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Autore: EffyLou    06/09/2017    1 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
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I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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8 - Divergenzen zwischen Trollmann

 
 
11 novembre 1932

Un paio di giorni prima Johann aveva combattuto a Berlino contro Hein Domgoergen.
Era un peso medio di settantatré chilogrammi, una decina d’anni più grande di Rukeli.
La foto che pubblicò Box-Sport dell’incontro inquadrava Trollmann con le gambe estremamente divaricate come era solito a metterle lui, il destro alto e il sinistro più basso, il busto leggermente spostato indietro per schivare il colpo dell’avversario. Il piede sinistro di Domgoergen pestava leggermente quello di Johann.
A causa delle gambe divaricate di Johann in quella foto, Box-Sport non perse occasione di scrivere un articolo dal vago tono sfottò. L’incontro finì pare, e la rivista di settore sottolineò il fatto che era un esito ingiusto, che andava compresa l’età “avanzata” di Domgoergen e premiata.



Trollmann contro Domogoergen, 9 novembre 1932, Berlino, Spinchernsaele.



Frieda aveva avuto i suoi tre giorni di permesso e il giorno dell’incontro, l’undici novembre, aveva preso il treno all’alba con Johann fino ad Hannover. Si erano sistemati nella stanza di un albergo in centro e poi erano andati a Tiefenthal, a casa di Johann.
Era un ambiente molto piccolo, c’era puzza di umido. Ma a Frieda non diede fastidio, era abituata all’odore di feci di cavallo, c’era poco da fare la schizzinosa.
In casa c’erano Friederike Weiss che fumava il sigaro, Albert e Julius giocavano a carte.
Carlo era con la famiglia, sua moglie Erna. Ferdinand con Mausi, la sua fidanzata. Le tre sorelle erano ognuna per conto proprio, con i mariti, i figli, da qualche parte ad Hannover. Stabeli era con suo padre Schnipplo, in giro per le strade a suonare il violino.

«Sono tornato!» cantò Johann, aprendo la porta dell’appartamento con quel suo fare trionfale e teatrale.
«Oh no» piagnucolò Mauso, prima di lanciargli un sorriso.
Mauso veniva soprannominato così fin da bambino perché aveva il visetto da topo. Aveva ventidue anni, tre in meno di Johann, praticamente la stessa età di Frieda.
Albert si accorse della ragazza dietro Rukeli, «C’è una signorina!»
Lui, invece, aveva diciannove anni. Si allenava come pugile alla Sparta Linden. Aveva successo con le donne, pur non essendo bello come Rukeli, Stabeli o Carlo. Aveva talento, fin da quando era bambino.
Friederike aveva cinquantotto anni. Una rete fitta di rughe le circondava gli occhi e sembrava più anziana di quanto non fosse. I capelli, neri e legati, non avevano segni di vecchiaia. Gli occhi erano neri, infossati, e portava grandi orecchini d’oro. Si sporse per vedere la ragazza, che Johann aveva circondato con un braccio e trascinato dentro.
«Vi presento Frieda, la mia fidanzata»
«È biondissima!» commentò Benni.
«Sì, sì. Non guardarla troppo che la sciupi» gli fece un cenno con la mano, prima di scompigliargli i capelli neri.
Poi indicò a Frieda i suoi fratelli e sua madre, presentandoglieli. Lei li guardava, era così diversa da loro, selvaggi e tenebrosi. Friederike aveva una punta di severità nello sguardo, ma i fratelli di Johann la guardavano con curiosità e simpatia.
«Ragazza mia» si avvicinò Julius, «devi odiarti proprio tanto per stare con uno come Rukeli. Sei ancora in tempo. A meno che non sei mezza matta pure tu, s’intende»
Johann alzò gli occhi al cielo, «Mi fai cattiva pubblicità»
«Quanti anni hai, cara?» le domandò Friederike, un sorriso conciliante.
«Ventidue compiuti a settembre, Frau Trollmann» rispose Frieda, ricambiando il sorriso.
«Ah, come Mauso.» indicò il figlio che poco prima stava parlando con lei «Tre anni meno di Johann»
«Sì, ma lei sembra una bambina» giocò Rukeli, appoggiandosi alla testa di Frieda col braccio, come a voler marcare l’elevata differenza d’altezza.
«Lei sembra, tu lo sei.» Friederike lo colpì con un giornale sulla testa riccioluta, lui scoppiò a ridere «Bambinone»
«Chi è giovane nello spirito non invecchia, io non invecchierò mai» si difese, gonfiando il petto con orgoglio.

