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Autore: FrancescaPotter    18/08/2017    0 recensioni
Long sugli ipotetici figli delle coppie principali di Shadowhunters (Clace, Jemma e Sizzy), ambientata circa vent'anni dopo gli avvenimenti di TDA e TWP. TWP non è ancora uscito al momento della pubblicazione, e nemmeno l'ultimo libro di TDA; questa storia contiene spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows, Cronache dell'Accademia comprese.
Dal quarto capitolo:
"Will abbassò il braccio e distolse lo sguardo, ma lei gli prese delicatamente il polso. «Lo sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» gli chiese, morsicandosi inconsapevolmente il labbro inferiore. Era una cosa che faceva spesso e che faceva uscire Will di testa. «So che è George il tuo parabatai» continuò abbassando la voce, nonostante non ce ne fosse bisogno perché George era concentrato sul suo cibo e Cath stava leggendo qualcosa sul cellulare. «Ma puoi sempre contare su di me. Mi puoi dire tutto. Lo sai, vero?»
Will sospirò. «Lo so, posso dirti tutto».
Tranne che sono innamorato di te."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Clarissa, Emma Carstairs, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Julian Blackthorn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo due
 
Rose si ritrovò nell’atrio dell’Istituto di Los Angeles. Solitamente si focalizzava sulla propria stanza quando attraversava il portale, ma quella sera si era limitata a pensare vagamente all’Istituto perché la sua mente era altrove, ancora a New York.
Salì le grandi scale che davano sull’entrata e girò a sinistra, verso la zona riservata alla sua famiglia. Sperò che i suoi genitori fossero già fuori casa –sarebbero dovuti uscire a cena per il loro anniversario e c’erano tre ore di fuso orario tra New York e Los Angeles- perché non le andava di vedere nessuno.
Will era strano in quell’ultimo periodo. Era come se ci fosse qualcosa che lo turbava e non gliene volesse parlare. Rose non era brava con le persone, non era brava con i sentimenti in generale. Spesso ne aveva troppi e non sapeva come gestirli. Ma con Will era diverso: non era la sua parabatai, eppure riusciva a percepire gli stati d’animo di lui come se fossero i propri. Questo non significava che li comprendesse, significava solo che sapeva –sentiva nelle ossa- quando Will era triste, e quella sera Will era triste. Non si spiegava come mai lui non si aprisse con lei; si erano sempre detti tutto e perciò non voleva insistere: se non desiderava confidarsi, Rose non lo avrebbe mai costretto a farlo.
Will era sempre così solare che vederlo meno splendente del solito le faceva male, la faceva quasi uscire di testa, perché se Will non era felice, allora non lo sarebbe mai stata neppure lei, non fino in fondo. Gli voleva troppo bene e desiderava solo il meglio per lui: voleva aiutarlo, ma come avrebbe potuto se neanche sapeva che cosa gli stava succedendo?
Probabilmente si stava facendo le paranoie per niente, concluse. L’indomani avrebbe chiamato George per assicurarsi che non gli stesse accadendo nulla di grave e ci avrebbe messo una pietra sopra. 
«Rose» la chiamò la voce di suo padre, Julian. «Rose, sei tu?»
Rose imprecò nella sua mente. «Sì, papà» disse, raggiungendolo in cucina, un’ampia stanza attrezzata con gli utensili più vari. L’Istituto talvolta poteva risultare freddo e austero con le sue stanze minimaliste e l’armeria incavata nella pietra; la cucina, invece, era stata arredata dalla mamma di Julian, morta prima che Rose nascesse, e successivamente rinnovata da Julian stesso. Era un luogo personale, vissuto, con le pareti giallo chiaro e un grande tavolo circondato da panche e sedie in legno.
Julian le dava le spalle, intento a lavare dei piatti. Si era gettato un panno sulla spalla destra e indossava il grembiule con i gattini che Rose e Holly gli avevano regalato per il compleanno.
