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Autore: Nana_mln    22/08/2017    1 recensioni
Salve a tutti. Questa è un storia che scrissi molto tempo fa e solo da poco ho deciso di iniziare a pubblicarla. Ne ho già pubblicata una parte (sebbene con un titolo diverso) su un altro forum, e ora ho deciso di iniziare anche qui. Poiché l'idea l'ho avuta tempo fa (per intenderci seguivo più o meno la quindicesima stagione) non saranno presenti i personaggi più recenti.
La storia tratta dell'evoluzione del rapporto di odio-"amore" tra Shinichi e Shiho, prima e dopo il ritorno nelle loro sembianze naturali, incentrandosi specialmente sui sentimenti e le emozioni che li accompagnano.
*Nota sul titolo: Il titolo è tratto da un verso della canzone Ghost Love Score dei Nightwish.
Buona lettura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Hiroshi Agasa, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La convalescenza fu lunga, per lei. Il corpo di una bambina di otto anni era riuscito a stento a sostenere quelle ferite, resistendo su un terreno impolverato con un pezzo di piombo nel piede. Lui se l'era cavata, come sempre, in pochi giorni aveva ottenuto le dimissioni, uscendo di scena con una semplice lussazione alla spalla. Convalescenza. Una parola così piena di ottimismo, una parola che fa pensare a un futuro, che ricorda che il peggio è passato e non c'è altro da fare che aspettare. Forse la sua non era una convalescenza, allora. Forse avrebbe potuto mettere in pausa le sue attività fisiche, ma come fermare il flusso di ricordi, emozioni, pensieri che le affollavano la mente? Se lo era sempre chiesta: si può lasciare l'anima in stand-by? Avrebbe preferito non sentire più nulla, avrebbe scambiato volentieri la sua emotività maledettamente penetrante con una sorta di salvifica apatia. In fondo, è devastante accettare di dover proiettare tutta la vita verso un futuro che il passato impedisce di assaporare, vivere sospesa tra i prima e i dopo senza mai riuscire a cogliere l'adesso. Mai. Quando era nel giro aspirava a fuggire, distrutta dal ricordo della sorella uccisa. Quando ne era scappata, attendeva la sua condanna, tormentata dal rimorso di ciò che era diventata. In ospedale, in quell'"ora" che non riusciva a percepire, era travolta dalla sua vita, ansiosa di svelare un futuro a cui non aveva immaginato di poter accedere e che, d'altra parte, le aveva solo complicato le cose.
Le visite erano assidue e piacevoli. Agasa andava a trovarla tutti i giorni, trattenendosi un paio d'ore, e ogni tanto era accompagnato dall'allegria dei tre piccoli detective, che la aiutavano come sempre a fuggire da se stessa. Loro non sapevano nulla di quello che era accaduto, tutto era stato ancora una volta abilmente nascosto dietro la solite vecchie bugie. Anche Shuichi Akai, alcune sere, le teneva compagnia, assicurandosi sempre che non le mancasse nulla, cercando di fare per lei quello che non era riuscito nei confronti della sorella scomparsa. E anche Ran, mossa dal suo buon cuore, le aveva portato più di una volta qualcosa da mangiare, spiegando con un sorriso che alla sua età una bambina non dovrebbe sopravvivere con i pasti poco gustosi ed invitanti che servono negli ospedali. Anche Ran era andata a farle visita, ed era andata da sola.
La compagnia non le mancava mai, e anche quando stava per addormentarsi, era quasi sollevata nel sentirsi annunciare una visita. Eppure mancava qualcuno. Forse se ne accorse quando la piccola Ayumi si scusò dell'assenza di Conan, ma lui aveva avvertito che sarebbe andato con Ran, il giorno seguente. Forse se ne accorse quando Ran si scusò dell'assenza di Conan, ma le aveva giurato che era già andato il giorno prima, con i Detective Boys. Era sicura di non essersene accorta prima? No, non era sicura, ma c'era bisogno di troppo poco orgoglio per ammettere a se stessa la delusione di non vederlo mai entrare. Erano passate tre settimane dal suo ricovero. La sua assenza risultò lampante, non solo a lei, ma anche alla persona che lo conosceva al punto da notare un'anomalia nel comportamento del giovane. Una sera, dopo, aver congedato i tre bambini, il dottor Agasa si avvicinò a lei.