La madre non gli rispose. Con i tumulti che stavano avvenendo in Germania, cominciavano a crollare le sicurezze. E loro erano zingari. Lui non voleva invecchiare, ma d’altronde invecchiare significava aver vissuta la propria vita per intero. Pregò che quel suo figliolo scapestrato sarebbe invecchiato, un giorno.

«Frieda è cosacca» informò sua madre, sedendosi su una delle sedie. La ragazza restò in piedi, si appollaiò sulla schiena leggermente curvata di Johann, appoggiato con i gomiti sul tavolo.
«Russia?» le domandò la donna, incuriosita.
«Ucraina» le sorrise l’altra.
«Ah, i cosacchi che non si piegano a Stalin. Siete un popolo fiero».

Rukeli guardò la ragazza, intuendo i suoi pensieri. La mente di lei era corsa al genocidio che proseguiva indisturbato in Ucraina. I cosacchi stavano venendo sterminati proprio perché non volevano piegarsi a Stalin. Il loro orgoglio, la loro dignità e il loro onore era diventato la loro morte.

«Ho sentito dire» indagò Mauso, «che avete una lingua vostra»
«Beh, di solito parliamo la lingua del Paese in cui siamo stanziati.» rispose Frieda «Nel caso della mia famiglia parliamo l’ucraino e un po’ di russo per via dell’Unione Sovietica. Io, mio padre e mio cugino anche il tedesco, io soprattutto perché sono nata e cresciuta in Germania. Tra i cosacchi però si parla il cosacco, sì, ovvero il kazako»
«Parli quattro lingue, maledizione. Non me l’hai mai detto» brontolò Johann.
«In realtà il russo non lo conosco. Solo qualche parola.» gli diede un bacio tra i capelli «Il kazako può essere scritto sia con l’alfabeto cirillico, che latino, che arabo. Ma in realtà è una lingua turca con varie influenze. Vi confesso che io non so scrivere né in ucraino né in kazako, solo in tedesco»
«È un po’ come noi» commentò Albert, «che parliamo la lingua del Paese che ci ospita ma tra noi parliamo il romanì».

Friederike la guardò a lungo. Il visetto di quella ragazza era sui giornali nel ’28 e nel ’29. La campionessa d’equitazione a cui avevano tolto il titolo perché cosacca. Una fanciulla apparentemente ariana che condivideva lo stesso destino degli zingari, un fato comune riservato ai nomadi e ai reietti. Avrebbe preferito una ragazza sinti per il suo bambino, però lei apparteneva agli “zingari” dell’est Europa. Condividevano, se non altro, un cuore libero.
I cosacchi erano gente fiera: “Famiglia, libertà, onore” era il loro motto. La famiglia posta persino prima della libertà e dell’onore, i bambini venivano educati secondo quel concetto. Erano più vicini ai sinti di quanto non fossero altri. I loro cuori e la loro stazza erano forgiate dai venti delle steppe, dal calore dei cavalli. Duri e glaciali solo all’apparenza; un fuoco sotto la cenere ribolliva nelle loro vene.




A pranzo, Frieda fece la conoscenza del resto della famiglia Trollmann. Tutti volevano conoscere la fidanzata di Johann. Conoscevano il ragazzo, sapevano che era un farfallone con le donne, ma solo perché non aveva trovato quella giusta. Che, a quanto pareva, sembrava essere Frieda. Gli si leggeva negli occhi, nessuno l’aveva mai preso così tanto.

Nel pomeriggio, andarono a passeggio con quasi tutti i fratelli e le loro fidanzate.
Johann teneva Frieda a braccetto, gli piaceva mostrarsi con lei. La gente di Hannover lo riconosceva, lo salutava, lo osannava, gli faceva i complimenti. E lui si fermava volentieri a scambiare due parole con chiunque gli capitasse a tiro, si fermava per dare due calci ai palloni con cui giocavano i bambini in strada e poi si metteva a ridere con loro. Qualcuno di loro lo riconosceva e gli chiedeva di farsi insegnare due mosse di boxe, allora lui si improvvisava allenatore.
A Frieda raccontò delle sue prime volte in cui tirava di boxe, quando ancora non aveva messo piede in una palestra. Aveva cominciato per gioco, un suo amico più grande gliene aveva solo parlato.