«Tua sorella ha già mangiato e ora è nella sua stanza». Julian chiuse il rubinetto e si asciugò le mani. «Dalle un occhio prima di andare a dormire. Ti ho lasciato da parte un po’ di pasta per questa sera».
Holly aveva sette anni –e mezzo, come le piaceva ricordare a tutti- ed era una bambina con i capelli biondi e le lentiggini. Anche lei aveva ereditato gli occhi verde-azzurro dei Blackthorn, però aveva avuto anche la fortuna di ereditare i capelli biondi dei Carstairs. Una vera ingiustizia, secondo Rose.
«Mi sono fermata a cena da Will in realtà… La mangio domani, grazie. Non avresti dovuto».
Julian spesso si dimenticava che Rose aveva quasi diciotto anni e che era in grado di prepararsi la cena da sola quando lui e sua mamma erano fuori casa; Rose glielo aveva detto più volte, ma lui le aveva risposto che lei e sua sorella stavano crescendo troppo in fretta e che voleva prendersi cura di loro almeno per quanto riguardava le piccole cose.
«Lo so». Julian si voltò e le sorrise, togliendosi il grembiule e riponendolo al suo posto nel cassetto sotto al lavello. «Non avrei dovuto, ma ho voluto farlo».
Indossava un paio di jeans scuri e una camicia azzurro chiaro che gli metteva in risalto gli occhi, un misto di azzurro e verde che somigliava al colore del mare. Rose non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza per averglieli tramandati.
Rose sospirò. «Grazie, davvero. Mi spiace, ti ho mandato un messaggio ma mi sa che non lo hai ricevuto».
«Colpa mia» disse lui, alzando le mani. «Il mio telefono è morto e l’ho lasciato in camera a caricare tutto pomeriggio. In ogni caso, domani cerca di non mancare, la mamma ha detto che vuole cucinare lei…». Si guardarono entrambi inorriditi. «Ripensandoci, forse non è una buona idea».
A volte la mamma di Rose, Emma, decideva di cucinare, affermando che Julian meritasse una pausa, ma spesso la sua buona volontà non era sufficiente per dare alla luce qualcosa di commestibile e si ritrovavano a ordinare cibo d’asporto. Non è che ciò che preparava fosse sempre un disastro, era solo che Emma in cucina era un po’ sbadata. Ad esempio, una volta aveva confuso il sale con lo zucchero, e un’altra ancora aveva dimenticato di mettere le uova nell’impasto della torta.
Rose ringraziò il cielo di avere già un impegno.
«Uhm, ecco…». Rose non sapeva bene come formulare la frase. Non era mai uscita con nessun ragazzo e non aveva idea di come avrebbero potuto reagire i suoi genitori. Sapeva che Jace, il padre di Will, era molto protettivo quando si trattava delle proprie figlie, ma il suo, di padre? Era più tranquillo di Jace, ma Rose preferiva aspettare che arrivasse anche sua mamma per dare la notizia. «Domani sera non ci sono».
«E dove sei?» chiese Julian automaticamente.
«Esco» rispose lei evasiva. Non le piaceva mentire, men che meno ai suoi genitori, e di sicuro non lo avrebbe fatto per una tale sciocchezza.
«Ma con un ragazzo?» Julian sbiancò e parve sgonfiarsi, come se fosse stato privato della propria energia vitale. «Hai un… appuntamento?»
«Qualcuno ha detto appuntamento?» Emma era appena entrata nella cucina con indosso un lungo vestito floreale e i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle come una cascata dorata. Rose notò che aveva coperto le rune permanenti con del fondotinta, allo stesso modo di alcune cicatrici, tra cui quella che le attraversava tutto l’avambraccio e che lei stessa si era inflitta con Cortana quando aveva saputo che i suoi genitori erano morti. Era così evidente che persino gli Shadowhunters ne rimanevano impressionati e la fissavano inorriditi.
Julian parve riprendersi. «Ehi» disse a Emma, guardandola come se la vedesse per la prima volta nella sua vita.
