo aveva affogato nella bambagia, facendogli dimenticare come prendersi cura di se stesso. In passato c’era stato sempre qualcuno ad esaudire i suoi capricci, a ottemperare ai suoi bisogni, a coccolarlo senza che lui dovesse alzare un dito. Solo ora capiva quanto era stato sbagliato. Doveva recuperare e acquisire in fretta le nozioni basilari per sopravvivere in un mondo che non era né affettuoso né caldo né accogliente. Un mondo da cui sua sorella e Ysril lo avevano schermato, convinti di fare il suo bene. Un mondo che la valle teneva lontano da generazioni, un mondo crudele e spietato, incapace di clemenza, dove il più forte mangia il più debole.
Alcune settimane più tardi si era imbattuto in una capanna abitata da una coppia di pastori, che gli avevano fornito riparo e vestiti puliti. Con loro si era accostato di nuovo alla civiltà e, quando si era sentito pronto, li aveva salutati seguendo le indicazioni verso il villaggio più vicino. Doveva guadagnare abbastanza soldi da potersi permettere un altro cambio di abiti e una mappa, perciò si era fatto assumere da un contadino, che lo aveva messo ad arare i campi e a mungere le vacche. Dopo sei mesi, era ripartito con una borsa, il cambio che voleva e una mappa più dettagliata di quella con cui aveva lasciato la valle.
Tuttavia, l’ingenuità che credeva perduta era riapparsa a sua insaputa, nutrita dalle persone con cui aveva fatto amicizia al villaggio, che lo avevano sempre trattato con rispetto e gentilezza. Ne aveva pagato il prezzo il mese successivo.
Si era imbattuto in due carri lungo il sentiero verso sud. Pensava fosse una famiglia di fattori, guidata da una coppia di anziani con al seguito figli e nipoti. Aveva risposto con sincerità alle loro domande, su chi fosse e dove fosse diretto, ingannato dal loro atteggiamento aperto, la generosità e i sorrisi. Aveva persino giocato con i bambini. Ma appena aveva abbassato la guardia, lo avevano fatto prigioniero e spogliato dei suoi pochi averi, eccetto il medaglione, nascosto sotto i vestiti. Presto aveva compreso che quella era sì una famiglia, ma erano tutti mercanti di schiavi. I bambini stavano imparando il mestiere dai genitori. 
Era stato condotto al sud, come voleva, e nella città di Dora, al confine, era stato venduto come schiavo a un altro mercante, che a sua volta lo aveva venduto a un nobile, il quale lo aveva sbattuto in un bordello di sua proprietà per essere iniziato alla prostituzione.
In una manciata di ore, Nell era passato dallo scherzare in compagnia di bambini all’essere trattato come un oggetto, con la prospettiva di essere trasformato in una cosa che gli faceva rivoltare le viscere, e sempre a causa del suo dannato aspetto. Così, spaventato a morte, si era rintanato in se stesso e aveva concesso al suo lato animalesco di venire a galla e agire in sua vece, tagliando fuori scrupoli morali e compassione. 
La notte del suo arrivo al bordello, aveva atteso fino alla fine del bagno a cui lo avevano costretto, e solo perché non poteva sprecare l’occasione di sguazzare in oli profumati, rammentando distrattamente i bei tempi a Rocca Smeralda. Dopodiché, era uscito dalla vasca, si era fermato alle spalle della puttana incaricata di sorvegliarlo, nel frattempo occupata a preparargli i suoi nuovi vestiti, e le aveva spezzato il collo di netto, senza indugio, gli occhi freddi e indifferenti. Quindi si era coperto con la tunica poggiata sopra il mobile, aveva indossato il suo medaglione e imboccato un corridoio a caso. 
I minuti seguenti si mescolavano in un vortice confuso. Aveva ammazzato chiunque incontrasse, donne, bambine e anche qualche cliente, indiscriminatamente, e non sapeva come arrestare il processo e risalire in superficie, verso la luce. Presto aveva compreso che non voleva arrestare il processo, era troppo inebriante tutto quel potere. Aveva dovuto lottare con alcuni, ma la colluttazione era stata breve, i suoi movimenti veloci e precisi, sempre più mirati e fatali dopo ciascuna vittima. 