«Andavo nelle campagne sul Leine, che ci stavano le fattorie» le disse, seduto su un muretto con le mani nelle tasche, «e cominciavo a fare la lotta con gli animali. Nel mentre facevo anche il cronista. “Rukeli è implacabile, sta combattendo contro tre temibili avversari! La capretta sta cercando di incornarlo ma lui è più veloce, e la mette al tappeto. La gallina prova un assurdo attacco d’ali ma anche lei viene messa fuori gioco. Ed infine ecco il tacchino, è cattivo, pronto a colpire Rukeli. Ma va giù anche lui!”.» simulò grida mute, come una platea invisibile che lo acclamava «“Rukeli Trollmann vince l’incontro!” E nella mia testa partivano gli applausi scroscianti. Poi l’allevatore mi vedeva e mi rincorreva con un forcone. Fine della magia».

Solo più avanti avrebbe scoperto il mondo del pugilato, nel fango tra le strade della città vecchia. Era molto popolare tra i bambini e i ragazzi zingari, che però avevano una versione tutta loro: infatti usavano anche le gambe. Proprio ciò che Johann faceva sul ring. Le danze gitane portate sul quadrato.
Frieda scoppiò a ridere gettando la testa indietro e aggrappandosi al suo braccio. Johann la guardò con un sorriso divertito, poi le comprò un po’ di zucchero filato.

Le altre donne erano Erna, Mausi e Franziska, rispettivamente le fidanzate di Carlo, Ferdinand e Julius. Carlo ed Erna si erano sposati, Ferdinand e Mausi avevano in programma di farlo a luglio dell’anno successivo, Julius e Franziska non ci pensavano neanche.
Le donne camminavano a braccetto davanti ai loro rispettivi compagni, ridevano e chiacchieravano di tutto.
C’era Frieda, la più piccola d’età e di statura, che camminava più esterna perché doveva divorare il suo zucchero filato; Erna aveva le mani piccole e la braccia paffutelle, con lunghi capelli nocciola; Mausi era eterea, sottile come una spiga di grano, i capelli neri e ricci tagliati fin sotto le orecchie, ancora seguace della moda americana flapper; Franziska camminava esterna come Frieda, era alta e un tantino tarchiata, i capelli castano scuro di lunghezza media e il cappellino.
Tra le chiacchiere, l’unica risata che si distingueva era quella di Frieda. La più squillante e vistosa. Le altre ragazze le facevano segno di fare più piano, non era carino attirare l’attenzione. Ma puntualmente, la ragazza rideva a crepapelle.

Johann non riusciva a smettere di guardarla. Non le staccava gli occhi di dosso. Julius gli mollò una gomitata.
«Accidenti, Rukeli, te la stai mangiando!»
«Se ti fa stare meglio mi metto a guardare gli uomini»
«Che intenzioni hai con lei?» gli domandò Carlo, le mani in tasca e una sigaretta penzolante tra le labbra.
Carlo era votato allo studio, al matrimonio, al lavoro, alle regole. Erano cose a cui teneva.
«Non corriamo troppo, stiamo insieme da giugno ed è novembre. Una cosa per volta» Johann alzò le mani, come a difendersi.
«Metterai mai la testa a posto?» domanda retorica.
«Ho ventiquattro anni» lo disse con un tono esasperato, «non voglio mettermi a pensare che devo mettere su famiglia ad ogni costo. C’è tempo, prima voglio divertirmi»
«È questo il tuo problema, Rukeli. Tu vuoi solo divertirti. Comincia a prendere qualche responsabilità, non l’hai mai fatto. Tutti noi abbiamo cominciato a lavorare presto per aiutare la famiglia, tu no. Tu hai sempre fatto come volevi, non hai lavorato e ti sei messo a tirare pugni ad un sacco appeso ad un gancio».
Carlo era implacabile. Lolo e Mauso si scambiarono un’occhiata, fu Julius a cercare di rabbonire gli animi.
«Dai Carlo, non te la prendere così. È la sua vita e ne fa ciò che vuole».

Gli occhi neri del maggiore trafissero il più piccolo, che tornò da Ferdinand in silenzio.
Rukeli lanciò un’occhiata in tralice al fratello maggiore. L’aria di sfida.