"Shinichi mi ha promesso che verrà."
"Oh, non c'era bisogno di costringerlo dottore, la compagnia non mi manca." Un sorriso affabile illuminò le iridi, tremolanti in dissonanza, che tradirono quelle parole.
"Non dire così, Ai. In queste settimane mi ha sempre chiesto di te e della tua salute. È stato lui stesso a promettermi che verrà, quando lo riterrà opportuno."
Rimase perplessa dalle ultime parole, ma non si sforzò a indagare oltre. Rimase da sola nella camera bianca. Era passato il tramonto e si iniziava ad intravedere il velo di oscurità che presto si sarebbe impadronito del cielo. Aiutandosi con le stampelle, raggiunse la finestra, aprendo delicatamente le tende bianche che la coprivano. E come quando a teatro si apre il sipario e gli attori entrano in scena sul palco, lei iniziò a rimuginare sul suo futuro, sulla sua consapevolezza di essere in vita, incolpandosi di non essere ancora in grado di cominciare a viverla, un vortice di pensieri tremendamente possenti che iniziarono a danzare nella sua mente, al chiaro pallore della luna piena.
Arrivò il giorno in cui venne dimessa. Agasa la scortò in macchina fino a casa, e la aiutò a entrare. Si guardò intorno, con un po' di malinconia, e scorse il materiale che il piccolo Conan le aveva procurato nel laboratorio dell'Organizzazione, appoggiato di fianco al computer di Agasa. Passò oltre, con lo sguardo e con i passi, raggiungendo il divano sul quale decise di concedersi qualche minuto di riposo. Erano appena le quattro del pomeriggio.
"Dottore, ha avvisato qualcuno del mio ritorno a casa?"
Agasa, indaffarato com'era a rovistare in alcuni scatoloni a ridosso della libreria, si bloccò un istante e volse lo sguardo verso di lei.
"Perché me lo chiedi, Ai?"
"Vede dottore, preferirei restare per un po' da sola, senza nessuno che interrompa il mio lavoro."
 "Lavoro? Ai! Non avrai mica intenzione di tornare a rintanarti in quello sgabuzzino! Così presto poi, hai ancora bisogno di cure."
"Stia tranquillo, dottore. Per le mie condizioni attuali, posso tranquillamente controllarmi da sola. Ho bisogno solo di aiuto per muovermi sulle scale, e per questo ci sono le stampelle." Ne piantò una sul pavimento e, agilmente, ignorando la fitta che le attraverso la caviglia, si alzò in piedi e sorrise.
"Visto?" Iniziò ad avanzare verso la scrivania, sotto lo sguardo preoccupato dell'anziano.
"Ai, non puoi..."
"Ho una questione da risolvere e ho intenzione di farlo al più presto possibile. Per favore, può portarmi queste cose al piano di sotto?" Chiese, indicando il raccoglitore di documenti e il computer portatile sulla scrivania.
"Hai la testa più dura di quanto credessi."
 "Io comincio a scendere, faccia con calma." Si avviò verso la porta del seminterrato, cercando di camminare con più disinvoltura possibile per evitare che Agasa si preoccupasse inutilmente per lei. Posò la mano sulla maniglia.
"Ai…"
La bambina si voltò verso l'uomo.
"Oggi Shinichi verrà qui."
Non si mosse. Abbassò la maniglia della porta.
"Bene." E scomparve di sotto.
Il ticchettio della stampella sulle scale, che rimbombava a ogni passo, la accompagnò finché non giunse nel suo laboratorio, organizzato alla buona in quello scantinato. Si stava freschi lì, sebbene dopo tante ore di lavoro il calore emanato dal computer surriscaldato iniziava a farla sudare. Si accostò al tavolo con il computer e schiacciò il tasto di accensione. La solita musichetta inserita dal dottor Agasa, allegra e frenetica, sancì l'illuminazione dello schermo.