Emma gli sorrise e gli si avvicinò, stampandogli un leggerlo bacio sulla guancia.
Rose sbuffò. I suoi genitori erano così innamorati che guardarli per troppo tempo faceva male agli occhi. Anzi, a volte era quasi deprimente, perché ti ritrovavi a chiederti se avresti mai trovato anche tu una persona da amare e che ti amasse tanto profondamente.
Sua madre si voltò verso di lei e le rivolse un’occhiata maliziosa. «Allora, chi è il fortunato?»
Julian grugnì qualcosa di indefinito, e Rose sospirò. «Logan Ashdown».
«Logan Ashdown?» Suo padre spalancò gli occhi. «Quel Logan Ashdown?»
«Uhm… sì?»
Emma si mise a ridere, mentre Julian prese una sedia e si sedette con aria frastornata. Rose non capiva: non lo doveva mica sposare!
«Ma io…» Suo padre la guardò con occhi grandi, dello stesso colore dei suoi. «Noi… pensavamo…»
«Che ti piacesse Will» concluse sua madre, sbattendo le palpebre come se non riuscisse a metterla a fuoco. Julian la guardò storto e lei scrollò le spalle. «Tutti pensano che le piaccia William».
«Mamma! No, certo che non mi piace!» esclamò Rose con un po’ troppa ferocia, per poi pentirsene subito. Il suo cuore aveva iniziato a battere più forte alla menzione di Will. Era arrossita, lo sapeva, sentiva le guance e il viso andare a fuoco, e dovette prendere ben due respiri profondi prima di poter parlare con voce ferma. «Siamo solo amici».
Emma e Julian si lanciarono uno sguardo ricco di sottintesi ma non dissero nulla. Rose sapeva a che cosa stavano pensando: anche noi eravamo solo amici. Ma non lo erano mai stati davvero, no? Dai loro racconti, Rose aveva intenso che fossero innamorati sin da ragazzini, sin da prima di essere costretti a diventare parabatai, nonostante non se ne rendessero conto allora.
Con lei e Will era diverso. Erano amici. In più lui era bellissimo, un Herondale, uno degli Shadowhunters migliori della loro generazione, capace di creare portali, e... «Lui non potrebbe mai essere interessato a me». Aveva parlato ad alta voce senza volerlo e sentire quelle parole con le sue stesse orecchie, non più solamente nella propria testa, faceva ancora più male, perché Rose sapeva che erano vere.
«Perché no?» chiese subito Emma, aggrottando le sopracciglia ed entrando in modalità nessuno svalorizza mia figlia, nemmeno lei stessa. «Sei meravigliosa, Rosie».
Rose non disse niente.
«Se c’è una cosa che ho imparato» disse Julian, osservando Emma dal basso verso l’alto. «È che non puoi mai essere sicura dei sentimenti che qualcuno prova per te».
«Siete i miei genitori» sospirò Rose. «Ovviamente dovete pensarla così».
«Nessuno è perfetto». Suo padre si alzò e le diede un bacio tra i capelli, per poi prendere la giacca dalla sedia. «Nemmeno Will».
«Ma alcune persone sono perfette per stare insieme» continuò Emma.
«Magari io e Logan saremo perfetti per stare insieme».
«Ma non lo conosci» disse Julian depresso, per poi borbottare tra sé e sé. «Ashdown…!»
«Quello è il punto, no?» disse Rose con logica. «Ci esco insieme per conoscerlo».
Suo padre si passò una mano tra i capelli e annuì; sua madre, invece, ridacchiò.
«Si può sapere che problema avete tutti con gli Ashdown?» chiese Rose, non capendo le reazioni di Jace e Clary e dei suoi genitori.
«Tutti chi?» chiese Emma, sinceramente sorpresa.
«Jace» disse Rose. «E Clary, anche! Sono stata a cena da loro oggi, e entrambi mi hanno chiesto se sapevate che sarei uscita con il figlio di Cameron Ashdown».