Si era fatto strada all’esterno del bordello, mentre urla di allarme riecheggiavano nell’edificio e le guardie cittadine accorrevano, per poi confondersi tra la folla di curiosi e sgattaiolare via. Si era introdotto in una casa, aveva rubato abiti puliti e un mantello e all’alba era già a un miglio da Dora, ignaro di come fosse riuscito a eludere la sorveglianza alle mura. Ma, tutto sommato, non gli importava. Aveva raggiunto uno stato dell’essere a metà tra l’apatia e il dormiveglia, non era esattamente cosciente di ciò che faceva, con chi parlava o dove andava. Un po’ come un sonnambulo.
Nei mesi a venire aveva gironzolato qua e là, restando alla larga dalle grandi città, finché il desiderio di ritrovare Ysril non era tornato prepotente a farsi sentire, complice un sogno, che era più una reminescenza, di una delle loro notti di sesso sfrenato. Avvertiva l’assenza del demone sulla pelle come un doloroso formicolio e non riusciva più a darsi pace.
Allora aveva iniziato la sua ricerca, riesumando la vecchia determinazione. Ma la morsa gelida e calcolatrice che gli avvolgeva il cuore come una prigione di spine non se ne andò mai più. Provava ancora emozioni, però non erano nemmeno lontanamente forti come un tempo. Gli sembrava di starsene seduto in riva a un lago, lo sguardo puntato sulle acque dove una miriade di pesci colorati nuotavano frenetici, pur rimanendo sul fondale. Talvolta qualche pesce risaliva in superficie attirando la sua attenzione, ma gli bastava distoglierla perché il pesce sparisse di nuovo nel fondale. I pesci erano le sue emozioni, e ignorarle si rivelava di giorno in giorno sempre più facile, orribilmente facile. E questo si era rivelato utile nelle sue peregrinazioni. Non si era più fidato di nessuno, semmai aveva finto di farlo quando necessario, e sebbene finisse comunque coinvolto in qualche guaio, almeno era sempre pronto a reagire.
Ashra, Dun’har, Lureval, Karkossa. Di città in villaggio, biblioteca dopo biblioteca, osteria dopo osteria, mercato dopo mercato, origliando conversazioni, perpetrando omicidi a sangue freddo, sfruttando la sua bellezza per ottenere favori, scampando per un pelo a stupri e rapine, compiendo furti e dandosi spesso alla fuga, pian piano aveva seguito le briciole di pane finché non aveva trovato ciò che voleva a Ferenthyr, ovvero la certezza inoppugnabile dell’esistenza di Lankara e la mappa che lo avrebbe condotto là dove sperava fosse Ysril. 
Di frequente si era domandato come mai il suo sposo non fosse venuto a cercarlo in tutti quegli anni, che cosa glielo aveva impedito, ma aveva preferito respingere in un angolo remoto delle mente quei pensieri per non precipitare nell’abisso di disperazione che minacciava di fagocitarlo se non stava all’erta.
Infine aveva conosciuto Reeven, si era aperto e affezionato e tutto era andato nuovamente in malora. Tipico.
Sospirò, portò le ginocchia al petto e nascose la faccia tra di esse, in un blando tentativo di erigere una barriera tra sé e la realtà. Non sapeva in che posto fosse finito, né quali fossero i piani di coloro che lo avevano catturato. Non poteva scappare, sulle sbarre non c’era una serratura da scassinare - e questo dettaglio lasciò aperta la domanda su come cavolo era entrato lì dentro - e anche se fosse accaduto un miracolo e fosse riuscito a liberarsi, non avrebbe saputo dove andare o come scalare le prigioni. Sembravano deserte, ma forse le sentinelle si erano camuffate per ingannarlo, per fargli credere di essere solo e osservarlo arrovellarsi fino a perdere il senno. D'accordo, stava rasentando la paranoia, ma non poteva biasimarsi.
E quel maledetto ronzio nelle orecchie lo stava facendo ammattire!
Gli ci volle parecchio prima di realizzare che il ronzio non era un ronzio. Erano parole, sussurri e guaiti impregnati di dolore, talmente flebili che era impossibile coglierne il significato. 
Raddrizzò di scatto la schiena, rigido e vigile, e scandagliò con gli occhi le celle per individuarne l’origine. Dopo un po’, lo sguardo gli cadde sul pavimento, nell’esatto centro della voragine, dove poteva scorgere un buco tappato da una grata dello stesso materiale delle sbarre della sua cella. Si avvicinò gattonando, cauto, le orecchie tese e la fronte corrugata per la concentrazione.