Dopo qualche minuto era già seduta davanti al computer, circondata da fogli e penne. Accese anche il piccolo portatile dell'organizzazione, che fortunatamente era carico. Con grande stupore scoprì che i dati contenuti al suo interno non erano protetti da alcuna password, quindi riuscì a copiare il contenuto su un CD-ROM senza troppi problemi. Lo inserì nel suo computer e si mise a lavoro.
Il dottor Agasa al piano superiore aveva appena preparato il tè e stava per portarlo nel seminterrato. Ma il campanello squillò. Sapeva benissimo chi fosse. Posò la tazza di tè e corse ad aprire la porta.
"Shinichi, finalmente." Conan era apparentemente calmo, ma i pugni chiusi stretti nelle tasche fecero insospettire il vecchio scienziato.
"Non si libererà facilmente di me, caro dottore!" Esclamò, passando sotto il suo braccio ancora teso sulla maniglia della porta. Si ritrovò nell'ingresso, iniziando a guardarsi freneticamente intorno.
"Lei dov'è?"
 "Shinichi, mi ha detto che non vuole visite, non so se..."
" È di sotto vero?" Chiese retoricamente, dirigendosi verso la porta del seminterrato.
" Ma..." Non fece in tempo a terminare la frase che Conan già si era precipitato per le scale. L'eco dei passi veloci sui gradini giunse presto alle orecchie di Ai, e senza che potesse evitarlo fu invasa da un inspiegabile senso di allerta. I passi si fermarono a metà delle scale.
"Dottore, la prego, ci lasci soli."
Ancora quella voce. Aveva qualcosa di diverso ora. Riusciva a percepire qualcosa di strano. Il ticchettio delle scarpe subito riprese e lo sentiva avvicinarsi. Come avrebbe dovuto comportarsi con lui ora? Disprezzo? Indifferenza? O doveva accoglierlo a braccia aperte dopo la sua lunga assenza? Non aveva il tempo per capirlo e non aveva più tempo per nascondersi. Né dietro un tavolo, né dietro uno sguardo gelido. Non poteva perché ormai era lì, dietro di lei, e lo sentiva ansimare, la sua schiena era rimasta come unico ostacolo.
 Perché non diceva niente? Aspettava forse che si girasse? E perché poi lei si stava creando tanti problemi, perché non si decideva a guardarlo in faccia? Continuava solo a picchiettare con le dita sulla tastiera.
“Come stai?” Non si annunciò, sapeva che nonostante l’indifferenza lei sapeva che era lì. E lei non si finse sorpresa dell’intrusione improvvisa, perché sapeva che lui era consapevole di essere percepito.
‘Come stai’. Esiste una domanda più semplice? Forse è proprio la sua semplicità a rendere sempre la risposta così complicata da dare, perché lascia aperte troppe possibilità; troppe per poter essere incanalate in un “bene” o “male” senza commettere errori.
“Bene.” Furono le sole lettere che scandì, il cui eco nella stanza si infiltrò negli attimi di silenzio tra i ticchettii dei tasti che premeva e i battiti del cuore nel petto. Le dita scivolavano senza pensare sulla tastiera, ma non stava scrivendo più niente di sensato. La sua presenza la agitava terribilmente, anche se in quel momento non riusciva a comprenderne bene il motivo.
Conan non le chiese di girarsi, né di guardarlo, restò solo fermo dietro di lei con l’atteggiamento del peccatore pentito.
“Senti Ai, mi dispiace non essere venuto in ospedale.”
Prevedibile, fin troppo, e questo pensiero le fece scappare un sorriso amaro.
“Non devi preoccuparti, Kudo. La compagnia certo non mi è mancata, se è questo che ti preme sapere.”
Questa risposta, in tutta la sua freddezza, lo spiazzò, facendogli capire quanto Ai non fosse sensibile agli interessamenti riparatori. Eppure, agendo in buona fede, decise di insistere, anche se la sua indecisione su come comportarsi si rivelò in quell’istante di ritardo con il quale arrivò la risposta:
“Mi fa piacere che non ti sei sentita sola.”
Nessuna risposta.