Julian lanciò uno sguardo a Emma, indecifrabile agli occhi di Rose, ma non a quelli di sua madre, che gli prese la mano. Rose sospettava che lei gli stesse scrivendo qualcosa sul palmo nel linguaggio che era solo loro e inaccessibile ad altri. Era un modo di comunicare che avevano adottato quando erano bambini e che avevano mantenuto a distanza di anni. Rose aveva sempre pensato che fosse dolce, intimo. Ovviamente tranne quando lo usavano per tenerle nascosto qualcosa, come in quel caso.
Si mise le mani sui fianchi e si schiarì la gola, facendo sobbalzare i suoi genitori, che ebbero la decenza di arrossire.
«Tesoro» iniziò sua madre, avvicinandosi a lei. Aveva smesso di ridere e ora la guardava con espressione rassegnata. «Diciamo che sono uscita con Cameron Ashdown quando avevo la tua età».
«Eugh!» esclamò Rose, arricciando il naso e facendo un passo indietro. «Credevo che tu fossi sempre stata innamorata di papà! Tipo da… sempre?»
Guardò suo padre come in cerca di sostegno, ma quello alzò le spalle con un sorrisetto. Ora i ruoli parevano invertiti ed era lui quello che si stava divertendo.
«Eravamo parabatai!» esclamò Emma. «E quella con Cameron non era una relazione seria».
«È vero» le diede ragione Julian. Rose alzò un sopracciglio nella sua direzione e lui si appoggiò alla credenza incrociando le braccia al petto. «Emma usciva con Cameron e ogni due mesi lo scaricava. Una volta ha anche dimenticato il suo compleanno. Non ha mai dimenticato il mio».
«Ma certo che no!» sbottò Emma, per poi posare le mani sulle spalle di Rose. «Credevi bene: ho sempre amato tuo padre, ma sai… non lo potevo ammettere a me stessa, no? Eravamo parabatai, era proibito. Non ho mai amato Cameron, neanche un po’. Ci ho provato con lui, tantissimo, ma ogni volta che mi chiamava e la sua faccia compariva sullo schermo –be’, un lama, dato che non avevo sue foto…»
«Un lama?» Rose spalancò gli occhi. Sua madre avrebbe anche potuto concludere lì, era evidente cosa avesse provato per il povero Cameron Ashdown.
«… mi faceva così arrabbiare. Voleva sempre giocare ai videogiochi e io odio i videogiochi».
Julian rise e scosse il capo. Emma si voltò e lo guardò, probabilmente con un’espressione svenevole stampata in viso, pensò Rose. I suoi genitori si guardavano spesso in quel modo, come se fosse un privilegio poter stare insieme, anche dopo più di vent’anni.
«Mamma» disse Rose con calma. «Stavo scherzando. Tu e papà sembrate due tredicenni alla prima cotta».
Se mai mi innamorerò di qualcuno, pensò Rose, non lo guarderò mai così. Per l’Angelo.
Emma scrollò le spalle e trafficò con il vestito. Rose non aveva notato che stava portando Cortana, la spada della famiglia Carstairs, fissata dietro la schiena e nascosta dai lunghi capelli biondi. Emma se la sfilò e la porse a Rose.
«È tua, per questa sera» le disse, tenendo la spada sulle sue mani e allungando le braccia verso di lei.
«Dovrei allenarmi a quest’ora?» Rose sapeva che sua madre aveva passato intere giornate ad allenarsi senza sosta quando era più giovane, senza pause per mangiare o riposarsi, ma non era mai stata troppo esigente con lei; al contrario, dopo un certo orario la spediva a dormire, ignorando le sue proteste.
«Proteggi l’Istituto» le disse con serietà. «E proteggi Cortana».
Rose aveva iniziato ad allenarsi con Cortana da tempo ormai, e non appena avesse compiuto diciotto anni, sua madre le aveva promesso che sarebbe stata sua per sempre.