Non seppe quanto passò, ma a un tratto il ronzio si frammentò, divenendo più chiaro. Il suo cervello divise e catalogò le parole, per la prima volta consapevole che quel linguaggio non era umano, sebbene suonasse familiare: rak’shra.
“Nell!”
Un gemito strozzato rotolò fuori dalle labbra del ragazzo, il corpo scosso da un tremito incontrollato. 
Questa voce…
“Nell…”
Stava sognando. Doveva trattarsi di un sogno, non c’era altra spiegazione. O forse era un’illusione creata dalla sua mente per difendersi dalla follia incombente.
“Ti sento, sento il tuo odore… sei qui… parlami, parlami! Nell… Nell!”
Parole simili sgorgavano in un flusso costante privo di pause dal buco nel pavimento e Nell era ancora troppo scioccato per articolare qualcosa che non fosse un singulto o un rantolo incredulo. Gli occhi si riempirono di lacrime, stavolta di sollievo e un’altra sensazione molto simile alla gioia più pura, mentre le sue membra non cessavano di tremare e il cuore di martellargli nel petto, forte come un tamburo. Poi, giunto al limite e incapace di resistere oltre al richiamo della sua anima, pronunciò finalmente il nome che gli premeva sulla lingua.
“Ysril!”
“Nell! Sono qui, sei qui… parlami!”
Il ragazzo lottò contro i singhiozzi e si accostò di più alle sbarre, senza però osare toccarle: “Ysril, stai bene? Perché sei lì? Che posto è questo?”
“Ah, la tua voce… mi è mancata la tua voce…”
“Ysril, dove siamo?”
“Sei con me, sei con me, shhh. Tranquillo, non piangere, sono qui, siamo insieme. Ah, il mio klheis, il mio dolce amore… cosa darei per vederti, abbracciarti, baciarti… il mio amore, il mio prezioso sole, il mio klheis…”
Nell ascoltò con crescente inquietudine i mormorii persi di Ysril e comprese che il suo demone non era in sé. C’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui parlava, le sillabe confuse, strascicate, stanche, con una vaga nota di pazzia. Ripeteva sempre le stesse cose, in ordine diverso, ancora e ancora. Nell ebbe un brutto presentimento.
“Ysril, ascoltami, ti prego! Devi dirmi come fare a uscire. Sono chiuso in una cella. Aiutami. Se mi libero, potrò aiutare anche te. Sono qui per te. Ti ho cercato a lungo, klhan, non voglio perderti di nuovo. Aiutami!”
“La tua voce è qualcosa di sublime, la amo così tanto, amo tutto di te. Sei il mio sole, la mia fulgida gemma, il mio unico amore. Il mio dolce umano, gustoso, buonissimo, bellissimo, tutto mio…”
“Ysril, dannazione, concentrati!” sbottò frustrato, a corto di idee.
Mentre il demone continuava a vomitare elogi e vezzeggiativi, Nell si risolse a ispezionare meglio la sua cella. Non c’erano finestre e le pietre parevano irremovibili, incollate le une alle altre. All’apparenza non vi erano punti deboli, nemmeno un minuscolo spiraglio. Esaminò le sbarre, appurò che non ci fossero davvero serrature e si dedicò a studiare le rune, mentre i balbettii sconclusionati di Ysril facevano da sottofondo. Una parte del ragazzo li apprezzava, perché contribuivano a calmarlo, la voce del suo sposo un balsamo che lo spronava a restare lucido, ma l’altra non poteva esimersi dal disperarsi, chiedendosi cosa mai avesse subito Ysril per ridursi in quello stato.
Stava analizzando le rune della terza sbarra, dopo che le prime due si erano rivelate inutili, quando captò i discorsi del demone, adesso virati verso promesse sconce, descrivendo cosa gli avrebbe fatto non appena lo avesse avuto tra le braccia. Nell arrossì violentemente, levò gli occhi al cielo e sbuffò, fallendo però nel mascherare l’affetto che si diffuse nel suo cuore.
Per distrarlo, cominciò a fargli domande semplici.
“Ysril, sei ferito?”
“Eh? Oh, sì. Tanto dolore…”
“Dove senti dolore?”
“Dappertutto.”
“Sei intero?”
“Sì.”
“Sei legato?”
“Sì.”
“Riesci a muoverti un pochino?”
“No.”
“Hai mangiato?”
“No.”
“Hai sete?” 
“Sì.”