«Ho vinto quattro campionati da dilettante, ho portato dei soldi alla famiglia. Non significa che io abbia faticato meno di voi»
«Noi eravamo in strada a prenderci gli insulti della gente. Io ero sui libri da mattina a sera per prendere un pezzo di carta che mi avrebbe permesso di tirarmi su da questa poltiglia. Tu neanche quello hai voluto fare, neanche il diploma!»
«Quindi per te questo è il problema? Gli insulti della gente? Credi che io non li abbia mai presi solo perché tiro di boxe?» erano domande che suonavano come esclamazioni sgomente «Per quanto riguarda lo studio, sei l’unico che ha dei titoli».
Johann vide Frieda voltarsi, attirata dai toni di voce agitati. Erna vicino a lei la costrinse a voltarsi di nuovo: una donna non doveva impicciarsi quando due uomini discutevano.
«Rukeli sto solo dicendo che è ora che tu la smetta di far finta di essere solo al mondo, seguendo puramente l’istinto. Cerca di essere più razionale, prendendo responsabilità. Comincia sposando quella ragazza»
«Non ci voglio pensare ora. Mi piace così la mia vita. Quando e se mi sposerò sarà perché lo voglio io, non perché lo vuoi tu» archiviò, e la discussione cadde.

Carlo sapeva che non poteva insistere con Johann se aveva già preso una decisione. Ma la testardaggine era una prerogativa di tutti i Trollmann, quindi di tanto in tanto ci riprovava a fargli capire l’importanza delle responsabilità e del mettere su famiglia.
Rukeli aveva lanciato un’occhiata al cielo che cominciava ad assumere tinture rosse e arancio, alle loro spalle era già quasi nero. Controllò l’ora sull’orologio da polso. Avevano poco tempo per mangiare e andare alla Sparta Linden per il combattimento di Paul Schubert.

Johann si fermò in mezzo al marciapiede, infilò una mano in tasca.
«Frieda» la chiamò, senza alzare la voce.
Lei si voltò per guardarlo e senza che lui le dicesse niente la ragazza salutò tutti gli altri con strette di mano e baci sulle guance, e lo raggiunse prendendogli la mano che non aveva infilato in tasca.

Si fermarono a mangiare uno spuntino veloce in un bar. Johann durante la cena era scuro in volto, non gli andava di parlare e assecondare il buon umore di Frieda. Rimuginava sulle parole del fratello.
Poi, dopo essere usciti, lei lo costrinse a fermarsi e gli si piazzò di fronte. Affondò gli occhi di cielo in quelli neri di Rukeli, prendendogli il volto tra le mani.
«Non tenermi il broncio» gli sorrise, conciliante, «fammi un sorriso dei tuoi» gli tirò le guance cercando di farlo sorridere un po’.
«Non mi va, bambina» le mise le mani sui polsi sottili.
«Metti da parte la discussione con Carlo. Per il momento non stare imbronciato, godiamoci la serata e l’incontro del tuo amico».
Lui sospirò dal naso, alla fine le diede un bacio sulla fronte. Frieda aveva ragione. Perché se la prendeva tanto per Carlo? Lui non condivideva le sue scelte di vita ma mica gli diceva niente.
C’erano sempre state un po’ di divergenze tra i due, per via delle personalità profondamente diverse. Johann era più libero, faceva scelte in base a ciò che prevedeva per il suo futuro, e si comportava in base a quanto gli comunicava il suo istinto. Carlo era attaccato a regole e dettami, dogmi che sarebbero dovuti essere presenti e radicati anche in Rukeli, ma che non avevano attecchito sullo spirito libero del ragazzo. Per questo, agli occhi del fratello maggiore, era un irresponsabile.


 

Alla palestra della Sparta Linden c’erano tutti i suoi vecchi compagni e l’allenatore che a lungo aveva seguito Rukeli, cercando di inculcargli nella testa una tecnica che non gli apparteneva. Alla fine aveva rinunciato e aveva imparato ad apprezzare lo stile leggero e imprevedibile del ragazzo.
Tutti si complimentarono con Johann, visti gli ultimi risultati. Ma lui scartava i discorsi come vento tra le fessure, la stella della serata era Paul.
Prese posto alle prime file con Frieda ed Albert, ma era già pronto a scattare di nuovo in piedi ed andare all’angolo dell’amico. Come sempre.

Quando Frieda vide Paul, inarcò le sopracciglia. Era un tipo magrolino, neanche molto alto, i capelli biondi ben pettinati.
«Prevedo uno zigomo rotto, come minimo» mormorò.
Johann alzò un sopracciglio, si avvicinò con le labbra al suo orecchio, «Schiva colpi come niente fosse, ha un busto molto elastico»
«Menomale» si limitò a dire.