«Uhm, credevo che l’Istituto fosse sicuro». Rose prese la spada titubante, non era mai successo che la madre uscisse senza portare Cortana con sé.  
Emma fece per dire qualcosa, ma Julian le mise una mano sulla spalla e sorrise a Rose. «Lo è. Ma devi abituarti a portare Cortana. Il tuo compleanno si avvicina».
«E se servisse a te?» chiese Rose, alzando lo sguardo sulla madre.
Emma le fece un occhiolino. «Ho altri assi nella manica, non preoccuparti. Ci vediamo domani mattina».
Emma le diede un bacio sulla guancia, prese la mano di Julian e insieme si diressero fuori dalla porta.
Rose annuì tra sé e sé, passando una mano sul fodero della spada, con il sospetto che i suoi genitori non le stessero dicendo tutta la verità.
 
---
 
Il telefono di Cath si illuminò e George la sentì sospirare e allontanarsi leggermente. Erano seduti sul letto di George, lui stava con la schiena poggiata alla testiera e lei gli era seduta in grembo con le gambe allacciate attorno alla vita.
«Devo andare» sussurrò, scorrendo il dito sullo schermo e leggendo il messaggio. «Apparentemente è una delle serate no».
George sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Ogni volta che il padre di Cath era in una “serata no” e lei faceva tardi, lui le scriveva, intimandole di tornare a casa.
«Ti prego, resta». George le diede un bacio sotto alla mandibola, là dove si sente il battito del cuore, e lei sospirò.
«Non posso… lo sai mio padre come diventa se non torno a casa».
Da quando la mamma di Cath era morta, suo padre cercava di alleviare il dolore con l’alcol, tanto che ne era ormai dipendente. Gli Shadowhunters non vedevano di buon occhio questa tipologia di problema e se lo avessero scoperto lo avrebbero rinchiuso, o esiliato. Nel peggiore dei casi gli avrebbero strappato anche i marchi.
Cath aveva fatto promettere a George di non dirlo a nessuno, e lui era stato disposto a non farne parola neanche con Will, ma Cath gli aveva dato il permesso di dirglielo perché non avrebbe mai voluto che tenesse nascosto qualcosa al suo parabatai. George l’aveva amata ancora di più per questo.
«Non lo sopporto» disse George.
«Lo so. Spesso non lo sopporto neanche io». Cath gli passò le mani tra i capelli e poggiò la fronte contro la sua. «Ma è pur sempre mio padre».
A volte la trattava male, aggredendola verbalmente e accusandola di aver ucciso la madre. In realtà la mamma di Cath era morta colpita al cuore dal pungiglione di un divoratore mentre si frapponeva tra il demone e la figlia. Era raro morire per una ferita del genere, ma a volte non potevi opporti al destino, e una combinazione di fattori, tra cui l’essere colpita al cuore e Cath troppo piccola per avere uno stilo, avevano portato alla sua morte.
George aveva una paura accecante che il padre potesse farle anche del male fisico. Ogni volta che Cath lo trovava ubriaco quando tornava a casa, il cuore di George si fermava. Cath gli aveva raccontato che una volta le aveva lanciato un bicchiere contro, mancandola per un pelo. Non c’erano stati altri episodi del genere, a detta di Cath, ma George odiava l’idea che vivesse con quell’uomo, perché sapeva che se lui l’avesse aggredita, lei non si sarebbe difesa perché era suo padre e non gli avrebbe mai fatto del male.
«Promettimi che se le cose dovessero sfuggire di mano, me lo dirai» disse, guardandola negli occhi. Nella famiglia di George, tutti avevano capelli e occhi scuri, e George era rimasto incantato dai colori chiari di Cath quando l’aveva incontrata per la prima volta. Le sue iridi erano di un azzurro così cristallino che anche nella semioscurità della camera risplendevano come stelle nel cielo.
Cath gli posò una mano sul cuore e tirò su con il naso, come se stesse trattenendo le lacrime.