“Puoi descrivermi cosa vedi da là sotto?”
“Niente.”
“Nemmeno oltre la grata?”
“No.”
“Hai gli occhi aperti?”
“No.”
“Perché non li apri?”
“Li hanno chiusi.”
“Come?”
“Con un filo.”
“Ti fa male?”
“Sì.”
Nel frattempo, Nell era arrivato alla quinta sbarra. Ne mancavano ancora tre.
“Ripetimi cosa vuoi farmi, tutte le tue fantasie.” lo esortò, augurandosi di tenerlo così ancorato alla realtà finché non avesse trovato un modo per fuggire.
Le ore seguenti trascorsero lente, riempite da monologhi e commenti di Ysril che elogiavano ogni singolo centimetro del corpo di Nell, quasi stesse componendo un’ode. 
Il giovane, sordo a tutto il resto, mise in moto il cervello e a un certo punto individuò uno schema nelle rune. Notò che alcune si ripetevano, talvolta con varianti, mentre altre comparivano una volta soltanto e in precise posizioni, costituendo un diagramma perfetto. Così perfetto che non trovò alcuna falla.
Ignorò Ysril, che era occupato a sciorinare un’infinita serie di fantasie sessuali, e rifletté, guardandosi intorno distrattamente, il labbro inferiore intrappolato fra i denti. Stava per gettare la spugna, quando un’idea gli fece guizzare le iridi azzurre. Accennò a metterla in pratica, aggrappandosi testardamente all’adrenalina, ma fu interrotto. 
Mentre era girato, con le spalle alle sbarre, di fronte alla cella era comparsa silenziosa una vecchia, quasi si fosse materializzata dal nulla. Nell squittì in maniera assolutamente virile e balzò indietro, aderendo con la schiena al muro, cercando di schiacciarsi contro la pietra nell’intento di rendersi invisibile. Ogni fibra del suo essere gli gridava “pericolo” a ripetizione, anche se non ne comprendeva la ragione.
“Nell? Che succede?” domandò Ysril, allarmato.
Paradossalmente, il demone pareva più lucido adesso rispetto alle ore precedenti. Nell valutò che non fosse un segno promettente.
La vecchia, vestita con abiti logori, la gonna tenuta su da una cintura con appesi dei teschi di animali, e un bastone con un pietra nera stretto in mano, lo fissò e ghignò, rivelando una chiostra di denti marci.
“Finalmente ci incontriamo faccia a faccia, figlio mio.” gracchio con voce roca. 
Nell si rimescolò da capo a piedi, la gola secca e il gelo nelle ossa, e un terrore atavico si irradiò in tutte le estremità del suo corpo, pietrificandolo sul posto.

La battaglia imperversava fuori dalle mura, i soldati di Ferenthyr impotenti contro i dardi e l’olio bollente. Nonostante questo, erano riusciti a portare un ariete di fronte alla porta principale e i boati prodotti dai veri tentativi di creare una breccia rimbombavano nell’aria, coprendo le grida e gli ordini vociati da una parte all’altra degli schieramenti.
Andorev osservava con espressione granitica quello spettacolo di morte. Guidato dalle visioni che la Sylmaran gli aveva mostrato, attendeva il suo momento dalla terrazza più alta del castello, da dove aveva una visuale completa. Il terreno erboso era disseminato di cadaveri, lance, frecce, scudi e spade. L’aria era satura del fetore del sangue e della morte, assieme a un odore di carne bruciata. 
Era tutto troppo semplice. Così semplice da fargli salire la nausea. Aveva aspettato secoli per vedere questo, la rovina abbattersi sull’umanità e decimare interi popoli, eppure non provava soddisfazione. Anche se ora conosceva il suo ruolo nel grande disegno, non ne era molto contento. Forse perché non sarebbe stato lui l’indiscusso protagonista della vera strage. Di questo, però, non poteva che incolpare se stesso. Aveva lasciato che tutti lo credessero morto, che il suo nome venisse dimenticato, preferendo adottare altre identità per muoversi più facilmente e orchestrare i suoi piani, e ora un po’ se ne pentiva. Nessuno avrebbe pronunciato il suo nome in preda alla paura. Nessuno, guardandolo, lo avrebbe riconosciuto come lo stregone Andorev, colui che, secondo la leggenda, aveva debellato il potere dell’Occhio. Nessuno avrebbe mai conosciuto la verità, cioè che aveva fallito il suo compito e ceduto al richiamo della gemma, divenendo un suo messaggero, schiavo dell’ebbrezza che gli donava anche solo stando nella medesima stanza. E per mantenere le apparenze aveva dovuto separarsi dall’Occhio, permettere che altri lo prendessero e portassero altrove. Poco importava sapere che ogni mossa sarebbe stata inutile, poiché l’Occhio ha una sua coscienza, è vivo, e agisce per conto dei suoi desideri, senza mai sottomettersi ad alcun padrone. Il distacco era stato doloroso, e ancora di più il periodo trascorso nell’ombra, affannandosi a ordire complotti a lungo termine in attesa di rimettere le mani sulla gemma.