Quanti giri di parole riteneva opportuni prima di arrivare al dunque? Ma perché diavolo restava fermo lì dietro? A che stupido gioco stavano giocando. Un tiro alla fune con i silenzi per capire chi sarebbe stato il primo a cedere. Se ci fosse stato qualcuno a cadere. Eppure era strano dover giocare proprio con lui. Shinichi era sempre stato limpido nei suoi confronti, non aveva mai dimostrato, tranne in rare occasioni, la volontà di nascondere in parole non dette i suoi stati d’animo; perché nel tono delle sue parole c’era evidentemente qualcosa che stonava con il loro contenuto. Era sempre stata lei tra i due quella crittografare gesti e parole. Anche pensieri, a volte. Ma era così confortante apprendere che lui riusciva a leggerli e a comportarsi di conseguenza. In fondo, i codici erano i suoi preferiti, no?
Sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla, forse aspettandosi che fosse il segnale giusto per spingerla a girarsi. Maledisse la sua mancanza di prontezza nell’autogestirsi quando si ritrovò a sussultare a quel tocco.
“Possiamo parlare, Ai?”
“Ti ascolto.” Esordì pacatamente, con gli occhi di vetro fissi sullo schermo. Vedendo fallire anche il suo ultimo tentativo di introdurre quel discorso delicato con le buone, Conan decise di arrivare subito al dunque.
“No Ai, devi guardarmi! E devi guardare anche questa.” Cacciò dalla tasca una foto e la piantò sulla tastiera. Shiho sgranò gli occhi.
“Tu… Tu come…” provò a chiedere, ma la risposta già le giunse chiara in mente. Era stata colpa sua, lei lo aveva mandato in quel laboratorio, lei aveva fatto in modo che la stessa persona che era quasi riuscita a purificarla la facesse sprofondare nuovamente nel ricordo…in quel ricordo. Fissava quel pezzo di carta, sentiva i suoi occhi inquisitori puntati su di lei, non riusciva a muoversi, si sentiva soffocare. Doveva liberarsi di quel nodo alla gola che non la faceva respirare, ma tutto ciò che riuscì a cacciar fuori furono gocce salate, che si staccarono come cristalli bianchi dalle ciglia chiuse per approdare su due volti vicini, molto vicini, sciogliendone il colore.
“Non sono qui per giudicarti, Ai. Volevo solo sentirmelo dire da te.”
La reazione di Ai, che lui stesso aveva previsto a quel suo gesto, si stava concretamente avverando davanti ai suoi occhi, e in quel momento gli crollarono miseramente addosso tutte le certezze, che si era scrupolosamente costruito, di aver fatto la cosa giusta mostrandole quella foto. Ogni cristallo che cadeva dai suoi occhi gli trafiggeva il petto.
 “Sei davvero sicuro che vorresti sentirlo!?” sbottò alzandosi dalla sedia, ignorando la fitta che le trapassò la caviglia, reggendosi con la mano sudata sulla tastiera che rinchiudeva nel pugno quella foto. Aveva gli occhi patinati da una superficie di lacrime ancora non espulse e le guance rigate da quelle che già avevano mostrato apertamente al ragazzo quello che stava provando. Quel gesto l’aveva portata alla stessa altezza del piccolo Conan e finalmente riuscirono a guardarsi negli occhi. Ma non potevano vedere bene, non in quel momento sospeso in una tensione così fitta da ostacolare anche la luce di uno sguardo.
Però lui voleva sapere, voleva capire cosa c’era in quel momento dietro quegli occhi verdi, e voleva che fossero loro a dirglielo.
Fu l’unico pensiero che la vocina nella sua testa quasi urlò, riassumendo in quelle parole il luccichio che comparve nei suoi occhi azzurri. E lei sembrò sentirlo quel pensiero, perché tutta la tensione muscolare nella quale aveva incanalato la rabbia cedette per un attimo, quanto bastò al detective per scorgere un velo di paura nei suoi occhi. Paura di cosa?