«Devo andare, George». Gli diede un leggero bacio sulla guancia. George sentì un buco aprirsi all’altezza dello stomaco, come se fosse sulle montagne russe. La abbracciò e la strinse a sé, circondandole la vita con le braccia e seppellendo il viso nell’incavo del suo collo. Cath gli passò le mani sulla schiena, su fino alla base del collo, e George rabbrividì.
«Resta qui». Ora la stava quasi implorando. La sua voce era roca, faceva fatica a riconoscerla lui stesso. «Domani mattina ti accompagno a casa io e mi prendo tutta la colpa».
«Se mio padre è ubriaco, potrebbe ucciderti» disse Cath seria.
«Ma mi conosce!» esclamò lui, allontanandosi leggermente per poterla guardare in faccia.
Cath sorrise, un sorriso senza allegria, e gli accarezzò piano il viso. «E ti odia».
Era come se suo padre non volesse che lei fosse felice. Cath lo aveva presentato a George, ma lui si era fatto trovare così ubriaco che lo aveva insultato, accusandolo di volersi solo portare a letto sua figlia. Cath era andata avanti a scusarsi per più di un mese.
George era così arrabbiato. Così arrabbiato che voleva distruggere qualcosa. Desiderava solo che lei fosse felice, perché Cath era gentile, e buona, e aveva un animo bellissimo che meritava il meglio.
«Tuo padre odia tutti» fece notare George.
«Vero».
George si sporse in avanti e appoggiò delicatamente le labbra sul quelle di lei. «È tardi» disse, in un ultimo tentativo per farla restare da lui. «Non puoi tornare da sola a quest’ora».
Cath a volte rimaneva a dormire a casa sua, quando suo padre era troppo ubriaco per rendersi conto che lei non c’era, e George lo adorava. Adorava sentire il calore del suo corpo, il suo profumo, poter passare la mano tra i suoi capelli biondo chiaro e poterla osservare mentre dormiva tranquilla, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. Ma più di tutto, amava svegliarsi la mattina e trovarla accanto a sé.
Cath sospirò. «Sono una Shadowhunter, i mondani non possono vedermi e so difendermi da sola».
«E se trovassi qualche vampiro alla ricerca di una vergine da dissanguare?» tentò di tirarle su il morale lui.
«George». Cath si mise a ridere. George adorava il modo in cui pronunciava il suo nome, marcando leggermente sulla erre. «Tu meglio di tutti dovresti sapere che non sono vergine».
George provava un tale affetto nei suoi confronti che a mala pena riusciva a parlare con voce ferma. Le mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio e la guardò incantato per qualche secondo. «Ma sei così bella che potrebbero passarci sopra e dissanguarti lo stesso».
Cath emise un singhiozzo strozzato e chinò il viso verso quello di lui. Posò le labbra sulle sue e George ricambiò il bacio con tutto ciò che aveva, cercando di trasmetterle quanto la amasse. Le passò le mani lungo le cosce, su fino a quando non trovò la schiena nuda sotto al tessuto leggero del vestito. Seguì la sua colonna vertebrale e la sentì rabbrividire al suo tocco. Poi allontanò la bocca da quella di lei e le tracciò una scia di baci sul collo, fino alla clavicola. Le scostò lo scollo del vestito di lato e si bloccò.
C’era una cicatrice lì. Partiva dal seno e le tagliava in diagonale la clavicola fino alla spalla; George sapeva che non l’aveva mai avuta, perché George conosceva il corpo di Cath meglio del proprio.
«Che cos’è questa?» chiese, reprimendo l’urgenza di mettersi a urlare.
Cath lo fissò confusa per qualche istante, poi seguì il suo sguardo e capì. A George bastò guardarla per un secondo per dedurre come se la fosse fatta. O meglio, chi gliel’avesse fatta.
Alla fine era successo ciò che temeva, e la cosa lo mandava su tutte le furie. 