A complicare le cose erano giunti i guardiani dell’Occhio, con il loro stupido codice morale e la loro magia, che avevano schermato il potere della gemma impedendogli di sentirla. E poi ecco che un bel giorno, di punto in bianco, l’Occhio era sfuggito al loro controllo, svincolato da ogni incantesimo di contenimento, finalmente libero di muoversi come voleva, apparendo nei posti più impensati e seminando il caos. Andorev ne aveva seguito la scia come un segugio e, non appena aveva intuito il suo percorso, lo aveva anticipato, così da trovarsi già nel luogo giusto quando fosse arrivato. E l’Occhio, puntuale, era giunto nelle mani di Sylas, di cui lui era diventato fedele comandante sotto il nome di Dorevan. 
Ma aveva dovuto attendere ancora, i tempi non erano maturi: doveva dar modo all’Occhio di caricarsi di energia negativa e lasciare che avvelenasse l’aria, accrescendo il suo raggio d’azione mentre si nutriva di sofferenza e morte e corrompeva la mente del re, trascinandolo dalla sua parte e suggerendogli nel sonno guerre e genocidi.
Nel frattempo, Andorev aveva massacrato con piacere tutti i discendenti della famiglia dei guardiani, divenuti una vera seccatura.
Quindi Sylas aveva dato inizio alla guerra e al suo culmine lo stregone avrebbe dovuto rivelarsi, ucciderlo, assumere il comando, diffondere discordia fra i popoli con l’aiuto dell’Occhio e da lì le cose sarebbero precipitate da sole. Tuttavia, a quanto pareva, il disegno era assai più grande di quanto aveva immaginato. C’erano forze all’opera che non comprendeva e alle quali era chiamato a sottomettersi, consapevole ora di essere nient’altro che una pedina nelle mani di tali forze.
Immerso nel proprio scontento, per poco gli sfuggì quel che accadde.
All’orizzonte apparve un secondo schieramento, stavolta con i vessilli di Teruyn, e altri corni risuonarono il loro inno alla guerra. 
L’esercito di Ferenthyr, colto di sorpresa, sospese l’attacco e si preparò a fronteggiare il nuovo nemico. Le facce dei soldati riflettevano il loro smarrimento interiore, le membra immobili e gli occhi che saettavano tra l’esercito del sud e i generali, spiazzati quanto loro.
Un messaggero di Teruyn cavalcò verso l’esercito di Ferenthyr per riferire che avrebbero combattuto al loro fianco contro Dun’har. Andorev lo aveva visto succedere nelle visioni. Suo compito era impedire che si alleassero. Per cominciare.
Piegò le labbra in un ghigno e sollevò un braccio, protendendo la mano verso il generale di Ferenthyr che avrebbe ricevuto il messaggero. Osservò l’uomo sussultare, per poi irrigidirsi e muoversi come un burattino tirato da fili invisibili. Il messaggero si avvicinò, scese da cavallo  e gli andò incontro. Il generale non gli diede nemmeno il tempo di aprire bocca e gli mozzò la testa con un colpo di spada. I soldati fissarono il generale sgomenti, senza capire perché avesse ucciso il messaggero. 
L’esercito di Teruyn reagì come Andorev si aspettava. Si diede fiato ai corni e immediatamente una valanga di uomini si lanciarono alla carica, tanto che Ferenthyr si ritrovò compresso tra due fronti, impossibilitato a una ritirata. Lo scontro fu violento e l’esercito dell’ovest capì presto di non avere alcuna speranza. 
I disertori fuggirono rifugiandosi nei boschi, ma Andorev sapeva che sarebbero stati sventrati entro poche ore da un altro esercito proveniente da Crythen, giunto in soccorso di Ashra, non appena fosse stato chiaro che Ferenthyr aveva infranto l’alleanza. 