Sapeva di non poter obbedire a quel pensiero, non poteva permettersi di uscire così tanto allo scoperto, quindi preferì voltarsi e provare a correre verso la porta per uscire da quella situazione. Stava di nuovo scappando, cercando di sfuggire al suo passato per non dover ancora una volta affrontare i suoi ricordi; sapeva che non sarebbe mai finita, ma non pensava che gli eventi glielo avrebbero confermato così in fretta. D’altra parte, dove ci si può mai rifugiare per nascondersi da se stessi?
Ancora una volta fu lui a impedirle di scappare. La tenne ferma per un polso. Lei non si girò, né oppose resistenza. Si limitò solo ad affidarsi passivamente alla speranza che lui non affondasse ancora di più la lama nelle sue ferite ancora aperte.
Conan stringeva le dita intorno al suo polso, guardava il suo braccio teso in modo da tenersi il più possibile lontana da lui, seppur non volendo sfuggire alla sua presa. Ormai le lacrime erano state versate e lui non era riuscito a impedirlo; quindi non gli rimase altro che sferrare il colpo di grazia affrontando la situazione con una pericolosa risolutezza.
“Lo amavi, Ai? Tu hai mai amato Gin?”
 
Una smorfia di disprezzo si disegnò sul volto della bambina, che approfittò dell’occasione per stringere le palpebre più che poteva sugli occhi con l’intenzione di fermare le lacrime. Cosa poteva dirgli? Ormai quella foto che li ritraeva in quel momento così intimo era passata per le sue mani e lui gliel’aveva sbattuta in faccia senza un minimo di delicatezza, senza dimostrare, a dispetto delle sue parole, un minimo di apprensione. Questi pensieri iniziarono a prendere il sopravvento nella sua testa, il pensiero che nemmeno lui in fondo riuscisse a capirla le fece sentire un vuoto incolmabile nel petto, quel senso di smarrimento che si prova quando anche l’ultima illusione alla quale ci si aggrappa disperatamente inizia a sgretolarsi. D’altra parte, era più confortante pensare che avesse agito in quel modo per negligenza, che lo avesse fatto con la perfetta consapevolezza delle conseguenze che quel gesto avrebbe avuto su di lei.
 Nei minuti di silenzio che accompagnarono queste riflessioni, Conan era rimasto immobile. Aveva allentato la presa, cercando di scrutare tra i suoi pensieri. Sarebbe bastato un sguardo per chiarire qualsiasi equivoco. In quel momento, negli occhi del detective c’era tutta l’apprensione che Ai aveva creduto esserle stata negata, tradita dall’immagine di Gin in quella foto che le aveva ricordato di dover cercare del marcio in chiunque. Ma lei continuava a coprirsi il volto con la frangia e lui non voleva essere frainteso. Lasciò il suo polso.
“Scusami, Ai. Non volevo essere così duro. Ho trovato quella foto quando ho portato qui il raccoglitore con i dati su cui lavoravi, è scivolata ai miei piedi quando l’ho appoggiato sul tavolo. Non… non credevo che aveste condiviso così tanto. E non sapevo se fosse giusto chiederti spiegazioni proprio quando tutto è appena finito...”
-Tutto finito… ancora quella frase. Sei proprio uno stupido, Shinichi.-
“Non sarei riuscito a far finta di nulla, capisci? Lui… lui era un assassino!”
Queste parole le passarono fulminee attraverso ogni vena: quell’accusa rivolta a “lui” aveva il sapore di qualcosa di diverso. Che Gin fosse stato un assassino lo sapevano bene entrambi. Forse quello che Conan voleva dirle davvero era altro. Come hai potuto condividere dei sentimenti con lui? Era un’accusa rivolta al suo modo di amare una persona? Tu eri come lui? O forse rivolta proprio a lei?
 Ai alzò il viso dalla penombra e si girò verso di lui, fissandolo negli occhi con i suoi ancora lucidi, e sorrise. Era un sorriso particolare, un misto tra tenerezza per l’ingenuità di quelle parole e amarezza per averle sentite pronunciare. Era uno di quei sorrisi che solo lei riusciva a disegnare con le labbra, riuscendo a far parlare gli angoli della bocca ancor prima di aprirla.