Il suo avversario era un po’ più piazzato. Ma si parlava sempre di un incontro dilettantistico nella categoria leggeri.
Il ragazzo si scusò, e si alzò per andare all’angolo dell’amico, accanto al suo secondo; prese il suo posto, mettendosi l’asciugamano intorno al collo, sopra la camicia. Arrotolò le maniche fin sopra il gomito e infilò le mani nelle tasche dei pantaloni grigi, osservando il ragazzo che combatteva.
Ogni tanto gli urlava un consiglio e alla fine di ogni round, quando Paul si sedeva al suo angolo, Johann gli stava accanto asciugandogli il sudore dal viso, facendolo bere e massaggiandogli le spalle. Poi lo rilanciava al centro del ring.
Dopo sei riprese, dichiararono Paul vincitore ai punti. Sul ring si riversarono gli amici e i sostenitori del ragazzo, per abbracciarlo. Qualcuno aveva preparato una tavolata di birre per festeggiare la vittoria – non importava di chi.

Johann abbracciò l’amico, dandogli pacche sulla schiena. Si scostò tenendo il braccio sulle sue spalle e chiamò l’attenzione di qualcuno vicino alle birre. «Amico, porta qui un boccale per il campione!»
E quello aveva obbedito. Sciolse l’abbraccio e prese il bicchiere che veniva passato tra le corde del quadrato. Paul aveva ancora i guantoni, aveva la faccia sudata e sorridente.
«T’aiuto io» se n’era uscito Trollmann e tenne il boccale di birra aiutando l’amico a bere, visto che la mano era ancora infilata nel guanto.
La differenza fisica tra Johann e Paul era notevole. Il sinti superava di almeno due spalle il ragazzo tedesco, era più massiccio. Rukeli fece un cenno a Frieda ed Albert, invitandoli a raggiungerli sul ring.
«E lei?» domandò Paul, alzando un sopracciglio.
«È la ragazza che ti dicevo tempo fa, Frieda» sorrise «Solo che prima era mia amica, ora è la mia donna»
L’amico gli scoccò un’occhiata, notando il modo in cui Johann guardava quella ragazza. Lo conosceva da tanto tempo, ma non aveva mai visto quello sguardo.
«Accidenti, e quello sguardo? Non dirmi che ti sei innamorato!»
Rukeli abbozzò un sorriso, «Può darsi».

Albert aiutò Frieda a salire sul ring, impedita dalla gonna. La ragazza imprecò a denti stretti, ma Benni la sentì e scoppiò a ridere. Johann tese una mano alla ragazza, attirandola poi a sé, mentre il fratello salutava Paul e si congratulava per la vittoria.
«Paul, ti presento Frieda» la presentò come se fosse un bene preziosissimo da non toccare per nessun motivo.
La ragazza strinse la mano del giovane pugile, che si era tolto i guanti e gli restavano le dita fasciate. Gli bastò sentire la stretta di Frieda, salda e sicura, per capire che tipa doveva essere.
«È un piacere. Mi ha parlato di te» le indicò Johann con un cenno del capo.
«Anche a me ha parlato di te.» gli strizzò l’occhio «Complimenti per la vittoria!»
«Ti ringrazio. Felice che vi siate divertiti, io sono un po’ ammaccato. La vittoria fa male a volte.» sorrise «Vado a salutare gli altri. Vogliamo andare a mangiare qualcosa appena ho finito qui?»
«Muoviti che ho così fame che potrei mangiarmi una vacca. Ti aspettiamo fuori» rispose Johann, gli occhi che brillavano di divertimento.
Albert seguì Paul per salutare i loro amici.

La ragazza si voltò verso Rukeli, e gli tolse l’asciugamano dalle spalle gettandolo sulle corde.
«Ti sei fatto prendere, guarda come hai ridotta la tua povera camicia» gli sistemò il colletto, con un sorriso da furfante. Lui non le rispose, si limitò a sbuffare un sorriso e lasciarsi sistemare, posandole le mani sui fianchi.
«Sono Johann Trollmann e mi agito solo guardando i miei amici» gli fece il verso, modificando la voce per renderla più profonda, mentre stringeva il nodo della cravatta di Johann.
Le afferrò delicatamente il mento tra le dita per sollevarle il viso, «Ti butto giù dal ring» le intimò, alzando il sopracciglio destro, tagliato da una cicatrice pallida.
Frieda lo tirò per la cravatta, costringendolo ad abbassarsi per arrivare alle sue labbra.
«Buttati giù tu, zingaro» gli sussurrò, facendolo scoppiare a ridere.

 



Johann Trollmann e Paul Schubert, Hannover 1932.
   
 
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