E un altro esercito ancora sarebbe arrivato tra tre giorni, dalla costa, e poi un altro da ovest, e gli alleati di Dun’har da est. Se lo stregone avesse giocato la sua parte in modo intelligente, nell’arco di sette giorni metà della popolazione umana sarebbe divenuta cibo per i vermi. Da lì in avanti, ci avrebbe pensato Xion.

“D’accordo, visto che nessuno di voi lo dice, lo dirò io.” esordì Utros, osservando corrucciato le volute di fumo che si levavano oltre le chiome degli alberi, più o meno nella direzione di Dun’har, “C’è qualcosa di strano.”
“Grazie, genio.” borbottò Phyroe, facendo ciondolare le gambe nel vuoto.
Qolton non commentò, troppo occupato a studiare il cielo, annusare l’aria e captare suoni. 
Da giorni non facevano che incrociare pattuglie provenienti da diverse parti del continente, alcune sottocopertura, altre in missione ufficiale di ricognizione. Sembrava che tutti i più grandi eserciti stessero marciando alla volta della capitale di Dunaster in risposta all’attacco contro Ashra. Stando a quanto le pattuglie avevano riferito loro, l’ovest e il sud si erano di recente alleati contro Dun’har e pianificavano un’offensiva su due fronti che avrebbe obbligato in ginocchio re Sylas, ora che la capitale era sguarnita della giusta protezione. Tutti sapevano che il suo unico punto di forza erano le mura invalicabili, poiché l’esercito di Dunaster non era mai stato cospicuo, men che meno adesso che la maggior parte delle risorse erano state impegnate ad Ashra. Di sicuro i soldati rimasti a guardia della città erano male attrezzati e poco preparati. Anche se ci fosse stato un assedio, non avrebbero resistito molto, le provviste sarebbero terminate presto e non avrebbero avuto vie di scampo, eccetto il sentiero fra i monti Lerisa. Tale sentiero sboccava ad est, nei regni limitrofi alleati con Dun’har, e i sovrani degli altri reami avevano già spedito dei contingenti a circondare i principali insediamenti nemici per impedire una seconda fuga.
In sostanza, la caduta di Dun’har era già stata decretata. Eppure c’era decisamente qualcosa di strano. L’aria vibrava, la terra tremava, gli animali scappavano dalla parte opposta alla battaglia e i boschi pullulavano di disertori, molti dei quali feriti e appartenenti a Ferenthyr. Come in preda ad una inquietante forma di pazzia, costoro si uccidevano l’un l’altro senza riconoscersi, zigzagando fra gli alberi zoppi e sanguinanti in cerca di riparo. 
Quando Qolton aveva provato a domandare ad alcuni di loro cosa fosse successo, quelli avevano tentato di ammazzarlo e rubare i suoi beni. 
Così, lui, Phyroe e Utros si erano arrampicati su una quercia alta e lì erano rimasti ad osservare la situazione, seduti su spessi rami in silenzio.
“Forse la strategia è fallita.” riprese Utros, “Qualcosa è andato storto. Forse Dun’har aveva un asso nella manica.”
“Sia quel che sia, non possiamo proseguire oltre.” dichiarò Qolton con espressione cupa, “Se andiamo avanti, moriremo.”
“Quindi che si fa?”
“Non lo so.” ammise Qolton.
“Dici che Reeven è a Dun’har con Nell?” indagò Phyroe.
“Non ne ho idea. A questo punto, francamente, ovunque si trovino spero che siano insieme. In due hanno più probabilità di sopravvivere in mezzo a quel caos.”
“Mi auguro che decidano di non gettarsi nella mischia e trovino un riparo.” mormorò Utros.
“Nell è sveglio, se la caveranno.” rispose Qolton.
“Credevo che quel ragazzino non ti piacesse.” osservò Phyroe, abbozzando un sorriso.
“Infatti non mi piace, ma devo ammettere che sa il fatto suo. E a dispetto di ciò che ha detto prima di separarsi dal nostro gruppo, ci tiene a Reeven, per questo lo terrà al sicuro.”
Phyroe e Utros annuirono. 
Il trio si trincerò dietro un muro di impenetrabile mutismo e guardarono dall’alto un’altra ondata di disertori riversarsi tra gli alberi con facce allucinate e ferite aperte.









 
  
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