“Non riesci proprio a capire che non esiste una distinzione netta tra angeli e demoni, vero Shinichi?”
Il piccolo detective non rispose. O meglio, cercò di decifrare quella domanda fissando la scienziata, quel suo sorriso, così maledettamente suo, quegli occhi dall’essenza indefinita, finché non scomparvero quando Ai gli diede nuovamente le spalle restando immobile nella penombra della stanza.
“Non sono venuto per avere una risposta, perché voglio che tu sappia che non ho intenzione di giudicarti. Ti confesso che, per quanto disprezzi il fatto che lui fosse un assassino, preferirei sentirti dire che lo amavi e che sei stata felice; che non ti ha fatto del male, anche se so che non è così.”
Vide Ai alzare la testa al soffitto, forse per impedire alle lacrime di ricominciare a scorrere, e ottenne quella conferma che gli causò un tonfo al cuore. Tutto quello che riuscì a pronunciare per mascherarlo furono delle parole di consolazione.
“Non puoi liberarti di quello che è stato, Ai. Ora che non hai più niente da temere, vorrei solo vederti felice. Non devi ostinarti a voler affrontare tutto da sola. Perché quando certi ricordi diventano troppo pesanti da poterli sostenere da sola devi ricordarti che ci sono sempre io al tuo fianco.”
Quelle parole così inaspettate, così calde, che senza saperlo confutarono ogni singola ipotesi oggetto dei suoi frenetici pensieri di qualche minuto prima, riempirono nuovamente quello spazio vuoto che le era rimasto in corpo. Quella piccola grande attenzione da parte del detective riuscì nell’intento di farla sentire un po’ meglio, e, distruggendo il muro di diffidenza che aveva creato tra loro, si girò verso di lui.
Conan, rimasto fermo in attesa di un riscontro, fu confortato da quel gesto e glielo dimostrò con un sorriso.
“Allora mi prometti questo, Ai?”
Promettere. Lei non è il tipo di persona da fare promesse che sa di non poter mantenere. Come poteva dirgli che la sua intenzione di aiutarla, per quanto nobile, non sarebbe stata sufficiente?
-Le stampelle…- Si accorse in quel momento che fino ad allora era rimasta immobile al centro della stanza senza alcun tipo di aiuto; forse era stata la rabbia a tenerla in piedi, e l’agitazione le aveva fatto trascurare il dolore. Ora che aveva scaricato queste emozioni, il rendersi conto di quella sua condizione di precarietà fisica oltre che mentale, le causò un’improvvisa debolezza alla caviglia, che le fece perdere il controllo della gamba. Crollò sulle ginocchia con un verso di dolore.
“Ai!” urlò Conan sporgendosi verso di lei. “Che ti succede?”
Si massaggiò il piede, mentre alzò la testa per rispondergli, con la fronte aggrottata, cercando di racimolare un minimo di consapevolezza di se.
“Evidentemente non riesco ancora a tenermi in piedi a lungo.”
“Sei proprio un’incosciente, non dovresti sforzarti così. Su appoggiati, ti aiuto a rialzarti.”
Si accovacciò accanto a lei in modo che potesse allungare un braccio intorno al collo. La mano di Ai scivolò senza intoppi sulle spalle del piccolo Conan, finché non incastrò il gomito intorno a collo. Raggiunta quella posizione che avrebbe reso più stabile la risalita, Conan fissò con le dita della sua mano quella di Ai sulla spalla. Si rialzò e trascinò in piedi anche lei.
La mano di Ai aveva stretto quella spalla con una forza forse eccessiva rispetto a quella necessaria per consentire all’operazione di andare a buon fine. Forse, lui era davvero in grado di darle il suo aiuto e in quel momento lei lo stava accettando; e nel farlo promise a se stessa che avrebbe fatto di tutto affinché questo non diventasse il suo specchietto per le allodole. Le stava dando il suo aiuto, non il suo amore; questo non doveva dimenticarlo e se lo sarebbe fatto bastare.
 E quella camicia tenuta così stretta tra le sue dita fu una risposta più eloquente di qualsiasi altra parola alla domanda del piccolo detective.
   
 
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