«Niente» disse lei. Poi si sistemò il vestito e fece per allontanarsi, ma George rafforzò la presa sui suoi fianchi e la tenne ferma dov’era.
«Catherine» sibilò, girandole il volto verso di sé così da poterla guardare negli occhi. «Che cos’è quella cicatrice?»
«Non intendeva farlo! È stato un incidente!» esclamò lei, il labbro inferiore che tremava. 
George scosse il capo. «Tu là non ci torni».
«Devo andare invece!». Scese dal letto e iniziò a infilare il cappotto. «Se mio padre non mi trova a casa, è capace di venire qui, e non voglio che i tuoi genitori…»
«I miei genitori potrebbero aiutarti!» Anche George si era alzato, e ora torreggiava su di lei di parecchi centimetri. «E lo sai cosa mi fa incazzare? Cosa mi fa uscire completamente di testa? Che lui ti ha puntato un coltello alla gola e ti avrebbe ucciso se fosse stato dell’umore…»
«George…» Cath fece per interromperlo, ma lui continuò. «E tu glielo avresti lasciato fare!» urlò. «Perché in tutti questi anni è riuscito a convincerti che è colpa tua se tua madre è morta, che è colpa tua se lui si è ridotto in quello stato. Ma non lo è. Non lo è, Catherine».
«È mio padre» disse lei, come se stesse ripetendo la battuta di un copione. «Devo prendermi cura di lui. È tutto ciò che mi rimane, è l’unica famiglia che ho».
«Hai me». George le si avvicinò e le prese le mani nelle sue. Se solo avesse saputo… «E i miei genitori ti vogliono bene come se fossi figlia loro».
«Lo so» disse piano lei. «Ma che cosa dovrei fare? Darlo in pasto al Conclave? È pur sempre mio padre».
«Cath, non è più tuo padre da anni». George odiava essere così duro con lei, lo odiava. Voleva proteggerla da tutte le sofferenze del mondo, ma sapeva che non era possibile e che metterla davanti alla cruda realtà l’avrebbe solo aiutata.
Cath sbiancò e George temette si mettesse a piangere. Invece liberò le mani dalle sue e lo abbracciò forte. Era così piccola che George temette si potesse spezzare tra le sue braccia.
«Ti amo tanto, George» gli disse con una nota di disperazione nella voce. «Davvero tanto».
«Cath, io te lo giuro, se ti tocca di nuovo…»
«Non glielo permetterò» disse subito lei, alzandosi sulla punta dei piedi e baciandolo sulla bocca. «Ti prometto che reagirò questa volta».
George cedette; non poteva mica incatenarla alla sedia della sua scrivania, nonostante avrebbe voluto farlo.
«Scrivimi» le disse. «Quando arrivi, quando vai a dormire, e domani mattina quando ti svegli. E promettimi che cercheremo una soluzione, perché non puoi andare avanti così. Io non posso andare avanti così».
Cath annuì e se ne andò, chiudendosi piano la porta dietro le spalle e lasciandolo solo nella sua camera. George si passò le mani sul viso e prese un respiro profondo, consapevole che quella notte non avrebbe chiuso occhio.
Si guardò attorno, come aspettandosi di trovarla di nuovo sul suo letto. E invece il suo letto era vuoto, sempre al suo posto contro la parete sinistra della stanza. Sopra a quello c’era una mensola con delle foto con Will e Rose e la sua famiglia, assieme a qualche fumetto che suo padre aveva provato a fargli leggere. George ci aveva tentato, ma aveva concluso che i fumetti non facevano per lui.
Fece per prendere la sua chitarra -George suonava da quando era piccolo- ma si rese conto che era tardi e che probabilmente i suoi genitori stavano già dormendo. Allora afferrò il cellulare e chiamò l’unica persona in grado di prendere su di sé parte della sua preoccupazione, perché le sofferenze di George erano anche quelle di lui.
Una voce un po’ assonnata rispose dall’altro capo del telefono, e George si sentì improvvisamente sollevato.
«Will» disse, finalmente in grado di respirare.
 
---
 
Rose spalancò gli occhi e allungò una mano verso il comodino per afferrare Cortana, ma la spada cadde al suolo con un rumore assordante che echeggiò per tutta la camera.
Si sedette di scatto sul letto e accese la luce. Era sudata, la camicia da notte appiccicata al corpo e il cuore che le batteva forte nel petto a causa dell’incubo che aveva appena avuto. Sentiva ancora il sapore del sangue in bocca.
«Holly?»
Sua sorella se ne stava in piedi di fianco al suo letto con gli occhi rossi e un peluche stretto sotto al braccio. Non stava piangendo, gli Shadowhunters non lo facevano spesso, ma le sue guance erano bagnate di lacrime.
«Ho avuto un incubo» disse seria, il viso pallido incoronato dai capelli biondi. Stava tremando leggermente nel suo pigiama con gli orsetti. «Brutto».
Rose gettò un’occhiata alla sveglia sul comodino per controllare l’ora: erano quasi le due di notte e i suoi genitori dovevano essere già tornati, ma non era la prima volta che Holly andava da Rose dopo aver avuto un incubo.
«Vieni qui». Scostò le coperte di lato e le fece spazio nel letto. «Anche io ho appena avuto un brutto sogno».
Holly le si accovacciò accanto e le posò la testa sulla spalla. Rose la abbracciò e la strinse un po’ a sé, seppellendo il viso nei suoi capelli e traendo conforto dalla presenza di un corpo caldo accanto al suo. Holly profumava di cioccolato, di sapone e di casa, e Rose chiuse gli occhi, sentendo pian piano rallentare il battito del proprio cuore.
«Dimmi la verità» le disse poi. «Sei andata a rubare del cioccolato prima di venire qui».
Holly stette in silenzio per qualche secondo, poi sospirò. «Non dirlo a mamma e a papà».
Holly amava il cioccolato e spesso nascondeva delle barrette nella sua camera, facendo arrabbiare i loro genitori che le avevano proibito di mangiare cioccolato dopo cena e prima di andare a dormire.
Rose ridacchiò e le diede un bacio sulla fronte.
«Cosa succedeva nel sogno?» Parlare dei propri incubi aiutava a superarli e a rendersi conto di quanto fossero assurdi in realtà.
«C’eri tu, e papà» iniziò Holly. «C’era tanto sangue. Tu avevi gli occhi spalancati ma non ti muovevi, eri morta. E papà…» Holly iniziò a singhiozzare e Rose la strinse un po’ di più a sé, trattenendo un sussulto. Sapeva come terminare la frase, conosceva quell’incubo perché lo aveva appena avuto anche lei.
E papà veniva torturato da una figura senza volto.
«C’era una persona con una spada in mano e anche io ero morta». Holly aveva smesso di piangere. «L’unica viva era la mamma».
«Basta così». Aveva iniziato a tremare anche Rose. Com’era possibile che avessero avuto lo stesso incubo? Una coincidenza, si disse. «Non devi andare avanti. Era solo un brutto sogno, Holly. Mamma e papà stanno bene, io sto bene, vedi? Non ti preoccupare, torna a dormire e non pensarci più».
Sentì Holly annuire vicino al suo collo; pian piano i respiri della bambina si fecero più regolari e si addormentò, ma Rose non riuscì più a prendere sonno. 

NOTE DELL'AUTRICE
Ecco qua il secondo capitolo. Come promesso avete conosciuto meglio Cath -e George, e ci sono i Jemma. Julian e Emma sono i miei personaggi preferiti e temo si veda, quindi vi chiedo scusa se preferite qualcun altro, ma vi prometto che pian piano cercherò di inserire tutti i personaggi principali di TMI e TDA, almeno per qualche scena. E' un po' difficile perché sono tantissimi, ma ci sto provando! 
A settimana prossima e grazie per aver letto,

Francesca 
  
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